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di Davide de Bari
La Procura di Messina ha deciso di richiedere l’archiviazione dell'ultima inchiesta sull'omicidio del giornalista Beppe Alfano, ucciso dalla Mafia a Barcellona Pozzo di Gotto, l'8 gennaio 1993. Ora il Gip dovrà valutare le prove e decidere se riaprire nuovamente le indagini o archiviare.
Il fascicolo, da quando è stato aperto nel 2003, dopo le dichiarazioni della figlia, Sonia Alfano sui depistaggi nelle indagini sui mandanti, è “sopravvissuto” a varie richieste di archiviazione in particolare grazie all’opposizione del legale della famiglia, Fabio Repici. Nel 2014 il nuovo impulso investigativo grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Carmelo D'Amico, ex capo dell'ala militare di Cosa nostra nella zona, e suo fratello Francesco. Dichiarazioni che portavano all’individuazione di nuovi responsabili del delitto nonostante per l'uccisione di Beppe Alfano siano stati condannati, con sentenza passata in giudicato, Giuseppe Gullotti (ergastolo) come mandante, e Giuseppe Merlino (21 anni e 6 mesi) quale autore materiale, sicario che il pentito barcellonese ha dichiarato essere innocente. Nel registro degli indagati finirono il 41enne barcellonese Stefano Genovese, killer “a pagamento” e fedelissimo del boss Giuseppe Gullotti, con l’accusa di aver preso parte a quell'esecuzione dell’omicidio Alfano, e Basilio Condipodero, che secondo i pentiti, avrebbe fatto da basista per coprire la fuga.
Il procuratore aggiunto Vito Di Giorgio nella richiesta, vistata dal Procuratore capo Maurizio De Lucia, come riporta "La Gazzetta del Sud", spiega che "la pista investigativa che si è concentrata su Genovese Stefano e Basilio Condipodero si è dimostrata poco concreta in termini di rilevanza probatoria; al di là delle dichiarazioni rese da D'Amico Carmelo, nessun altro elemento di riscontro è stato acquisito a sostegno del coinvolgimento dei due indagati”.
Al di là del dato, però, sulla morte del giornalista restano ancora tanti dubbi e misteri. Un altro argomento trattato nel documento riguarda "gli accertamenti finalizzati a dimostrare un collegamento tra l'omicidio del giornalista Giuseppe Alfano e la latitanza di Nitto Santapaola nel barcellonese”. Questi, ha scritto il pm, "hanno messo in luce punti di contatto tra i due aspetti (effettivamente Alfano stava compiendo indagini giornalistiche su detta latitanza). Tuttavia non è possibile affermare con certezza che quelle indagini siano state la causa della sua morte; in ogni caso, anche a voler dare per accertato tale assunto, non si dispone di alcun elemento per individuare gli autori del fatto". Sempre D’Amico ha riferito ulteriori elementi sulla presenza di Nitto Santapaola nel messinese. “In proposto D’Amico ha dichiarato che Santapaola si nascondeva a Barcellona quando Beppe Alfano fu ucciso. - ha scritto il pm Di Giorgio - Egli, in particolare, ha ricordato di aver saputo dal sodale Sam Di Salvo che, quando venne commesso a Barcellona l’omicidio di Giuseppe Iannello, Nitto Santapaola già era presente in quel territorio”. Per queste dichiarazioni di D’Amico, i magistrati tornarono sull’ipotesi investigativa riguardo la questione della mancata cattura del boss Nitto Santapaola, che avrebbe trascorso l'ultima fase della sua latitanza proprio a Barcellona. Cosa di cui Alfano sarebbe stato a conoscenza e, secondo un filone dell’inchiesta, per questo la mafia avrebbe ordinato di assassinare il giornalista. Di questo ne è convinta anche la figlia Sonia Alfano, secondo la quale il padre venne ucciso proprio per aver rivelato al pm Canali la presenza di Santapaola a Barcellona.

La mancata cattura di Nitto Santapaola
Ma che il boss catanese si nascondesse in quelle zone era emerso anche nell’ambito di un’indagine che il Ros di Messina stava conducendo e che il pm di Messina ha ricordato nel decreto di archiviazione. Una vicenda anche nota come la mancata cattura di Santapaola a Terme Vigliatore.
In data 1 aprile, da un’intercettazione negli uffici di un certo Domenico Orifici, cugino del boss Barcellonese Sem Di Salvo in via Verdi 7 a Terme Vigliatore, venne captata una conversazione con un certo zio Filippo che, in dialetto catanese, parlava di un pentito che lo accusava.
In data 5 aprile, lo stesso zio Filippo, continuava a parlare, negli stessi uffici, del delitto dalla Chiesa e di beni sequestrati. Alle 17.05 di quello stesso giorno Orifici, confessò al figlio l’identità di zio Filippo: “Quello era Nitto Santapaola”.
Il maresciallo Scibilia che aveva ascoltato quelle conversazioni informò della presenza del latitante il colonnello del Ros, Mario Mori, il quale disse che “avrebbe provveduto”.
Il 6 aprile, giorno in cui si sarebbe dovuta tenere l’operazione per l’arresto del latitante catanese, però, accaddero una serie di eventi alquanto anomali come un inseguimento ed una sparatoria contro un giovane (il figlio dell'imprenditore Mario Imbesi), scambiato per l'allora latitante Pietro Aglieri, e contestualmente, così come venne ricostruito nel processo d'appello Mori-Obinu, vi fu anche una perquisizione nella stessa villa degli Imbesi molto vicina agli uffici di Orifici.
Tra i protagonisti di questi episodi vi fu il capitano Sergio De Caprio, anche noto come Ultimo, che ha sempre spiegato di essersi trovato in quei luoghi "casualmente" insieme al capitano Giuseppe De Donno ed altri membri della sua squadra.
Certo è che dopo quei fatti Santapaola non si recò più nel luogo dove era stato individuato e la polizia lo arrestò solo il mese dopo, il 18 maggio.
Riguardo la mancata cattura del boss catanese, il magistrato Di Giorgio ha evidenziato come emerga un “quadro complessivo, già di per se abbastanza incerto ed opaco diviene ancora più fosco se si analizza il comportamento di alcuni appartenenti nel tempo alla Sezione anticrimine dei Carabinieri di Messina i quali in quel periodo, si occuparono delle intercettazioni ambientali presso l’ufficio di Orifici Domenico e che, come si è già detto, pur avendo avuto contezza della presenza del Santapaola in località Marchesana di Terme Vigliatore, non procedettero all’arresto di quell’importantissimo latitante”.
Ma Di Giorgio va anche oltre: "In realtà non si è mai compreso per quale motivo le auto del Ros, durante il viaggio di ritorno da Messina verso Palermo, ad un certo punto abbandonarono l'autostrada per imboccare una strada assolutamente secondaria ed appartata come quella di via Censimento, in località Marchesana di Terme Vigliatore; non si è mai compreso come fu possibile scambiare il malcapitato Imbesi Fortunato, di non più di vent'anni allora, per il latitante palermitano Pietro Aglieri, molto più grande; ma ciò che più sorprende è la singolare coincidenza costituita dal luogo e dal momento in cui ebbe inizio quel particolare 'inseguimento': la via Censimento in località Marchesana di Terme Vigliatore, un luogo posto, come già detto, a pochissima distanza dal nascondiglio che utilizzava in quei giorni Nitto Santapaola; tutto ciò il giorno immediatamente successivo a quello in cui il Ros, grazie all'estrapolazione della voce di 'Zio Filippo' ed alle successive informazioni assunte dal Maresciallo Scibilia, aveva acquisito la certezza definitiva che in quei luoghi si trovava Nitto Santapaola". Il procuratore aggiunto messinese ha anche evidenziato le contraddizioni emerse durante le indagini della Procura generale di Palermo proprio al processo d'Appello contro Mario Mori e Mauro Obinu, assolti dall'accusa di favoreggiamento del boss Bernardo Provenzano per il mancato arresto a Mezzojuso nel 1995. "Gli uomini della squadra del capitano De Caprio che avevano preso parte all'inseguimento del presunto Aglieri - scrive nel documento il magistrato - nelle loro relazioni di servizio ammettevano concordemente di non essersi trovati lì per caso, ma di essere stati appositamente convocati e fatti scendere anche da altre parti di Italia per trovarsi quella sera a Barcellona P.G. (così smentendo quanto affermato da De Caprio e De Donno circa un loro passaggio casuale in quel luogo); agli atti veniva rinvenuto un verbale di perquisizione domiciliare eseguito presso la casa di Imbesi Fortunato piuttosto 'anomalo', in quanto privo della firma dello stesso soggetto perquisito, ed addirittura recante la firma di un verbalizzante falsificata (tale Pinuccio Calvi), per come riferito da tale ultimo soggetto, il quale non riconosceva la propria firma". Ma questa, è un'altra storia.

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