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di Davide de Bari
Quarantuno anni dopo l’omicidio oggi si torna a fare memoria

“Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi! Prima di abituarci alle loro facce! Prima di non accorgerci più di niente!”. Sono queste alcune delle celebri parole di Peppino Impastato ucciso da Cosa nostra il 9 maggio 1978. La storia di Peppino è quella di un ragazzo cresciuto in una famiglia mafiosa: suo padre Luigi Impastato era mafioso e sua zia aveva spostato Cesare Manzella, capomafia di Cinisi nel dopoguerra che fu poi ucciso con un'autobomba il 26 aprile 1963. Con ogni probabilità Peppino era destinato a diventare un boss, ma dentro di lui c’erano interessi e passioni che lo portarono ad allontanarsi da quel cammino.
Peppino andò a scuola e frequentò il liceo di Partinico e già da ragazzino mostrò un interesse particolare alla politica. Poi, nel’68, il suo interesse divenne anche impegno ed attivismo. “Approdai al PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, ndr) con la rabbia e la disperazione di chi, al tempo stesso, vuole rompere tutto e cerca protezione. - scriveva Peppino nel suo diario - Creammo un forte nucleo giovanile, fondammo un giornale (chiamato ‘L’idea socialista’, ndr) e un movimento d’opinione, finimmo in tribunale e sui giornali. Lascai il PSIUP due anni dopo, quando d’autorità fu sciolta la Federazione giovanile. Erano i tempi della rivoluzione cultura e del ‘Che’. Il ’68 mi prese quasi alla sprovvista”. Nell’autunno del 1972, il giovane aderì a “Lotta Continua” e fu in questo periodo che conobbe figure come Danilo Dolci e Mauro Rostagno, personaggi influenti della formazione politica di Peppino.
Peppino si occupò anche delle lotte per la difesa delle campagne dei contadini che dovevano essere utilizzate per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo dietro alla quale non mancavano interessi speculativi della mafia. Il suo impegno e le sue denunce entravano dunque in contrasto con gli interessi della criminalità organizzata il che lo portò a scontrarsi con la sua stessa famiglia, in particolare con il padre.
La vera svolta nell’attività di denuncia di Peppino fu la creazione di una radio per denunciare il malaffare. Insieme ai suoi compagni riuscì ad aprire una piccola emittente chiamata “Radio Aut”, diventando così un giornalista senza tessera che con coraggio faceva controinformazione. “Trovammo subito anche la casa (a Terrasini, ndr), piccola, scomoda e piena di umidità, in corso Vittorio Emanuele, non lontano da piazza Duomo. - ha raccontato in più occasioni uno dei compagni di Peppino, Andrea Bartolotta - Si decise, su proposta di Peppino, di chiamarla Radio Aut e, alla fine di aprile ’77, cominciarono le prime prove di trasmissione, sulla frequenza di 98,000 mhz”. Fu da questa radio che Peppino Impastato lanciò le numerose denunce contro il potere mafioso di Cosa nostra, in particolare riguardo Tano Badalamenti, divenuto dopo Manzella il capomafia di Cinisi.
Trasmissioni irriverenti, sfacciate, che tramite la satira dicevano quello che tutti sapevano ma che non volevano dire. “Ed ecco tutti i grandi capi delle grandi famiglie indiane, c’è Mano cusuta, o Cusuta mano, poi c’è Quarara calante, eccolo là con il suo bel pennacchio, poi c’è anche l’esploratore di Pari, deve essere un Pari di Inghilterra, e infine a presiedere questa seduta c’è il grande capo, ci sono i due grandi capi: Tano seduto e Geronimo Stefanini, sindaco di Mafiopoli. - diceva il giovane nel suo programma “Onda pazza” il 7 aprile ’78 - Sì, i membri della Commissione discutono… c’è qualche divergenza ma sono fondamentalmente d’accordo. Sì, si stanno mettendo d’accordo sull’approvare il progetto Z-11”.
Per Cosa nostra fu l'ennesimo affronto. Quell’esperienza procedette in parallelo all’impegno politico, tanto che nel 1978 decise di candidarsi all'interno della lista di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali.

peppino impastato striscione

Nel corso della campagna elettorale, però, la notte tra l’8 e il 9 maggio 1978, Peppino fu rapito, torturato ed infine ucciso nel modo più terribile. Dopo essere stato picchiato violentemente fu legato ai binari della ferrovia dove, con una carica esplosiva, il suo corpo fu fatto a pezzi. Il tutto avvenne nello stesso giorno in cui fu ritrovato il corpo senza vita del presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro, sequestrato dalle brigate rosse il 16 marzo dello stesso anno. Ma contro Peppino fu messo in atto il più grave dei “mascariamenti” avviando una vera e propria macchina del fango.
Stampa, forze dell’ordine e magistratura parlarono di atto terroristico in cui l’attentatore sarebbe rimasto vittima e, dopo la scoperta di una lettera scritta molti mesi prima, di suicidio. Solo grazie all'attività del fratello Giovanni, della madre Felicia Bartolotta Impastato, e degli amici della Radio, l'inchiesta giudiziaria venne riaperta. Nel 1998 presso la Commissione parlamentare antimafia si è costituito un Comitato sul caso Impastato e il 6 dicembre 2000 è stata approvata una relazione sulle responsabilità di rappresentanti delle istituzioni nel depistaggio delle indagini. Solo tempo dopo si è giunti ad una verità sul delitto: a volere la morte di Impastato fu il boss Tano Badalamenti, che però verrà riconosciuto colpevole, condannato all’ergastolo solo nel 2002, insieme a Vito Palazzolo condannato nel 2001 a trent’anni di carcere.
Quarantuno anni dopo si torna a ricordare la storia di Peppino nella consapevolezza che non tutta la verità è ancora emersa. Lo scorso settembre il Gip ha archiviato per prescrizione le indagini con l'accusa di favoreggiamento nei confronti del generale dei carabinieri oggi in pensione, Antonio Subranni e con l'accusa di falso per i sottufficiali che all’epoca condussero la perquisizione a casa Impastato: Carmelo Canale, Francesco De Bono e Francesco Abramo. Nelle motivazioni il giudice riconobbe che dietro le indagini sul delitto del giovane militante di Democrazia proletaria vi è stato "un contesto di gravi omissioni ed evidenti anomalie investigative”. Ed è da qui che si riparte. Oggi a Cinisi si torna a a fare memoria ricordando l’esempio di chi ha mostrato con i fatti come sia possibile cambiare un passato fatto di violenza e di mafia, scegliendo la strada della conoscenza, dell’onesta e dei valori della vita. Una strada che spesso non è gradita o accettata e che richiede impegno e sacrificio. Lo stesso che Peppino ha portato avanti fino all’ultimo respiro e che, oggi, resta vivo grazie a chi non lo vuol dimenticare.

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