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Nino Di Matteo sul caso Siri: “La scelta del Premier Conte può segnare una svolta di tendenza”
di Karim El Sadi - Video e Fotogallery

Da quasi 200 anni l’Italia fa i conti con la mafia, ovvero il primo “problema di condizionamento reale della libertà e democrazia”. Diversi giudici, giornalisti, avvocati, semplici cittadini, e politici hanno deciso di dedicare le proprie energie per occuparsi del contrasto a questo fenomeno che da circa due secoli “ancora persiste”. Una domanda, allora, sorge spontanea: “Perchè ancora la mafia?”. E’ questo il grande punto interrogativo che ha dato il nome al primo incontro della tre giorni che si svolge a Fabriano, nel cuore delle Marche, intitolata “Giustizia è Liberta” e organizzata dalla rivista MicroMega insieme all'associazione giuridica fabrianese “Carlo Galli". Il primo a rispondere al quesito è stato il sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Nino Di Matteo il quale ha consegnato la propria “fotografia” sul fenomeno mafioso, frutto della sua esperienza come magistrato in Sicilia prima a Caltanissetta e poi a Palermo, al pubblico in sala. Per il sostituto procuratore la risposta risiede in una questione tanto semplice quanto inquietante: senza il connubio della politica con la mafia quest’ultima non esisterebbe, in quanto senza la ricerca del potere politico, imprenditoriale e finanziario, la mafia, per citare Totò Riina, sarebbe stata una banda di “semplici sciacalli” e come tale, ha affermato Di Matteo, “sarebbe stata facilmente debellabile con una ordinaria azione di repressione criminale”. Ed è proprio in questa chiave di lettura che si spiegano i motivi della longevità mafiosa. Una longevità che potrebbe essere interrotta da un serio sforzo anzitutto politico, oltre che repressivo delle forze dell’ordine e della magistratura insieme a quello di “respiro culturale”. “Finora il perseguimento dell'obiettivo di recidere per sempre ogni rapporto tra mafia e potere è stato sciaguratamente affidato, in Italia, solo alla repressione giudiziaria dei magistrati. - ha affermato il pm - La politica per decenni, con governi di diverso colore, ha completamente abdicato al suo ruolo, non è stata in grado di far valere nelle sue sedi quella responsabilità di tipo politico che dovrebbe conseguire a certi comportamenti, a prescindere dalla eventuale responsabilità penale”.


Per una volta però, e ne abbiamo dato atto qualche giorno fa proprio su queste colonne, la politica pare aver deciso finalmente di compiere quel passo in avanti utile a dar un segnale forte alla criminalità organizzata (che di segnali si nutre da sempre per intavolare le proprie strategie e compiere le proprie attività illecite), con la decisione del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte di revocare la delega al sottosegretario leghista del Ministero dei Trasporti Armando Siri, accusato di corruzione. Una decisione “coraggiosa condivisa anche dal pm Nino Di Matteo, il quale, premettendo di non poter entrare nel merito della questione ha comunque detto di aver “apprezzato” quella scelta in quanto si è verificato “quello che ho sempre invocato e cioè una capacità, laddove ne esistano i presupposti, della politica di operare delle valutazioni che prescindano dall’accertamento in sede giudiziaria a proposito dell'esistenza di un reato”. Secondo Di Matteo “il problema, che non affronto con riferimento al caso specifico del sottosegretario Amando Siri che non conosco, è un problema di carattere generale. Il problema del gravissimo errore, spesso voluto, di sovrapporre due piani diversi. Il piano della responsabilità penale, con tutto quello che comporta giustamente anche con la presunzione di innocenza dell’imputato fino al passaggio in giudicato della sentenza, e il piano della valutazione ‘politica’ di certi comportamenti che nel momento in cui sono accertati, devono essere oggetto di valutazione diversa anche da quella del giudice penale”. Per il pm del processo Trattativa Stato-mafianell'attualità la scelta del presidente del consiglio Giuseppe Conte di procedere ad una valutazione politica di certe condotte, a prescindere dall’eventuale rilievo penale, può segnare una inversione di tendenza che spero possa consolidarsi”. Inversione di quella tendenza alla quale “siamo abituati ogni qualvolta che c’è un'indagine sui rapporti tra mafia e politica” da cui scaturiscono due reazioni; “una prima reazione che è quella di chi grida al complotto giudiziario, che di solito sono gli amici o i colleghi di coalizione del soggetto che viene indagato. Ed una seconda reazione che solo apparentemente è più ‘corretta’ ma più pericolosa, che è quella di chi dice ‘aspettiamo la sentenza definitiva dei magistrati’”. “Questo è un alibi - ha affermato Di Matteo - per non schierarsi e prendere decisioni e delegare soltanto sulle spalle dei magistrati la lotta alla mafia e dei connubi tra essa e il potere”. Per questo motivo “io auspico da cittadino una politica che sia in prima linea nella lotta alla mafia”, come quella condotta dal segretario del PCI Pio La Torre, di cui qualche giorno fa, lo scorso 30 aprile si è ricordato il 37esimo anniversario della sua scomparsa.

giustizia e liberta palco teatro c pbassani

“Cosa Nostra può ricattare ancora lo Stato italiano”
L’intervento di Nino Di Matteo si è poi incentrato su quanto emerso dai 5 lunghi anni di dibattimento del processo trattativa Stato-mafia di cui è stato protagonista come parte dell’accusa. “Cosa nostra può ancora ricattare lo Stato?” ha chiesto la giornalista Rossella Guadagnini che ha moderato la serata. “Fino a quando Cosa nostra sarà custode di conoscenze e di segreti su quella terribile stagione sarà sempre in grado di ricattare le istituzioni o parte di esse”, ha risposto Di Matteo. Un’affermazione amara frutto di un’altrettanta amara consapevolezza. “Fin quando sarà in libertà anche uno solo dei mafiosi o non mafiosi che concepirono quelle stragi questo è un grandissimo affronto, non soltanto per le vittime di quei delitti, ma un grandissimo pericolo per la nostra democrazia”. Il pm si riferiva al superlatitante Matteo Messina Denaro, uno dei “protagonisti delle stragi del 1993”, nonchè depositario dei segreti del Capo dei Capi secondo alcuni collaboratori di giustizia, che ancora è in circolazione. “Io non credo che con la professionalità che oggi hanno dimostrato le nostre forze di polizia e magistrati, 26 anni di latitanza di Messina Denaro, hanno a che vedere con l’abilità del fuggiasco. Ma si debbono evidentemente giustificare con una rete di coperture esterne a Cosa nostra e probabilmente anche istituzionali di cui il latitante ha goduto, come certamente ha goduto Bernardo Provenzano che è stato latitante per 43 anni”.
Sempre sulla trattativa Stato-mafia Di Matteo ha parlato delle reticenze di certi teste, anche appartenenti alle istituzioni, chiamati a testimoniare al processo di Palermo. “Uno Stato serio non può consentire che ci siano buchi e ombre su quello che accadde in quel terribile periodo delle stragi, che ci siano ancora segreti misteri, reticenze. Ci sono persone, che non sono della mafia, che sono in grado di riferire circostanze che possono essere utili a capire se e chi insieme a Cosa Nostra ha fatto le stragi” ha affermato il magistrato. “I pentiti di mafia sono arrivati fino ad un certo livello, il contributo ulteriore potrebbe derivare dalle conoscenze di persone che non erano inserite nella mafia ma che con la mafia in quel momento hanno avuto rapporti di vario tipo”. Di Matteo ha concluso il proprio intervento confessando di infastidirsi “quando viene detto che non si sa nulla sulle stragi”. “Non è vero, ci sono condanne definitive per decine e decine di appartenenti alla mafia ma in quei processi siamo rimasti in pochi forse a conoscere gli atti e le sentenze, e viene fuori da quei processi che quella verità importante che è stata ricostruita indica un percorso da completare”. “Vengono fuori - ha sottolineato il sostituto procuratore - elementi che impongono un approfondimento ulteriore perchè ci sono elementi che inducono a ritenere che la mafia è stata in qualche modo ispirata e accompagnata e coadiuvata nella fase organizzativa ed esecutiva, da personaggi che non erano mafiosi, questa verità deve essere pretesa da tutti altrimenti le commemorazioni si riveleranno mero esercizio retorico assolutamente inutile”.



Sergio Sottani e le “regioni refrattarie
Altro magistrato intervenuto ieri sera al Teatro Gentile di Fabriano è Sergio Sottani, Procuratore Generale della Corte di Appello di Ancona. Sottani che ha operato in Umbria, nelle Marche ed in Emilia Romagna, ha descritto queste regioni come “refrattarie al fenomeno mafioso”. “Il pericolo delle regioni refrattarie - ha spiegato il pg - è l’incapacità di avere quegli anticorpi che forse al sud, in situazioni enormemente più drammatiche non paragonabili, hanno, in cui c’è un tessuto sociale che in qualche modo si è formato, in cui forse c’è anche la capacità di distinguere bene tra chi ci si può fidare e chi no. In regioni come le nostre (del Centro nord, ndr) invece è molto più difficile, ci vuole lo sforzo di tutti, anche della società civile. Bisogna sempre tenere alta la barra della legalità perchè solo con essa si possono evitare le infiltrazioni in modo che il tessuto sociale sia un tessuto sano”. Sottani ha poi parlato del traffico di droga nella regione Marche. “In questa regione c’è un aumento preoccupante della richiesta di sostanze stupefacenti soprattutto tra i giovani e questo è un segnale pericoloso perchè significa che c’è una domanda del prodotto alle organizzazioni criminali”. In conclusione il Procuratore Generale della Corte di Appello di Ancona si è espresso sull’omicidio Bruzzese a Pesaro avvenuto nella notte di Natale dello scorso anno. Quel fatto di sangue “dimostra che l’attenzione di chi deve tutelare deve essere molto più alta che in altri territori, per tutelarli abbiamo bisogno di una professionalità che dobbiamo acquisire tutti altrimenti rischiamo di essere indifesi rispetto a fenomeni che non siamo in grado di controllare”.

La lotta alla mafia raccontata dai giornalisti Petra Reski e Lirio Abbate
Gli altri due ospiti della serata sono stati la giornalista tedesca Petra Reski e il giornalista de l’Espresso Lirio Abbate. Petra Reski ha parlato delle infiltrazioni della ‘ndrangheta nel nord Europa e in particolare in Germania. “In Germania della mafia, e in particolare della ‘ndrangheta, non si parlava affatto ma tutto è cambiato nel 2007 con la strage di Duisburg”. In quell’occasione, ha raccontato la Reski “un editore mi aveva chiesto di fare un libro su questa storia e così ho descritto le attività della ‘Ndrangheta in Germania e ho citato i rapporti del BKA, la polizia tedesca, e di altri magistrati”. Dopo aver scritto su Berlusconi e Dell’Utri “volevo togliere l’illusione ai tedeschi che la mafia fosse solo un problema italiano e ho fatto esempi di politici tedeschi coinvolti con la ‘ndrangheta. Quando lo feci mi hanno fatto tutti causa”. Da quel momento in poi la Reski è stata oggetto di denunce e pesante minacce. “Con me hanno voluto stabilire un esempio in Germania per gli altri giornalisti, e ha funzionato benissimo. Ho scritto un articolo su come fosse impossibile scrivere di mafia in Germania in cui ho citato, da una sentenza pubblica, il nome di quello che aveva fatto la querela a una televisione che aveva fatto un film sui fatti aggiornati di cui avevo scritto io in precedenza. E quella volta sono stata nuovamente condannata perdendo di nuovo. Ora nessuno scrive più sulla mafia, nessun giornalista ha il coraggio tant’è vero che nessuno ha più parlato di mafia in Germania”.



La Reski ha affermato che in Germania parlare di mafia è assai complicato poichè “esiste il reato di associazione a delinquere ma non esiste il reato di associazione alla mafia, la sola appartenenza mafiosa non è un reato in Germania, è praticamente impossibile intercettare”. Per non parlare della “legislazione sul diritto di privacy che nel Paese è molto vasto”. Infine è intervenuto anche Lirio Abbate, giornalista siciliano che ha raccontato le vicende dell’inchiesta che segue da alcuni anni su Mafia Capitale, un sistema di affari illeciti, considerato un’associazione mafiosa, ideato e realizzato dal "ras delle coop", Salvatore Buzzi, e dall’ex Nar Massimo Carminati, entrambi condannati in appello per mafia rispettivamente a 18 anni e 4 mesi e 14 anni e 6 mesi. Anche il giornalista ha raccontato episodi di censura e ostacolamento durante il dibattimento. “Il processo di Carminati è stato veloce, la sentenza è arrivata quasi subito. - ha affermato Abbate - Quando poi la stampa ne parlò pubblicando i virgolettati delle ordinanze e dei documenti che tutti conoscevano, per la prima volta la camera penale di Roma fece un esposto contro 60 giornalisti dicendo che non dovevano pubblicarli”. Per concludere il giornalista dell’Espresso si è chiesto il motivo per il quale il ministro degli Interni Matteo Salvini parla di mafia nella Capitale solo per quanto concerne il clan dei Casamonica e affini. “Io non ho mai sentito additare questo Ministro dell’Interno contro Carminati e il suo clan”, ha detto con tono deciso il saggista. “Come mai non si parla di Casapound e di Massimo Carminati che è condannato per associazione mafiosa mentre i Casamonica no?”. Probabilmente, come ha poi affermato lo stesso Abbate, “perchè è facile finchè si parla di criminalità ordinaria ma quando uno tiene stretto alcuni politici viene difficile andargli contro”.
L’appuntamento “Giustizia è Libertà” continua domani sera con altri ospiti illustri della lotta alla mafia e non solo.

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