di Aaron Pettinari
La Corte d'Assise d'Appello di Milano deposita le motivazioni della sentenza
Sono state depositate le motivazioni del processo sull'omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia, ucciso nel giugno 1983. Secondo la Corte d'Assise d'Appello di Milano l prova della colpevolezza dell'imputato, Rocco Schirripa, condannato all'ergastolo lo scorso 14 febbraio è "coriacea".
Secondo i giudici, la prova della responsabilità del panettiere, "ponendosi in armonia con gli altri elementi fattuali, ha retto in tutti i suoi segmenti" e per contrastarla non sono bastati "gli espedienti dialettici o i virtuosismi lessicali".
Riguardo al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, i giudici spiegano che "l'imputato ha vissuto per tutta la sua esistenza nella illegalità, è affiliato, senza 'pentimenti' di sorta, a una organizzazione mafiosa tra le più pervasive e perniciose". Inoltre, secondo la Corte, sussiste l'aggravante della premeditazione: si legge nel documento che è di "lapalissiana evidenza" che il mandante dell'omicidio Caccia sia stato il boss e a capo dell'omonimo clan Domenico Belfiore. E dunque che anche i "prescelti esecutori" del delitto, cioè Rocco Schirripa, abbiano "logicamente" preso parte alla "preordinazione" dell'agguato anche per via della sua "lunga progettazione (con pedinamenti, controlli a distanza, ricerca del luogo più idoneo ad eseguirlo, reiterati sopralluoghi)".
I giudici, nelle motivazioni, hanno sottolineato che Rocco Schirripa è "uomo di 'Ndrangheta" e hanno ricordato che quando l'imputato ha reso dichiarazioni spontanee prima della sentenza ha sostenuto di essere un "capro espiatorio" e "bersaglio di calunnia" dei "soliti pentiti" che "inseguendo personali benefici, lo avrebbero scelto come candidato ideale su cui riversare le accuse". Secondo la Corte, invece, l'ex panettiere di Nichelino (Torino) non ha dato "nessuna spiegazione di quanto egli personalmente diceva conversando con il Barresi, che è la primigenia e principale fonte d'accusa a suo carico: molto
meglio, dal suo punto di vista, tentare di spostare l'attenzione dell'ascoltatore dalla luna al dito, dolendosi del poco che 'i pentiti', in cambio di imprecisati benefici, hanno detto di lui".
Già in primo grado i dialoghi intercettati tra Schirripa e Barresi erano stati considerati come rilevanti .
Successivamente la Corte si è anche espressa confutando la tesi del legale della famiglia Caccia, Fabio Repici, rispetto al ruolo di Placido Barresi. "Io ritengo che Placido Barresi sia stato un agente provocatore - aveva detto l'avvocato durante la propria arringa - e nonostante abbia violato più volte le prescrizioni del magistrato di sorveglianza non ha mai perso il beneficio della semi libertà”. In quell'occasione aveva chiesto la riapertura del dibattimento per sentire alcuni testimoni, tra cui Marcello Maddalena, l’ex procuratore capo di Torino che lavorò per anni con Bruno Caccia e il collaboratore di giustizia Daniel Panarinfo. Riapertura che è stata negata dalla Corte. I giudici nelle motivazioni della sentenza scrivono che nella "improbabile ipotesi" che Barresi sia stato non un "genuino conversatore ma un agente sotto copertura, fuori di metafora una sorta di 'trojan horse' (cavallo di Troia, ndr) vivente, conducendo le conversazioni laddove voleva fossero condotte", allora "nulla muterebbe nella posizione processuale di Rocco Schirripa perché ciò che depone contro l'imputato sono le sue stesse parole e non ciò che altri ha affermato di lui". Una pura "insinuazione" secondo i giudici che è "una delle tante - spiace dirlo - che si sono volute inserire nel tracciato processuale che è invece ontologicamente incompatibile con l'illazione e il sospetto".
Un'osservazione abbastanza gratuita, quest'ultima, tenuto conto che l'accertamento della verità dovrebbe essere compiuto vagliando tutti gli aspetti.
"Finora - aveva commentato Repici il giorno della sentenza - l’omicidio Caccia rimane l’unico assassinio di un magistrato nella storia della Repubblica per il quale nessun collega d’ufficio della vittima sia stato sentito come testimone, nella prima istruttoria, nelle indagini di questi ultimi anni, nei dibattimenti. Si tratta di una imperdonabile patologia sulla quale la società deve interrogarsi per capirne le ragioni. Io penso che verità e giustizia camminino insieme. Altri evidentemente pensano che si possa celebrare giustizia senza ogni possibile accertamento della verità".
E pensare che i giudici di primo grado avevano condiviso "le osservazioni della difesa sull’ambito del non detto, sul vero motivo delle preoccupazioni di Belfiore e Barresi". "Infatti - aggiungevano - risulta logico ritenere che le preoccupazioni degli stessi avessero riguardato non solo Schirripa, ma anche gli altri soggetti che erano stati coinvolti nell’omicidio”. Secondo i giudici, per, “questo nulla toglie al fatto che le loro preoccupazioni sul fatto che Schirripa avesse ‘parlato’ fossero autentiche, anche se non dirette solo a lui”. Inoltre, sempre la Corte d'assise di Milano, senza entrare nel merito, aveva registrato le critiche che il legale della famiglia Caccia aveva rivolto verso l’operato della magistratura.
Piste aperte
Per l’omicidio del Procuratore di Torino tuttora resta indagato Francesco D’Onofrio, ex militante di Prima Linea ed ora ritenuto vicino alla 'ndrangheta. Si è sempre professato estraneo, ma lo ha tirato in ballo il baby-pentito Domenico Agresta, il quale ha dichiarato di aver appreso dal padre e dal boss Aldo Cosimo Crea che “a farsi il procuratore” erano stati Schirripa e D’Onofrio.
Lo scorso marzo si è tenuto un incidente probatorio davanti al Gip di Milano, Stefania Pepe, con la deposizione dell'ex collaboratore di giustizia Vincenzo Pavia.
Un altro fascicolo di indagine riguarda Rosario Pio Cattafi, boss siciliano indicato dai pentiti come trait d’union tra cosa nostra e servizi segreti, e di Domenico Latella. La famiglia Caccia ha chiesto di non archiviare l'indagine ma ancora non vi è una risposta. La speranza è che possa essere fatta definitivamente luce sul delitto perché, come ha detto Paola Caccia dopo la pronuncia dei giudici contro Schirripa, "questa sentenza può essere un passo avanti ma l'accertamento completo della verità è un'altra cosa e lascia sgomento il dover constatare che spesso siamo noi familiari a dover lottare affinché sia fatta definitivamente giustizia".
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