di Davide de Bari e Karim El Sadi
Il collaboratore di giustizia sentito al processo Matteo Messina Denaro. Sentito anche Spatuzza
“La morte di Vincenzo Milazzo? Fu ucciso perché non voleva sposare la strategia stragista mantenendosi né sul sì, né sul no. Quindi era accondiscendente in qualche maniera, era un'azione kamikaze”. E’ il collaboratore di giustizia Armando Palmeri, autista e factotum del capomafia di Alcamo (ammazzato nel luglio del 1992), a offrire la nuova chiave di lettura sul delitto che non affonderebbe le sue radici nelle semplici vendette mafiose. Palmeri è stato sentito giovedì al processo che vede imputato Matteo Messina Denaro per la strage di via d’Amelio e per quella di Capaci.
Davanti alla Corte d’assise di Caltanissetta, presieduta da Roberta Serio, in trasferta a Firenze, il pentito ha raccontato i contorni che portarono a quel delitto di "lupara bianca". "Il giorno prima l'avevo sentito telefonicamente - ha proseguito il teste - Il giorno dopo no e capii subito che era morto. Lui era a Gibellina da un commerciante di profumi. Quando andai a cercarlo anche questi era molto preoccupato perché Milazzo non era rientrato e a quel punto mangiai la foglia. Me lo aspettavo che sarebbe potuto succedere qualcosa del genere".
Quel delitto verrà seguito, pochi giorni dopo, dall’omicidio della compagna di Milazzo, Antonella Bonomo, incinta di pochi mesi. Ed anche in merito a questa scomparsa Palmeri ha riferito alcuni dettagli: "Dopo la scomparsa di Milazzo mi chiamò la sorella di Simone Benenati,un'avvocatessa che cercava notizie di Antonella, se l'avevo vista o sentita dato che c'era la famiglia molto preoccupata. Io non sapevo nulla. Mi fu dato appuntamento per vedermi con la Benenati presso l'abitazione del padre di Gino Calabrò e mi ricordo che quella sera passò una macchina con fare sospetto. Io camminavo sempre armato, capii che erano appartenenti alle forze dell’ordine e tirai la pistola dietro un cespuglio. Mentre lo facevo, uno di questi mi dice che erano parenti della Bonomo. Dalla mia esperienza capì che erano appartenenti alle forze di polizia, comunque graduati e non erano in divisa. Al tempo non sapevo che la Bonomo aveva parenti nelle forze dell'ordine”.
I contatti e gli incontri tra Milazzo e i servizi segreti
Tornando al periodo delle stragi che si abbatterono in Sicilia uccidendo Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli uomini delle scorte, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto nisseno, Gabriele Paci, Palmeri ha riferito di tre incontri tra il boss di Alcamo Vincenzo Milazzo ed i servizi segreti.
Il primo sarebbe avvenuto nella casa di tale Manlio Vesco, un presunto estortore della cosca alcamese, a Castellammare del Golfo. "Siamo tra aprile e maggio - ha detto il teste - Che si trattava di servizi me lo riferì lui stesso. Mi disse: 'tra qualche giorno abbiamo un incontro con appartenenti ai servizi per capire cosa vogliono, la cosa è delicata e dobbiamo utilizzare tutte le precauzioni del caso'. Da Milazzo mi venne chiesto di adoperarmi per tenere la zona sotto controllo. Lui avrebbe anche voluto che presenziassi, ma io preferivo defilarmi quando sentivo puzza di guai”. Sempre riguardo il primo incontro ha continuato: “In quell’occasione avevo un binocolo e mi mimetizzai nella boscaglia circostante. Dopo un certo lasso di tempo che lui era entrato arrivarono il primario del nosocomio, Baldassare Lauria, che aveva una Volvo sportiva, mentre quelli dei servizi avevano un'utilitaria. Dopo brevi presentazioni si misero dentro la casa e a quel punto non sapevo più nulla”. Il secondo incontro sarebbe avvenuto i un'altra villa in Contrada Consa ("era una villa in disponibilità di Milazzo e di proprietà del noto costruttore alcamese, tale Michele De Simone. Ed entrambe le ville degli incontri sono a 500 metri di distanza tra loro") mentre il terzo "avvenne nella villa del senatore Corrao sita alle pendici del monte Bonifato".
Parlando della prima riunione Palmeri ha riferito quel che gli disse il capomafia: "Durò un'ora, un'ora e mezza e Milazzo mi disse che questi erano matti e volevano iniziare la guerra allo Stato con bombe e a mezzo di bombe. Addirittura in una delle due occasioni il Lauria propose di fare una guerra batteriologica”. Alla domanda del pm Paci su “cosa volevano da Milazzo”, il teste ha risposto: “Che lui prendesse parte a questa guerra. Lui sapeva che rischiavamo tanto. Tanto è vero che una volta mi disse: 'non so per qualche motivo conoscono anche a te e sanno che tu sei qui, quindi rischiamo entrambi'. Siccome io ero nettamente in contrasto a questa strategia, lui mi disse: 'Non capisci che siamo morti?' Ma per me non c'era problema se dovevamo morire morivamo. Mi ricordo che quando avvenne l’attentato di Capaci mi accompagnavo con il Milazzo nelle campagne di Gibellina. Quando apprendemmo della strage lui espresse una frase: 'ammaviri (dobbiamo vedere) quando iniziano a piovere gli ergastoli'. Lui percepiva la fine di Cosa nostra".
L'ingresso in aula di Gaspare Spatuzza in una foto d'archivio
"Così volevano mettere lo Stato in ginocchio"
Palmeri ha anche spiegato che questi attentati sarebbero dovuti avvenire in luoghi specifici: "Si parlava di inquinare un acquedotto con un batterio. Il fine era di mettere lo Stato in ginocchio a mezzo di questa azione. E questi attentati dovevano avvenire anche fuori dalla Sicilia. Gli obbiettivi non sapevo quali fossero. Ma sentì Milazzo ordinare a Calabrò di riferire a Giuseppe Ferrodi mettersi a disposizione con quei parenti lassù (al nord, ndr) durante il periodo degli incontri. Poi ho capito che si trattava dei parenti del Ferro che aveva vicino Firenze”. Il collaboratore ha anche riferito i pensieri che Milazzo avrebbe detto esclusivamente a lui: “La sua posizione era che se si rifiutava, avremmo perso la vita quindi lui si mostrava apparentemente disponibile. Era un'azione da pazzi perché lo Stato avrebbe avuto sicuramente un'azione di contrasto a Cosa nostra e tutto questo poteva finire”.
Il collaboratore di giustizia ha poi raccontato di un tentativo di pedinamento a questi soggetti dei servizi per capire chi fossero. “Io una volta li ho pedinati fino a Palermo per capire chi fossero. Però poi li ho persi in prossimità di Via Belgio e ho annotato il numero di targa che era sufficiente per non essere visto. Portai il numero da un macellaio di Castellammare, Sebastiano Di Benedetto che era il più vicino a Ferro che conosceva qualcuno dentro la motorizzazione. Non è stato sufficiente perché si scoprì che l’auto era intestata a una società di noleggio con sede a Punta Raisi e in quel giorno non risultava noleggiata”.
Il collaboratore ha poi raccontato che sia lui che Milazzo erano in possesso di un telefono clone. “Io non vedevo l’ora di disfarmene è come se mi portassi un carabiniere dietro e lo utilizzavo il poco possibile. Poi l’ho consegnato ai tre latitanti Di Liberto, Interdonato, 29 anni ed Alcamo. In quel periodo non ricordo se questi telefoni erano due o tre, visto che ne aveva uno anche Calabrò”.
Antonino Gioè e la morte di Milazzo
Palmeri ha poi raccontato che dopo la scomparsa di Milazzo decise di non rendersi più disponibile per Cosa nostra, rifiutandosi di compiere quanto gli veniva chiesto e che da quel momento i mafiosi lo volevano eliminare. E' in questo contesto che si incontrò con Antonino Gioè, il boss di Altofonte morto suicida in carcere in circostanze misteriose nel 1993. "Lui (Gioè, ndr) mi stimava molto per il mio modo di comportarmi e mi ammirava ero stato l’unico a non sottostare a Cosa nostra. - ha raccontato - Mi ha raccontato lui di essere stato il killer di Milazzo. Gioè preferiva ucciderlo lui con due colpi di pistola, che farlo ammazzare da un Brusca o Ferro per non dare la soddisfazione. Questo è supportato dal colloquio che ho avuto con Gioè. Io gli chiesi com'è morto il Milazzo, lui si fermò e mi disse da vero uomo d’onore e le sue ultime parole prima di sparargli ‘spara cornuto’”.
Spatuzza e l’attentato nel napoletano
Successivamente ad essere sentito è stato il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, ex boss di Brancaccio che ha avuto un ruolo importante nelle stragi, che ha riferito alla Corte del suo stretto rapporto con i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano e con Matteo Messina Denaro che considerava come un “padre”. Oltre ad accennare alle attività svolte per le stragi del '92-'93, in particolare è tornato a riferire di un episodio che lo ha visto testimone nell'estate 1993, dopo gli attentati di Cosa nostra a Roma e Milano: “Mentre mi trovavo insieme a Giuseppe Gravianoper il fine settimana c’è stato un incontro a cui non ho partecipato in cui erano arrivati dei napoletani che si incontrarono con Graviano. Da quell’incontro ne uscì la questione dell’ammissione di fare un attentato a Napoli dove per altro era stato mandato dell’esplosivo”. I “napoletani” in questione erano i Nuvoletta, storici alleati di Cosa nostra, soprattutto del clan di Brancaccio, nel capoluogo campano. Ma non è la prima volta che il pentito Spatuzza parla di quel meeting segreto in odor di strategia stragista, tra l’altro già in corso a quel tempo. Lo scorso 5 febbraio si era espresso a riguardo nel corso del processo di Caltanissetta sul depistaggio della strage di via d'Amelio dove però aveva parlato di quell’attentato a Napoli in maniera decisamente più dettagliata. "C'era una questione a Napoli che abbiamo gestito anche noi in parte. Nel primo punto noi abbiamo prelevato l'esplosivo, lo abbiamo macinato e lo abbiamo inviato a Napoli in quanto, come mi disse Giuseppe Graviano, si sarebbero fatti tutto loro, i napoletani. Successivamente venne a dirmi che per quella circostanza ci saremmo dovuti muovere io e Cosimo Lo Nigro perché loro non erano esperti della tipologia del nuovo esplosivo". Attentato che, fortunatamente, venne bloccato dai vertici di Cosa nostra. Sempre nel 1993 in piena campagna stragista, Spatuzza ha riferito ieri di una trasferta, di cui si è concentrato in aula il pubblico ministero Paci, a Roma. In quel frangente Spatuzza si recò nella Capitale dal pluripregiudicato romano d’origini calabresi Antonio Scarano, che aveva dato “disponibilità logistica” per "prelevare delle armi da catalogare e restituire ai proprietari” per ordine di Giuseppe Graviano. Quelle armi, tra cui, "pistole, fucili Kalashnikov e qualche esplosivo", erano servite “per il gruppo di fuoco che faceva capo a Matteo Messina Denaro con Giuseppe Gravianoquando salirono a Roma per compiere degli omicidi”.
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