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cavallini gilberto interna c ansaPoi, però, attacca Paolo Bolognesi
di Antonella Beccaria
Dalla a Corte disposta la riesumazione di una vittima su richiesta della difesa

“Sono stufo di queste provocazioni”. Annunciando di non voler più rispondere alle domande delle parti civili, Gilberto Cavallini, imputato di concorso nella strage di Bologna del 2 agosto 1980, ha posto fine alle domande dei legali che rappresentano le vittime. Irritato per le contestazioni dell'avvocato Andrea Speranzoni tra ciò che ha dichiarato nel processo in corso e quanto, invece, aveva detto in passato, l'ex esponente dei Nuclei Armati rivoluzionari, organizzazione neofascista nata a Roma nella seconda metà degli anni Settanta, per la seconda volta ha inoltre fatto precedere il suo esame a una dichiarazione spontanea.
In base a essa, le parole che ha pronunciato una settimana fa sono state “fraintese” e il suo “pensiero è stato distorto”. “Io non ho mai detto che denuncerò i familiari delle vittime del 2 agosto. Ma che lo farò con gli estensori della scheda Cavallini, sulla quale sono state scritte falsità sul mio conto. I familiari non c'entrano niente”. Corregge la rotta, dunque, perché – ha aggiunto – la “polemica cessi, non ha fatto bene a nessuno, né a me, né alla mia famiglia, né al processo”. Leggendo il testo su un foglio che poi è stato consegnato al presidente della Corte d'Assise, Michele Leoni, ha affermato ancora rivolto ai familiari delle vittime che a loro “va tutta la mia solidarietà per il loro dolore”.

La polemica sul manifesto del 1983
Però ha tentato anche di smentire Paolo Bolognesi, presidente dell'associazione dei familiari delle vittime e dei sopravvissuti. Dopo le prime dichiarazioni dell'imputato, Bolognesi aveva ribattuto sottolineando, tra l'altro, che l'espressione “strage fascista” sui manifesti che ogni anno vengono affissi a ridosso dell'anniversario dell'attentato era stata inserita solo dopo il 1988, l'anno in cui, in primo grado, furono condannati all'ergastolo degli ex Nar Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Cavallini, accusato oggi di aver fornito loro copertura logistica il giorno in cui esplose la bomba, ha mostrato il manifesto commemorativo del 1983 lamentando la presenza della parola “fascista”.
Di fatto, il testo fatto scrivere dall'associazione vittime recita: “Stazione di Bologna. Anche il silenzio è violenza. 2 agosto 1983, chiediamo tutti insieme giustizia e verità”. Questo il pensiero dei familiari. Al centro del manifesto compare inoltre la fotografia della lapide apposta nella sala d'aspetto di seconda classe dove sono riportati i nomi di tutti gli 85 morti. Sopra, sempre sul marmo ritratto in foto, si legge: “Vittime del terrorismo fascista”. “Quella fotografia era stata inserita perché per noi è un simbolo”, ha detto Bolognesi dopo la contestazione di Cavallini. “Rappresenta la memoria di chi è rimasto ucciso. Come associazione, in ciò che abbiamo scritto, abbiamo sempre aspettato la sentenza”. In merito alla “solidarietà” raccolta oggi da Cavallini, Bolognesi ha invece commentato: “Non ce ne facciamo niente”.

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“Odio la massoneria”
Prima di avvalersi della facoltà di non rispondere in polemica con il collegio di parte civile, Gilberto Cavallini ha di nuovo respinto qualsiasi rapporto, a iniziare da quelli economici, con il capo della loggia P2, Licio Gelli. “Io odio la massoneria”, ha affermato, “i fascisti odiano la massoneria. Per me è un nemico politico”. Ha sostenuto anche, rispondendo alle domande dei suoi difensori, gli avvocati Alessandro Pellegrini e Gabriele Bordoni, di non aver mai avuto conoscenze in tema di esplosivi non avendo fatto nemmeno il servizio militare. E se in passato si rintracciano contraddizioni con quanto sta dicendo ora, c'è una ragione, in base alle sue parole: “Sono sempre stato scettico su questo processo, ho dato risposte superficiali, differenti, ero cosciente dell'inutilità di dare risposte coerenti perché non venivano tenute in considerazione”.
Si è dichiarato invece da sempre un sostenitore della causa palestinese. È accaduto rievocando un omicidio risalente al 24 giugno 1982. Si tratta quello dell'agente di polizia Antonio Galluzzo, assassinato a Roma mentre era in servizio insieme a un collega davanti all'alloggio del rappresentante dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina in Italia. Oltre all'omicidio di Galluzzo, rivendicato dai Nar, rimase ferito il secondo poliziotto. “Non volevamo colpire l'Olp”, ha dichiarato ancora Cavallini, “nessuno sapeva che c'era un loro rappresentante a Roma in quei giorni, a noi interessavano solo i due poliziotti armati da disarmare”.

Sarà riesumata una salma
Altro aspetto emerso nel corso dell'udienza è la riesumazione del corpo di una vittima. Si tratta di Maria Fresu, la madre ventiquattrenne di Angela, 3 anni, la più giovane delle persone che persero la vita il 2 agosto 1980. A darne notizia è il presidente della Corte Leoni annunciando una proroga di 60 giorni agli esperti che stanno lavorando alla perizia esplosivistica. La ragione si ricollega anche a un quesito richiesto dalla difesa: stabilire se l'ordigno esploso il 2 agosto 1980 potesse provocare la pressoché polverizzazione di un corpo.
Nell'ambito di alcune delle piste alternative alle responsabilità neofasciste per la stazione di Bologna, infatti, si è infatti sottolineato che della giovane mamma fosse rimasta solo una porzione della guancia. In realtà, a leggere la perizia medico-legale allegata agli atti dei processi già conclusi e firmata dal perito Giuseppe Pappalardo, non c’è solo questo. Nel documento tecnico vengono infatti indicati altri reperti biologici attribuiti a lei, tra gli altri, sono indicati “un frammento del volto a cute glabra dal mento al labbro inferiore; un lembo di pelle da cui si vedono sopracciglia sottili e depilate soprattutto verso l’esterno; un lembo del naso compatibile per forma a dimensione e quello della ragazza; alcuni denti dell’arcata inferiore; un frammento di un femore compatibile come dimensioni all’altezza di Maria Fresu (era alta 148 centimetri); la mano destra incompleta: le dita rimaste erano il mignolo, l’anulare e il medio con unghie curate, allungate e laccate”.
Tra i ritrovamenti non biologici di Maria Fresu, c'erano la borsa da viaggio, una valigia e una giacchetta. Il padre e la sorella della ragazza furono certi della sua identità, dato che la riconobbero dai frammenti del volto e da alcuni particolari, come la depilazione delle sopracciglia che praticò il giorno prima di partire e, dunque, di morire nell’esplosione.

Foto © Ansa

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