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giovanni paolo ii papa karol wojtyla c imagoeconomicadi Maria Antonietta Calabrò
E' impressionante notare come le vicende della trattativa Stato-Mafia, sfociate nella recente sentenza della Corte d'assise di Palermo (aprile 2018) nel processo chiamato a indagare sulla terribile stagione del 1992-1993, insanguinata dalle stragi Falcone e Borsellino e poi dagli attentati di Roma (Velabro e San Giovanni in Laterano), Milano e Firenze (Georgofili), sia emerso il nodo di una gestione opaca delle carceri, tipica della Prima Repubblica, in maniera che si potrebbe dire speculare a quanto era stato fatto fino al 1990 in relazione al sequestro Moro.

Tanto è vero che particolari decisivi che sono stati accertati solo di recente per il sequestro Moro, sono emersi per la prima volta nel 2015, durante l'audizione di alcuni testimoni proprio durante il processo per la trattativa Stato-mafia a Palermo. A cominciare dalla certezza ormai raggiunta sul pagamento di un riscatto in danaro, messo a disposizione di Paolo VI, per tentare di liberare Aldo Moro

Nel suo recente libro ("Il Patto sporco", scritto con Saverio Lodato, Chiarelettere), il Procuratore Nino Di Matteo ricostruisce in particolare la "destituzione" di Nicolò Amato che nell'aprile del 1993 "venne improvvisamente rimosso dal suo incarico, affidato, parte attiva l'ex presidente della Repubblica Scalfaro, ad un anziano magistrato Adalberto Capriotti. Vi si legge che fu "sempre lui (Scalfaro,ndr) a indurre il ministro della Giustizia Giovanni Conso ad allontanare Amato e ad affidare a Capriotti e Di Maggio il fronte caldissimo delle carceri". Ma questo - aggiunge Di Matteo, avveniva "solo pochi giorni dopo un gravissimo atto intimidatorio tenuto segreto per quasi vent'anni".

Spiega il pm, adesso sostituto procuratore nazionale antimafia: " Nel febbraio 1993, i familiari dei capimafia detenuti nelle carceri di Pianosa e dell'Asinara inviarono una mezza dozzina di cartelle proprio a Scalfaro. Denunciavano le "inumane " condizioni di vita dei parenti, additavano "il dittatore Amato", come il mandante di torture e soprusi, minacciavano il capo dello Stato, Scalfaro appunto, che da quel momento in poi lo avrebbero ritenuto responsabile della prosecuzione di quel regime carcerario. La lettera, trasmessa anche al ministro della Giustizia Conso e, apparentemente senza una spiegazione ai vescovi di Roma e Firenze, venne tenuta nascosta persino al "dittatore Amato" , oggetto di quelle accuse minacciose e infamanti".

Di Matteo racconta nel libro che la lettera è emersa solo nel 2011 da una sua ricerca, svolta con il collega Antonio Ingroia, negli archivi del Dap: "Alcuni dati ci colpirono immediatamente: il tono gravemente minaccioso nei confronti di Scalfaro; il fatto che tra i destinatari ci fossero i vescovi di Firenze e Roma, città che subito vennero colpite dalle stragi; la tempistica di una lettera che precedette solo di pochi giorni la defenestrazione di Amato". Ecco: Di Matteo ricorda un punto centrale della vicenda: e cioè che per allentare i rigori del 41 bis i boss scrissero persino al Papa, così si legge nel documento (Papa e non vescovo di Roma) , che è finito sui giornali nel giugno 2012, altri destinatari furono il cardinale di Palermo e Maurizio Costanzo che fu oggetto di un fallito attentato in via Fauro, e Vittorio Sgarbi. I cappellani delle carceri furono allora chiamati da Scalfaro per indicare chi potesse sostituire Amato.

Anni luce sembrano passati da allora, ma si tratta pur sempre di storia recente d'Italia.

Tratto da: huffingtonpost.it
(Prima pubblicazione, 16 ottobre 2018)

Foto © Imagoeconomica

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