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pizzolungo da repubblicadi Lorenzo Baldo - Prima parte
Frammenti (ricomposti) di una storia occultata nel nuovo libro di Carlo Palermo

Tutto collegato. E’ questa la chiave di interpretazione che attraversa le oltre 400 pagine del libro “La Bestia - Dai misteri d’Italia ai poteri massonici che dirigono il nuovo ordine mondiale”. E sono proprio i collegamenti - noti o sconosciuti - tra fatti e circostanze, nazionali e internazionali, ad emergere prepotentemente nella ricostruzione dell’ex pm Carlo Palermo, autore del libro edito da Sperling & Kupfer. Sopravvissuto alla strage di Pizzolungo del 1985, nella quale morirono Barbara Rizzo, 30 anni e i suoi due gemellini Salvatore e Giuseppe Asta, 6 anni, Carlo Palermo porta sempre con sé il dolore, la rabbia e il senso di impotenza per non avere ancora ottenuto tutta la verità su quello Stato che ha armato la mano di Cosa Nostra per cercare di eliminarlo. Ma è soprattutto la sua spasmodica, disperata e non ancora conclusa ricerca di quella verità - che fa molta paura alla nostra Repubblica - a gridare forte nelle parole che si susseguono nervose sulla carta. Parole che confermano la tesi iniziale: è tutto collegato. Non si può comprendere chi - in Italia o dall’Atlantico - muove i burattini che compiono le stragi nel nostro Paese se non si collegano i pezzi di tante storie segnate dal sangue di innocenti. la bestiaUomini, donne, bambini accomunati dallo stesso destino: uccisi per una ragione di Stato, o per quel “Lodo Moro”, di cui tanto si parla nel libro, al punto da citare le stesse parole di un profondo conoscitore dell’argomento come l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
L’ex giudice Palermo è un fiume in piena: nomi, numeri, date, riferimenti documentali, testimonianze dirette e indirette, e poi ancora collegamenti con inchieste archiviate, finite su binari morti e soprattutto ostacolate, tolte dalle loro sedi naturali per essere smembrate altrove con il timbro di giudici compiacenti. “La Cassazione aveva stabilito il trasferimento a Venezia di tutti i processi da me istruiti. In quei cinque anni (dal 1980 al 1984, ndr) mi ero scontrato con la mafia turca, quella siciliana, la ’ndrangheta, i trafficanti di droga e di armamenti, i servizi segreti, la massoneria e certi politici. Con il diktat proveniente da Roma, le mie carte avevano preso la strada di Venezia e io avevo chiesto di essere assegnato alla Procura di Trapani”. Il primo flashback racchiude in sé tutta la tragedia che si sta consumando. E’ la fine del 1984, mancano pochi mesi alla strage di Pizzolungo.

L’arabo degli abissi
La ricerca di Carlo Palermo parte dall’esame testimoniale, a Washington, del giudice Charles Rose, nelle indagini sulla strage di Capaci. L’ex pm racconta di questo magistrato degli Stati Uniti che era stato in contatto con Giovanni Falcone quando si trovava a Palermo e poi quando era a Roma a dirigere l’ufficio affari penali al ministero di Grazia e giustizia. “Rose viene interrogato nel novembre del 1993 da tre nostri magistrati che indagano sulla strage. Cercano di verificare a quando risalga l’ultima visita di Falcone negli Stati Uniti”. “Noto (nell’atto di citazione, ndr) il nome di un arabo a cui nessuno ha mai prestato attenzione (Khalid Duhham al-Jawary, ndr). Possibile che negli aspetti rimasti oscuri in quella strage, mi domando, sia esistita anche una sconosciuta componente terroristica?”. L’ex pm di Trento si domanda se l’arabo preteso nel 1991 dagli americani “fosse uno di quelli protetti con quei vecchi patti, poi denominati "Lodo Moro" con una terminologia, tuttavia, non del tutto corretta, in quanto costituirono espressione di volontà di interi nostri governi e non solo del politico democristiano sequestrato dalle Brigate rosse nel 1978”. Seguendo la ricostruzione emerge che il terrorista estradato da Falcone “risulta di parte palestinese; anzi appare stretto sodale dei due più terribili terroristi dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) di quell’epoca: Salah Khalaf alias Abu Ayad, capo dei servizi di sicurezza di Arafat, e Abu al-Hol, capo della famosa Forza 17, il piccolo esercito clandestino dell’OLP incaricato anche dei suoi lavori sporchi”. “Come mai quest’arabo, legato a simili tradizionali "amici" dell’Italia, non venne protetto nel nostro Paese e fu invece consegnato agli americani in un accurato silenzio?”. E’ lo stesso Palermo a fornire una possibile chiave di lettura. La pretesa degli americani di ottenere l’estradizione del terrorista arabo “sembra quindi diretta a colpire e porre fine a quei segreti patti stipulati fra l’Italia e i palestinesi mai approvati dagli Stati Uniti e ormai forse ritenuti superati dalla fine della Guerra fredda”. Per l’autore del libro esiste un preciso collegamento tra l’estradizione di quell’arabo, le forniture di armi all’Iraq e gli accertamenti svolti da Paolo Borsellino a Mannheim, dove sarebbe dovuto andare il giorno dopo la strage di via d’Amelio. Per Carlo Palermo si tratta di una “chiave occulta” che spiega i rapporti tra il mondo arabo, Cosa Nostra, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e alcuni nostri noti politici.

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Carlo Palermo © Imagoeconomica


Pizzolungo: quella macchia rossa sul muro
“Il tempo si ferma. Tutto si ferma. L’esplosione, il fuoco, il calore, lo spostamento d’aria, sono appena percepibili”. Il racconto del magistrato sopravvissuto alla strage di Pizzolungo è come un viaggio all’inferno. “È solo una frazione di secondo. Non c’è il tempo di chiudere gli occhi. Il cofano anteriore schizza per aria. Il vetro del parabrezza si frantuma. L’intera auto si accartoccia verso di me. Dagli squarci della carrozzeria si aprono spicchi di cielo. Il tempo è fermo. Sto morendo. Questo è l’attentato. Dio, mi pento... Il buio. Sono in piedi, fuori dall’auto. Salvo. In piedi. Sulle mie mani non vedo un graffio. Come sono uscito? Attorno non c’è nessuno. Da quel che resta della vettura si alza del fumo scuro. Un ronzio nelle orecchie è l’unica cosa che percepisco. Aiuto Maggio (Rosario, l’autista, ndr) a venire fuori dalla porta posteriore. Ha una profonda incisione sul volto. Mi porto la mano al capo. Mi stacco dai capelli un pezzo di lamiera bruciata, che cade per terra. Lo raccolgo. Mi tocco la faccia. Gli chiedo: 'Ho ferite?' 'No, dottore. Ce l’abbiamo fatta'”. Ma tutt’attorno regna la morte. “Un allucinante silenzio scandisce i secondi. Prendo la mia borsa in pelle che è ancora sul sedile. Schiacciata dalla lamiera, che è arrivata sino lì. La poggio sul prato. Non ho più gli occhiali. Ci vedo poco. Guardo verso la Ritmo della scorta. Si trova una ventina di metri indietro. Tra le due auto c’è per terra uno degli agenti che la occupavano (Raffaele Di Mercurio, Antonio Ruggirello e Salvatore La Porta, ndr). Ha ancora il giubbotto; il casco è spostato lì vicino. Sulla guancia un buco largo, netto e profondo alcuni centimetri, lascia vedere un pezzo di ferro incastrato dentro. Si lamenta, sussurra 'mamma'. Non ho parole, non ho lacrime. Ritorno verso la mia macchina. Sulla destra nella strada c’è una voragine di metri. Vedo per terra piccoli frammenti di lamiera di altri colori. Un flash nella mente mi fa muovere di scatto la testa. Le altre macchine? Dove sono? Scomparse. Mi giro attorno. Vedo tutto offuscato. Una macchia rossa in alto sulla parete di una casa richiama la mia attenzione. Mi avvicino. C’è un cancello, chiuso. All’interno, per terra, in corrispondenza della macchia in alto, piccoli resti... di un bimbo... di un elastico... fogli svolazzanti di libri di scuola. Ho gli occhi umidi. Ritorno alla mia auto. Vado avanti fino a un distributore di benzina. A una cinquantina di metri. Persone immobili, attonite, guardano mute. Chiedo un bicchiere d’acqua. Ritorno alla mia auto. Guardo l’ora. È sempre la stessa. Quindici minuti alle nove. Il tempo non passa mai. Mi gira la testa. Incomincia a dolermi il piede destro. Cerco le sigarette. Nella tasca del giubbotto trovo la mia penna. È completamente frantumata. Mi accendo una sigaretta. Mi siedo sul prato accanto alla macchina. Attendo”.

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Giulio Andreotti e Francesco Cossiga © Imagoeconomica


L’ombra nera di Craxi
E’ una presenza ingombrante quella dell’ex Premier socialista. Il viaggio a ritroso dell’autore ci riporta nel 1983. Le indagini di Carlo Palermo si incrociano con la figura di Bettino Craxi. Il suo nome viene accostato a forniture militari all’Argentina in cambio dell’appalto per i lavori della metropolitana di Buenos Aires. “Nel mese di giugno (del 1983, ndr), a seguito di una soffiata anonima - racconta l’ex magistrato -, sequestrai documenti che chiamavano in causa l’onorevole Bettino Craxi, che il 4 agosto 1983 sarebbe diventato presidente del Consiglio. Iniziai a svolgere verifiche sugli ambienti circostanti il PSI e in particolare su forniture di armi all’Argentina, alla Somalia e al Mozambico nel quadro della cooperazione governativa. Le reazioni furono durissime. Nel dicembre del 1983 procedevo su un doppio fronte: da un lato disponevo perquisizioni e sequestri di documenti su una società finanziaria di proprietà del PSI e dall’altro chiedevo al direttore del SISMI, Ninetto Lugaresi, documenti sulla cooperazione, in particolare sulla Somalia. Fu allora che Craxi si rivolse al procuratore generale della Cassazione, che intervenne immediatamente contro il mio lavoro. I provvedimenti che avevo emesso nei confronti di società legate al PSI mi vennero restituiti senza essere eseguiti. L’indagine rimase bloccata. Mi furono contestati abusi sia dal punto di vista disciplinare che penale. Mi si addebitò il mancato invio di una 'comunicazione giudiziaria' al presidente del Consiglio. Altri reclami si aggiunsero da parte di imputati e avvocati”.
Il 3 febbraio 1984 Bettino Craxi affida alle colonne de “Il Giornale” una sua lettera “che merita la prima pagina, in cui lamenta che io 'abbia provveduto ad estendere l’azione stessa anche alle violazioni commesse in danno mio e dell’onorevole Pillitteri [suo cognato]', auspicando che 'sul comportamento del giudice Palermo, rilevato e denunciato da molti mesi in pubbliche assemblee di avvocati con documentate accuse di abuso di potere, interesse privato in atti d’ufficio falsità ideologica ed altre violazioni di legge, mi auguro, come ogni cittadino, che sia fatta luce e giustizia nelle sedi competenti'”. Scatta il conto alla rovescia. La condanna a morte di Carlo Palermo è stata emessa.
“Il 23 giugno (1984, ndr) sento che per me è scoccata l’ora delle decisioni. Prendo carta e penna e denuncio il finanziamento illecito del PSI al presidente della Camera Nilde Iotti e al presidente del Senato Francesco Cossiga. Il 17 luglio inoltro ancora a loro altri documenti sequestrati 'sui rapporti militari italo-argentini, sui rapporti militari italo-somali, sulle connessioni del traffico di armi con la P2, con attività dei servizi e terrorismo (Brigate rosse)'. Allego anche le stesse intercettazioni telefoniche confluite nella mia inchiesta, sulle quali effettuerò, trentacinque anni dopo, le odierne ricerche”. In quello stesso periodo “malgrado le fortissime pressioni a cui ero sottoposto, denunciai Craxi alla Commissione inquirente per il reato di finanziamento illecito al PSI, nonché per vicende legate ai traffici di armi. Nelle mie carte comparivano personaggi noti come Lelio Lagorio, Gianni De Michelis, Paolo Pillitteri, e altri allora meno conosciuti, tra cui Ferdinando Mach di Palmstein, Silvano Larini, Augusto Rezzonico. Il 20 novembre 1984 arriva però la mannaia della Cassazione. “Fu accolta un’istanza presentata in segreto da imputati, avvocati e dallo stesso procuratore generale della Corte d’Appello di Trento, Adalberto Capriotti. Capriotti è proprio l’ex direttore del Dap che dieci anni dopo, nel '93, non prorogherà oltre 300 decreti di 41bis, finendo per essere indagato per false informazioni ai pm nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia.

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Bettino Craxi, Giuliano Amato e Gianni De Michelis © Imagoeconomica


Cronistoria
Merita di essere raccontata nel dettaglio la storia appena citata. E’ il 17 giugno 1983, Carlo Palermo riceve per posta due lettere anonime contenenti riferimenti a traffici di armi e in particolare “una spedita da un italoargentino di nome Gaio Gradenigo a una società di Milano, la Body Protector, apparentemente collegata ai traffici di cui mi occupo”. I documenti dai quali emergono il nome di Bettino Craxi e di “personaggi di area PSI assai noti in Argentina”, riguardano “forniture di armi italiane e appalti ricevuti in contraccambio”. Il racconto dell’ex pm prosegue fitto: “Che cosa scopro oggi? Intanto scopro che la Body Protector di Milano è collegata ai nostri servizi: in particolare al covo delle Brigate rosse di via Giulio Cesare (di proprietà di un’agente del KGB, poi assolta) e a giubbotti antiproiettile (da essa fabbricati) ceduti, a scopo commerciale, ai brigatisti (che comparivano nelle famose intercettazioni telefoniche disposte dal magistrato Piercamillo Davigo). Inoltre risulta collegata a Gaio Gradenigo per rapporti con militari argentini; è anche possibile ricondurla, verosimilmente, a fornitori militari di Gladio in Perù, nell’Operazione Lima del SISMI del 1987, anch’essa sottoposta a segreto di Stato”. L’analisi dell’ex pm è sempre più circostanziata. “Oggi conosco qualcosa di nuovo proprio su Gradenigo, l’autore della lettera che chiamava in causa Bettino Craxi. Nel 2016, infatti, ho fatto una scoperta sconcertante: Gaio Gradenigo in passato aveva fatto parte della milizia fascista, ovvero della GNR, la Guardia nazionale repubblicana nella Repubblica sociale italiana”. L’autore spiega che nell’interrogatorio Gradenigo “chiama in causa militari argentini, affaristi, industriali italiani e anche Bettino Craxi per i suoi interessi collegati agli elicotteri costruiti dalla società Agusta (guidata da un socialista, Raffaele Teti) e da fornire all’Argentina, ricevendo in possibile contraccambio l’assegnazione dei lavori per la metropolitana di Buenos Aires. Proprio durante questa mia missione a Buenos Aires qualcuno lascia nel frigorifero della mia camera d’albergo un biglietto scritto a penna contenente il primo avviso su ciò che in un futuro mi sarebbe dovuto accadere: sarei saltato per aria”. L’ex giudice Palermo ha indubbiamente superato il limite “consentito”. Di ritorno da Buenos Aires, trova sulla sua scrivania anche un’altra busta ufficiale, giunge del capo di gabinetto del ministro di Grazia e giustizia. Al suo interno c’è un appunto “riservato” del vicecapo di gabinetto del ministero dell’Interno. Oggetto: possibile azione terroristica in Trento. Riguarda lui.
Il 15 dicembre 1983 dopo aver interrogato come teste l’on. Giulio Andreotti l’ex pm parte per Reggio Calabria, dove si tiene un convegno sulla criminalità. Ed è lì che lo raggiunge un’urgente comunicazione di mettersi subito in contatto con il presidente del Tribunale di Trento, Rocco Latorre. Che gli riferisce di aver ricevuto alcuni fonogrammi da parte del procuratore generale della Cassazione, Giuseppe Tamburrino. Quest’ultimo lo accusa di avere compiuto atti contro parlamentari minacciandolo di provvedimenti cautelari e cioè di sospenderlo dal servizio.
“Alla Procura generale della Cassazione chiedo di parlare con il procuratore generale. Lui è presente, ma non mi riceve. Devo attendere. Mi viene indicato un suo sostituto procuratore generale. È anziano e mi scruta con occhio assai torvo. Si chiama Guido Guasco. Gli spiego la vicenda senza sbilanciarmi sulle carte che ho e che lui mi chiede di conoscere. Mi intima senza mezzi termini di 'non compiere più alcun altro atto'”.

Craxi e Pizzolungo nelle parole di Luigi Ilardo
Pesano come macigni le parole dell’ex confidente del colonnello dei Carabinieri Michele Riccio, Luigi Ilardo. L’ex boss della famiglia mafiosa di Caltanissetta, ucciso il 10 maggio 1996, prima che formalizzasse la sua decisione di collaborare, aveva parlato della strage di Pizzolungo. Vent’anni fa.
“L’intesa tra la mafia e il PSI - aveva dichiarato Ilardo - nasce intorno al 1985, anno in cui quel partito aumenta le preferenze nella regione Sicilia. Tale accordo trova suggello con l’attentato eseguito da esponenti di Cosa nostra al giudice Carlo Palermo, su richiesta dei vertici del PSI [...]. Quando avviene l’attentato a Carlo Palermo, io ero ristretto a Favignana [...]. A un certo punto arrestano Vincenzo Milazzo, imputato per questa cosa, e un altro di là, un certo Calabrò [...]. Il vero motivo per cui era successa questa strage era che il giudice Palermo aveva alzato la testa e stava indagando su fatti pochi chiari che riguardavano la condotta del PSI in generale e la posizione di Craxi in particolare e qualche altro del suo entourage”.
(segue)

IL LIBRO
La Bestia
Dai misteri d'Italia ai poteri massonici che manovrano le democrazie
Visita: sperling.it/libri/la-bestia-carlo-palermo

Info: carlopalermo.net

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