di Jean Georges Almendras - Intervista
Intervista esclusiva all’ex procuratore di Palermo, un protagonista della giustizia
Antonio Ingroia, ex procuratore aggiunto di Palermo ed oggi avvocato, assieme ad altri legali sudamericani ed europei, su richiesta della Fondazione privata Instituto de Conocimiento Político y Económico, le scorse settimane si è recato a Quito per assistere, come osservatore internazionale, l'ex presidente dell'Ecuador Rafael Correa, attualmente sotto processo. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per comprendere gli aspetti più salienti di questo procedimento.
Un'analisi accurata, la sua, su quella che è la giustizia in quel Paese (dove la politicizzazione ha tergiversato la trasparenza e l’essenza dell'amministrazione della giustizia), basata anche su esperienze vissute in prima persona, con tanto di intimidazioni subite.
La conclusione drammatica che se ne ricava è che dagli Stati Uniti le politiche imperialiste verso l'America Latina non si traducono più in colpi armati, ma in colpi giudiziari, con delle conseguenze più che letali: per le democrazie, le economie ed i popoli.
Ma non si è parlato solo di questo. Antonio Ingroia ha anche ragionato sul tema delle mafie nel mondo ed in Italia, fino ad arrivare alla recente sentenza del Tribunale di Palermo sulla trattativa Stato-mafia. Un'inchiesta che lo ha visto protagonista nella sua prima fase e che è stata poi condotta in maniera eccellente dai pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi. Ma ci ha anche raccontato quelli che sono stati i suoi primi passi come magistrato, vissuti accanto ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che pochi anni dopo sarebbero stati assassinati da Cosa Nostra.
Non era la prima volta che avevo modo di parlare con Antonio Ingroia. Lo avevo già conosciuto a Palermo, nei primi anni Duemila. Questa estesa intervista conferma pienamente l'idea di poter interloquire con un incondizionato combattente per la giustizia e la verità, impegnato nella lotta contro il crimine organizzato, consapevole dei suoi valori e dell'esperienza vissuta come operatore della giustizia, nel senso più ampio della parola. Un emblema (insieme ad altri suoi colleghi del passato e di oggi), della lotta Antimafia, coraggiosamente portata avanti in Italia dai martiri della Giustizia come i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il Generale dalla Chiesa ed altri. Una lotta che vede come protagonisti anche gli organi di informazione e, soprattutto, il popolo che, secondo le parole dell'ex pm, svolge un ruolo molto importante per mettere un freno alla globalizzazione delle mafie nel pianeta.
Dottor Ingroia, ci può riassumere la situazione in Ecuador dopo i giorni trascorsi in questo Paese nel suo ruolo di osservatore? Ora che è ritornato in Italia, a mente fredda, che valutazione darebbe di tutto ciò che è accaduto durante la sua visita?
Sono molto preoccupato per la situazione che ho visto in Ecuador, perché ho constatato diverse anomalie per uno Stato di diritto. Lo dico in particolare per quanto riguarda questo caso (il caso Balda-Correa), che ho studiato più a fondo di altri, dove l'ex presidente è accusato di un caso di sequestro di persona. Ma ci sono anche altri episodi come quello dell'ex vicepresidente dell'Ecuador, Jorge Glass, in carcere accusato di corruzione, con prove assenti; oppure quelli meno noti nel mondo che vedono coinvolti altri funzionari o ex ministri, tutti collaboratori di Correa quando lui era presidente. Leggendo le carte del caso Balda-Correa, dall'atto di accusa della Procura Generale dello Stato alla visione delle prime udienze, ho l'impressione che vi siano molte anomalie.
Può farci qualche esempio?
Intanto mi sembra evidente un difetto di giurisprudenza; perché l’accusa di sequestro riguardava un fatto avvenuto molti anni fa, nel 2012, in Colombia. Questo fu commesso interamente in Colombia e in quel Paese ci sono state già delle sentenze di condanna e ci sono tuttora delle indagini aperte contro gli esecutori materiali del sequestro i quali furono già condannati. Non si capisce bene perché si apre una nuova indagine della Procura Generale dell'Ecuador contro il presidente Correa. Un'indagine che è contro i principi base della giurisprudenza, perché eventualmente il procedimento sarebbe di competenza della magistratura colombiana. In secondo luogo abbiamo molte anomalie nelle competenze del pubblico ministero che ha iniziato l'indagine, perché il pm designato per la pubblica accusa è stato nominato “ad hoc” per questa indagine è stato direttamente designato dal potere esecutivo, dal potere politico, dal governo di questo momento. Altro aspetto è l'assenza di prove della responsabilità dell'ex Capo di Stato. Di fatto l'accusa si basa su un elemento: la dichiarazione, molto sospetta, di uno dei sequestratori che anni dopo lo svolgimento dei fatti, la cattura e l'arresto, ha accusato l'ex presidente ecuadoriano perché dice che Correa parlò personalmente telefonicamente con lui per incaricargli il sequestro. Mi sembra molto poco credibile che un Capo di Stato prenda il telefono per chiamare lui stesso un uomo della polizia nazionale per una cosa come questa. Hanno tirato in ballo, inoltre, la teoria che tutti i fatti illeciti commessi da uomini dello Stato devono essere anche responsabilità del capo dello Stato. Ed anche questa mi sembra una teoria non in linea con i principi basilari della colpevolezza e della tipicità dei fatti penali. E queste sono le anomalie più evidenti. In generale ho l'impressione che il clima che si respira durante le udienze ed anche nel Pase sia molto pesante. Appare, non voglio dire come una dittatura, ma una situazione senza controllo costituzionale. Anche la corte costituzionale in questo momento non funziona. Tutti i poteri di controllo sul potere politico, il potere esecutivo, sono sospesi.
Come avete vissuto il vostro ruolo di osservatori in questo periodo? Ci sono stati episodi di intimidazione nei vostri riguardi?
Dall'Europa siamo venuti in due, io e Christophe Marchand, un avvocato del Belgio. Assieme a noi c'erano anche l'avvocato Hugo Gutiérrez,, che è anche politico parlamentare cileno, l'avvocato, anche lui cileno, Rubén Jerez, l'avvocato e professore di Diritto Penale della Colombia David Araméndiz, ed un altro italiano, professore di Diritto Costituzionale, che vive a San Pablo, Jacopo Paffarini. Quest'ultimo rappresentava l'Istituto di Lawfare, del Brasile. L'atteggiamento verso di noi non è stato particolarmente accogliente e l'istituto che ci ha invitato, l'IPPE (Instituto de Pensamiento Político y Económico) ha previsto anche un servizio di vigilanza privata che ci scortava. Ma in generale il clima che si respirava non era buono. Per fare un esempio, durante un'udienza la giudice aveva dato disposizioni alla polizia che si trovava presente, affinché nessuno potesse compiere registrazioni audio-video. C'è stato un momento in cui uno dei legali cileni aveva il cellulare in mano per vedere l'agenda dei suoi impegni ed immediatamente uno dei poliziotti si è avvicinato per dire che quel telefono doveva restare in tasca e non in mano. Anche questi piccoli episodi testimoniano il clima di tensione che ci circondava.
Ma anche l'ultimo giorno di udienza è capitato un altro episodio quando un poliziotto ci ha fermato perché, a suo dire, i nostri nomi non risultavano nella lista delle persone autorizzate ad assistere all'udienza. E questo avveniva mentre un gruppo di uomini e donne sostenitori degli accusatori di Correa, ci gridava contro in maniera offensiva.
Poco dopo arrivò l'autorizzazione per entrare in aula ma la tensione è salita nel momento in cui la stessa polizia ha cercato di trattenere i nostri passaporti. E questo non è ammissibile perché non vi era alcuna ragione. Anche il giorno della partenza c'è stato un episodio insolito. L'altoparlante ha pronunciato il mio nome e cognome invitandomi a recarmi in un posto di controllo del bagaglio, proprio nel momento dell'imbarco. Hanno aperto la mia valigia per quindici minuti con il rischio di perdere l'aereo. Poi non è accaduto nulla ma a me è sembrato una specie di messaggio. Ma che il clima non fosse buono era evidente anche per l'atteggiamento ostile dei media. Ci sono state delle interviste e ci hanno fatto domande del tipo "chi vi paga?” o “voi siete pagati dall’ex presidente Correa?". In definitiva, un clima che lasciava ben in chiaro che nessuno ci voleva lì.
Nelle sue cronache da Quito lei ha detto che una volta conclusa la missione ci sarebbe stata una continuità una volta fuori dell'Ecuador. In cosa consisterà questo lavoro?
Sicuramente si. Il nostro ruolo come osservatori internazionali non è finito con la missione in Ecuador. Da parte mia, per prima cosa, io ho trasmesso all'Istituto che mi ha invitato la mia relazione sulla violazione del Diritto Processuale Penale presente in questo caso, il caso Correa-Balda. Io so che gli avvocati di Correa hanno consegnato questa relazione nell'ultima udienza, e nonostante questo la giudice non ha deciso niente, se rinviare a giudizio Correa o accettare e valutare le violazioni che io nella mia relazione ho evidenziato. Ma abbiamo ancora l’impegno di redigere un rapporto conclusivo della nostra missione a Quito. Ognuno con una parte specifica di un lavoro collettivo che renderemo pubblico e trasmetteremo alle autorità delle Nazioni Unite e agli organismi competenti di difesa dei Diritti umani a livello internazionale. Noi non crediamo che in Ecuador ci sia una situazione che permetta di valutare in modo sereno e tranquillo quella relazione. Quindi la trasmetteremo ad autorità internazionali, nel giro di una settimana o dieci giorni.
Quando lei va in Ecuador ci va esclusivamente in qualità di osservatore per l'IPPE o come difensore di Rafael Correa?
No, quello è stato un malinteso, perché la verità è che io ho conosciuto Rafael Correa nel mese di marzo o aprile di quest' anno quando lui è venuto in Italia a sensibilizzare l'opinione pubblica sul caso Glass che era stato arrestato; ancora non esisteva il caso Correa. Quando è venuto io ho parlato con lui e gli ho espresso la mia idea, perché avevo capito già che il caso Glass era un caso ingiusto, ed io avevo proposto a Correa l'idea di un gruppo di osservatori internazionali sul caso. Io non sono mai stato nominato suo avvocato. Successivamente, quando iniziò l'indagine contro di lui, io ho espresso la mia disponibilità a far parte della squadra di osservatori internazionali. Allora l'IPPE, che è un istituto non legato all'ex presidente Correa, mi ha invitato ad andare in Ecuador ed io ho fatto un comunicato stampa dicendo che andavo in qualità di osservatore internazionale; quindi nella pubblicazione, nella traduzione di questo comunicato si leggeva che io figuravo come suo avvocato. Io non sono il suo avvocato, non lo sono anche perché non posso esercitare da avvocato in Ecuador, io posso esercitare la professione solamente in Europa.
Lei è stato in Guatemala rappresentando l'Onu nel contrasto al narcotraffico; ha lavorato a lungo a Palermo contro la Mafia. Da osservatore esterno come vede lo scenario sud-americano tenuto conto dell'esempio dell'Ecuador ma anche quello che sta succedendo in Brasile con Lula, in Argentina con Cristina Kirchner? Questi episodi fanno parte di una cospirazione messa in atto in America latina?
Io credo di sì, ogni giorno mi convinco sempre di più di questo. Per quello che conosco posso dire che in Ecuador è in atto un disegno illecito di utilizzare le istituzioni, in particolare le istituzioni giudiziarie, con finalità che non sono quelle della giustizia. Gli studiosi dicono che si tratta di un caso di giudiziarizzazione della politica e politicizzazione della giustizia. Io credo che questo è quello che sta succedendo, perché non si possono spiegare altrimenti tutte queste anomalie nel caso dell'Ecuador; e questa stessa situazione mi sembra che si stia verificando in Brasile, nel caso Lula e nel caso Kirchner dell'Argentina. Io ho parlato con il professore Jacopo Paffarini, di questa visione dell'Ecuador e del caso Lula, che ho approfondito bene. Anche lui condivide questa idea. Per questo ritengo che il rapporto conclusivo della missione in Ecuador può essere solamente un capitolo all’interno di una storia più grande che interessa tutta l'América Latina. Possiamo dire che in questo momento è in atto una specie di golpe silenzioso, un colpo di stato. Non militare, come si faceva una volta, bensì un colpo di stato giudiziario. A me questo dispiace molto, perché sono stato un pubblico ministero, e sono stato magistrato, e il fatto che la magistratura sia utilizzata per queste finalità è qualcosa che mi dispiace. Ma mi sembra che sia questa la situazione attuale. Ho l'impressione che in America latina, nel momento storico in cui Lula era presidente del Brasile, Cristina Kirchner dell’Argentina, ma penso anche ad altre situazioni come il Venezuela di Chávez, o il Cile di Bachelet, tutto sia centrato nell’abbattere un'intera classe dirigente progressista, espressione di un cambiamento in America latina, una regione strategica, come sa molto bene, fonte di grandi ricchezze.
Allora i gruppi internazionali, multinazionali, legati soprattutto agli Stati Uniti di America, hanno bisogno di abbattere in maniera definitiva questa classe dirigente affinché non ci sia un nuovo periodo di cambiamento, e ritornare a quei tempi quando i gruppi di interesse affamavano le popolazioni dell'America Latina, solo per aumentare il denaro nelle loro casse.
In foto da sinistra: Nino Di Matteo, Antonio Ingroia e Gian Carlo Caselli
Secondo lei c'è una metodologia mafiosa in espansione, che ha origine nell'impero americano, nel governo americano, nei gruppi finanziari vicini al crimine organizzato internazionale?
Io credo di sì, perché l'attacco frontale dei mafiosi contro lo Stato, come facevano un tempo, è ormai passato. Ora la strategia delle mafie è diversa e molto insidiosa. Sono strategie di infiltrazione dentro le istituzioni, con l'intento di utilizzare le stesse per raggiungere le proprie finalità illecite. Allora, abbiamo un problema che abbiamo ora perfino in Italia, nella magistratura italiana - non come in America Latina, ma lo abbiamo - un problema di indipendenza ed autonomia della Procura e della Magistratura. Se la Magistratura e la Procura sono vincolate al potere politico; se la carriera del giudice o del pubblico ministero dipende dalla politica, allora non c'è indipendenza, non c'è autonomia, non c'è vera giustizia. Questo succede in Italia dove persone come me hanno addirittura lasciato la magistratura proprio per questa difficoltà di operare in una condizione di indipendenza. Succede lo stesso in Italia con amici ed ex colleghi come Nino Di Matteo che è un po' emarginato all'interno della magistratura. E questo accade perché la magistratura dell'Italia è molto conformista, molto omologata al potere politico.
In America latina la situazione è anche più avanzata con la magistratura che è controllata dal potere politico, e quindi ci troviamo, come dicono gli studiosi, una politicizzazione della giustizia che deriva da una giudiziarizzazione della politica. Questo succede anche perché i poteri criminali, le lobbies finanziate dalla Mafia, sono dentro le istituzioni, non fuori come ai tempi di Falcone e Borsellino che furono assassinati. Ora non hanno più bisogno di ammazzare un giudice, ora un giudice viene trasferito o vede i suoi poteri limitati, e mettono un altro giudice o un altro pubblico ministero controllabile al suo posto.
È molto importante quello che sta dicendo, perché sta confermando qualcosa che noi giornalisti continuiamo ad osservare progressivamente in America latina ed Europa. Come vede il giornalismo in America latina e come vede il giornalismo di denuncia, in Italia ed in America? Che ruolo può avere l'informazione nel contrasto contro il malaffare?
Io non voglio generalizzare superficialmente, ma posso dire che per quello che ho visto in Ecuador c'è una situazione di controllo della carta stampata dai gruppi più potenti. Carta stampata e tv rappresentano il quarto ed il quinto potere. Ad esempio, questo processo contro l'ex presidente Correa, appare soprattutto come un processo mediatico. Non è un processo giudiziario, ma si porta avanti attraverso i mezzi di comunicazione, basandosi su accuse che non hanno fondatezza.
Ho visto anche una situazione di monopolio di tutti i mezzi di comunicazione americani, in particolare sudamericani. Questa mia analisi della situazione non significa che tutti i giornalisti e tutta la stampa siano corrotti, il tema è che i giornalisti più indipendenti hanno un piccolo spazio nel mondo dei mezzi di comunicazione, quindi, giornalisti come lei in Uruguay ed altri in Argentina, Ecuador, Brasile, possono fare molto, io lo so, ma con molte difficoltà. Allo stesso tempo credo che la presenza di voci differenti, di punti di vista come quello mio e come quello degli altri osservatori è molto importante, perché fare conoscere punti di vista differenti può aiutare i cittadini dell'America latina, dell'Europa e del mondo a comprendere cosa sta avvenendo. Ed allora la lotta si deve fare anche sui mezzi di comunicazione.
Guardando indietro nel tempo, quando lei nell'87 entrò nel pool antimafia, e poi tornando ad oggi e alla recente storica sentenza che conferma che i poteri dello Stato erano coinvolti con Cosa Nostra in quella trattativa Stato-mafia, come valuta la situazione attuale nel contrasto alle mafie?
Posso dire che vedo con molto dispiacere la situazione attuale specie se penso al sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per tutti noi, dei loro agenti di scorta, di tutti gli altri uomini che sono morti in quella lotta, uomini dello Stato e non solo dello Stato, per un riscatto dell'Italia e del mondo, contro quella Mafia. Quel riscatto ci fu veramente, io l'ho vissuto. Fu un periodo molto importante, molto duro, molto denso di eventi, che ha visto anche lo Stato contro la Mafia. Tuttavia, quando siamo arrivati con Nino Di Matteo e gli altri colleghi della Procura di Palermo alla verità sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, il patto illecito di uomini dello Stato con la Mafia per una tregua, mentre Falcone e Borsellino venivano assassinati, io ho compreso che le cose erano molto peggiori di come pensavo e sicuramente di come pensavano Falcone e Borsellino. Perché si ha la prova che non siamo di fronte ad uno Stato inefficiente, ma di fronte ad un pezzo di Stato che scendeva a patti con i mafiosi.
Ora questa verità spiega cosa è successo in questi anni, dai massacri degli italiani, e non solo, fino ad arrivare a quanto avviene in Messico, in Colombia, ecc. ecc. Perché oggi la Mafia si è istituzionalizzata, la Mafia, con questo patto illecito con lo Stato, si è introdotta all'interno delle istituzioni. Il paradosso è che gli uomini di Stato come Falcone, Borsellino, Di Matteo, come io stesso, come lo è stato Giancarlo Caselli, prima erano come uomini stranieri dentro lo Stato, perché lo Stato agiva in un altro modo. Uno Stato che preferiva fare accordi con i criminali e le mafie. Questa è la situazione di oggi. La mafia militarmente più potente, che metteva in atto massacri non esiste più in Italia né in altre parti del mondo, ma abbiamo un'altra mafia che può essere più pericolosa della precedente.
Com'era lavorare e vivere accanto a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, in un’epoca come quella degli ottanta e novanta?
Posso ricordare due momenti, il primo fu quando conobbi Giovanni Falcone; io ero molto giovane, magistrato, avevo meno di trenta anni. Entrai nel suo ufficio per presentarmi, perché la Corte di Appello di Palermo mi aveva destinato nel mio primo incarico vicino a Falcone; Falcone non sapeva niente di questo, perché nessuno lo aveva informato. Allora egli si sentì un pochino sorpreso. "Ma come è possibile questo, che ho problemi di sicurezza, ho problemi di intimità nelle mie indagini e mi mettono così un giovane…, aspetta, aspetta che mi informo” disse. Allora io mi sentì un pochino in difficoltà, non sapevo cosa fare. Quando Falcone si informò con il capo della Corte di Appello, e questi gli disse che io ero un giovane molto promettente lui, con un sorriso, mi disse: “Bene, allora ho un compagno di ufficio". Quindi mi indicò una scrivania dove lavorare, mi consegnò un volume di dichiarazioni di un pentito che in quel momento lui stava seguendo, e aggiunse: “Ma, mi raccomando: niente può uscire da questo ufficio".
È stato un rapporto molto importante per me, perché avere come maestro per mesi e mesi un uomo come Falcone è stato veramente importante. Con Borsellino io ho lavorato per un lungo periodo, anni ed anni, molto vicino a lui. Borsellino era un lavoratore, ma anche un maestro per molti giovani magistrati. Del suo lavoro ne fece una scuola di magistratura, una scuola come professore, una scuola come lavoratore; molto pratico, molto concreto. Io ricordo che lui era molto generoso con i suoi collaboratori. Ricordo quando mi fu assegnata la mia prima scorta, io avevo 30 anni, e lui mi disse: "Questo non va bene, non va bene; perché tu stai incominciando troppo presto a muoverti con la scorta, ho molta rabbia, perché se la Mafia ti minaccia, significa che non sono stato un buon capo, perché un buon capo deve proteggere tutti i suoi collaboratori. La Mafia deve minacciare me solamente”. Quelle parole mi colpirono molto per la sua generosità, lui ci teneva molto a mantenerci sereni, persino nel periodo dopo la morte del suo amico fraterno Giovanni Falcone. Era molto preoccupato non tanto per la sua sorte ma per quella della sua scorta; allora quando poteva usciva da casa sua senza la scorta, perché diceva "se devono ammazzarmi, devono ammazzare solo me, non la mia scorta". Erano due uomini, lui e Giovanni Falcone che si integravano reciprocamente molto bene. Perché Falcone era un uomo più riflessivo, più introverso. Borsellino era più estroverso. Raccontare aneddoti sulla sua attività professionale piaceva anche a Borsellino, soprattutto a noi giovani per acquisire esperienza attraverso la sua esperienza che sapeva raccontarci. Era un gran conversatore, fu un periodo molto intenso ed un periodo molto triste con la loro morte.
Che messaggio o riflessione può dare all'opinione pubblica su tutto quello che ha vissuto sul tema Ecuador, il narcotraffico e la Mafia di oggi?
Due cose: una più positiva ed una più negativa; la prima che si può vincere contro i poteri criminali, la mafia militare ed anche quella finanziaria. Chi può vincere? Può vincere il popolo. Il momento più positivo vissuto nella lotta alla mafia in Italia è stato quando il popolo era vicino alla parte migliore delle istituzioni. Ai tempi del maxi processo il popolo era con Falcone e Borsellino e Falcone e Borsellino riuscirono a fare il maxi processo, ottenere la condanna di tutti i capi mafia perché il popolo era con loro. Dunque non si deve perdere la speranza, perché si può vincere anche nelle situazioni più difficili, in situazioni come quella attuale in Ecuador, o in altri paesi.
Il secondo aspetto, meno positivo, è che non è sufficiente la lotta contro la mafia militare. Lo dico sulla base della mia esperienza in Italia. Se si vince contro la mafia militare, bisogna stare molto attenti, fare molta attenzione perché la mafia "cambia giacca" e si infiltra dentro le istituzioni. Quindi è necessario non abbassare mai la guardia. Io credo, per concludere, che c'è una soluzione nella collaborazione tra i Paesi del mondo, perché nessuna lotta può essere vinta da un unico Paese, tutto è globalizzato. Anche la mafia è globalizzata e quindi noi dobbiamo fare una lotta di antimafia globalizzata. L'antimafia globalizzata può essere, a volte, dipende dalla situazione, un’antimafia contro lo Stato, perché può succedere che lo Stato si trasformi in mafia, e a quel punto ci troviamo in una situazione in cui bisogna avere il coraggio, la forza di affrontare anche lo Stato. Specie quando lo Stato non è uno Stato giusto, non è uno Stato costituzionale, uno Stato che agisca in linea con i principi basilari dello Stato di Diritto e della democrazia. Quindi, si può vincere, si può vincere con il popolo, collegando tutti i paesi del mondo.
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