di Aaron Pettinari
Il due agosto l'Italia si è fermata per ricordare le vittime della strage di Bologna; mentre ieri abbiamo ricordato Nino Agostino e Ida Castelluccio. Oggi, ancora una volta, si torna a fare memoria onorando tre servitori dello Stato che hanno sacrificato se stessi nella lotta alla mafia: Gaetano Costa, Ninni Cassarà, Roberto Antiochia. Seppur con ruoli diversi si può certamente dire che tutti hanno fatto la storia del contrasto alla criminalità organizzata (e non solo).
E' questo il caso di Costa. Il Procuratore capo di Palermo fu ucciso la sera del 6 agosto 1980, mentre camminava lungo via Cavour, una strada centralissima a pochi metri da casa. Camminava solo, senza quella scorta che avrebbe ricevuto solo il giorno dopo. Giunto davanti ad un'edicola, mentre sfogliava qualche pagina, fu raggiunto dai colpi di pistola.
Colpito alle spalle, in quello che era un vero agguato mafioso. Fu ucciso, forse, perché aveva capito prima di altri che "la mafia è nella cosa pubblica".
E così aveva avviato importantissime indagini come quelle sulle famiglie degli Spatola, dei Gambino e degli Inzerillo, sul filone investigativo che legava la mafia sicula a quella americana, sul nuovo business della droga condiviso dalle due organizzazioni.
Un’indagine che lo “sceriffo” Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile di Palermo, pagò con la vita il 21 luglio 1979, e che proseguì nelle mani di Emanuele Basile, capitano dei carabinieri della compagnia di Monreale, poi ucciso la sera del 4 maggio dell'anno dopo. Un unico filo legava i due omicidi, un filo che iniziò a stringersi anche attorno al procuratore Costa. A poche ore dalla morte di Basile i carabinieri erano riusciti ad arrestare 33 persone, presentando in procura il rapporto di denuncia. E proprio quel rapporto, molto probabilmente, segnò per il procuratore di Palermo un momento decisivo.
A dispetto delle previsioni degli avvocati, certi di vedere i loro assistiti tornare in libertà nel giro di poche ore, Costa firmò gli ordini di cattura. Ma ciò avvenne in completa solitudine assumendosene tutte le responsabilità senza la firma dei sostituti in quei documenti. E la stessa moglie di Costa, Rita Bartoli, in un'intervista rilasciata al Corriere della Sera (14 settembre 1983) affermò: "Mio marito fu lasciato solo a firmare i mandati di cattura contro la cosca Spatola-Inzerillo. Qualcuno lo additò addirittura come unico responsabile di quei mandati. Lo andarono a raccontare in giro agli avvocati dei mafiosi, ai giornalisti". E a quasi 40 anni di distanza quelle firme mancate ancora hanno un peso, così come l'assenza di verità su chi fossero esecutori e mandanti di quell'omicidio.
Cinque anni dopo la mafia tornò a colpire. Così, il 6 agosto 1985, in via Croce Rossa, un gruppo di uomini di Cosa Nostra uccisero sotto casa il vicequestore Ninni Cassarà e l’agente di scorta Roberto Antiochia. Rimasero feriti nell’agguato Giovanni Salvatore Lercara e Natale Mondo. La moglie di Cassarà affacciatasi dal balcone della propria abitazione vide morire il marito e chiese aiuto ai vicini. La risposta fu il silenzio. E anche in questo caso ci sono domande inquietanti: chi informò il comando di Cosa Nostra che Ninni Cassarà stava tornando a casa? Chi fu la talpa? Dopo la morte di Beppe Montana Cassarà aveva intuito che era sotto il mirino di Cosa Nostra ed allora si era “barricato” negli uffici della squadra mobile ed era quasi una settimana che non tornava a casa. Il 6 agosto decise di tornare a casa. Un commando di Cosa Nostra era pronto. Lo stava aspettando. Ma chi li avvisò? Quesiti che attendono ancora risposta.
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