Le motivazioni della sentenza del processo trattativa
di Aaron Pettinari e Miriam Cuccu
“Con l'apertura alle esigenze dell'associazione mafiosa Cosa nostra, manifestata da Dell'Utri nella sua funzione di intermediario dell'imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992". E' quanto si legge nelle motivazioni della sentenza del processo trattativa Stato-mafia, che ha condannato l'ex senatore FI Marcello Dell'Utri, cofondatore del partito di Berlusconi, a 12 anni per violenza e minaccia aggravata a corpo politico dello Stato.
E se i giudici parlano di una “sicura esclusione di un ruolo di Dell'Utri nelle vicende che, ad iniziare dal 1992, diedero luogo alla minaccia mafiosa in danno dei governi in carica precedentemente a quello poi presieduto da Silvio Berlusconi dal maggio 1994” soltanto “nella seconda metà del 1993” i boss di Cosa nostra “ritennero utile servirsi di Marcello Dell'Utri per ottenere i benefici per gli associati”. Un'azione, si legge dalle motivazioni, “prima parallelamente al tentativo di dare luogo ad una propria formazione politica nella quale collocare direttamente soggetti che potessero rappresentare gli interessi di cosa nostra” e poi, infine, sfruttando “la nuova forza che si accingeva a debuttare nel panorama politico nazionale per iniziativa di Silvio Berlusconi”.
Secondo i giudici della Corte d'Assise di Palermo, che hanno così confermato il ruolo di “cinghia di trasmissione” di Dell'Utri tra Cosa nostra e l'ex premier, nonostante non vi sia “prova diretta dell'inoltro della minaccia mafiosa da Dell'Utri a Berlusconi, perché solo loro sanno i contenuti dei loro colloqui, ci sono ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell'Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l'associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano”.
Gli incontri con Mangano
Rilevanti, secondo i giudici palermitani, gli incontri tra Mangano e Dell'Utri “in almeno due occasioni (la prima tra giugno e luglio 1994 e la seconda nel dicembre 1994) per sollecitare l'adempimento degli impegni presi durante la campagna elettorale, ricevendo, in entrambe le occasioni, ampie e concrete rassicurazioni”.
Nel primo incontro, riferito dal pentito Cucuzza, “Dell'Utri ebbe a riferire a Mangano 'in anteprima' di una imminente modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia (“Per quanto riguardava il 41 bis, per quanto riguarda l'arresto sul 41 bis c'era stata una piccola modifica...”)” che “sarebbe stata inserita nel testo di un decreto legge che di lì a poco sarebbe stato approvato dal Consiglio dei Ministri del Governo presieduto da Berlusconi”. Il fatto che, evidenziano i giudici, Dell'Utri riferì l'episodio a Mangano “per provare il rispetto dell'impegno assunto con i mafiosi, dimostra ulteriormente che egli stesso continuava a informare Berlusconi di tutti i suoi contatti con i mafiosi medesimi anche dopo l'insediamento del Governo” dell'ex cavaliere, dato che “soltanto Berlusconi, quale Presidente del Consiglio, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo quale quello che fu tentato con l'approvazione del decreto legge del 14 luglio 1994 n. 440 e, quindi, riferirne a Dell'Utri per 'tranquillizzare' i suoi interlocutori, così come il Dell'Utri effettivamente fece”. Ed è confermato come lo stesso Berlusconi, aggiungono i giudici “venne a conoscenza della minaccia” insita nei “tentativi di pressione” e “del conseguente pericolo di reazioni stragiste (d'altronde in precedenza espressamente già prospettato) che un'inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto far insorgere”.
Viene inoltre ricordato che “è sufficiente che la minaccia sia stata percepita dal soggetto passivo” e “non occorre affatto che il predetto effetto si verifichi in concreto” essendo “il bene tutelato dalla norma penale quello della integrità psichica e della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo”. “Ciò, però, non toglie – proseguono i giudici – che ugualmente gli interventi di Vittorio Mangano nei confronti di Marcello Dell'Utri possano aver avuto una obiettiva attitudine ad intimorire il destinatario finale, individuato dai mafiosi in Berlusconi, indipendentemente dal fatto che l'effetto intimidatorio, purché comunque percepibile e percepito, possa avere inciso concretamente sulla sua libertà psichica e morale di autodeterminazione”.
Berlusconi conosceva lo spessore mafioso di Mangano
C'è da dire che “sia Dell'Utri, sia Berlusconi cui erano rivolte le richieste, ben conoscevano lo spessore mafioso di Vittorio Mangano” e ciò “induce a non dubitare” che “l'approccio del Mangano (…) non possa che essere stato percepito dal proprio interlocutore come una forma di pressione inevitabilmente esercitata sotto la minaccia di possibili ritorsioni”. “Della conseguente implicita minaccia, dunque – scrivono ancora i giudici – devono ritenersi responsabili, tanto gli autori in senso stretto individuabili nei mafiosi dai quali promanava la 'pressione', quanto, a titolo di concorso, colui, Dell'Utri, che anche in questo caso come nel caso delle richieste dei pagamenti di denaro e dei relativi versamenti, ha svolto la funzione di intermediario verso il Capo del Governo Silvio Berlusconi”. E questo a fronte di un “ruolo di intermediario tra gli interessi di cosa nostra e gli interessi di Berlusconi svolto con continuità da Dell'Utri incontestabilmente” e già sancito dalla condanna definitiva per l'ex senatore a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Sul punto i giudici sottolineano come dato che “tali pagamenti sono proseguiti almeno fino al dicembre 1994” si ha quindi “la prova che Dell'Utri interloquiva con Berlusconi anche riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale (1994) nel quale incontrava Vittorio Mangano per le problematiche relative alle iniziative legislative che i mafiosi attendevano dal Governo”.
La minaccia recepita
In conclusione, “a prescindere dall'effettiva incidenza della pressione mafiosa sulle decisioni assunte da Berlusconi a mezzo del Governo da lui presieduto e, in definitiva, dall'effettivo insorgere in quest'ultimo di un timore, c'è, comunque, conferma che, con il raggiungimento del destinatario finale, si consumò, anche in questo caso, la rinnovazione della minaccia mafiosa per la sua comunque indiscutibile ed indubitabile oggettiva attitudine a intimorire il destinatario medesimo e, quindi, a turbare l'attività del Governo in quel momento in carica”.
Altro che “ambasciator non porta pena”
Che Dell'Utri non sia un semplice “ambasciator che non porta pena” si legge ancora, si ritrova nel fatto che l'ex senatore ha svolto “analogo ruolo di intermediario” tra Berlusconi e Cosa nostra e per il quale “è già stato definitivamente condannato per il diverso reato di concorso esterno in associazione mafiosa” anche se con riferimento alle condotte commesse sino al 1992. Ad ogni modo, proseguono i giudici, Dell'Utri “non ha mai agito nell'esclusivo interesse di Berlusconi, ma, altresì, anche nell'interesse quanto meno concorrente dei soggetti mafiosi” e questo “conduce ad escludere l'assimilabilità del ruolo di Dell'Utri” a quello del “familiare o all'amico dell'imprenditore vittima di estorsione che fa da tramite, nell'esclusivo interesse di questi e per ragioni meramente umanitarie, nel recapito della richiesta estorsiva da lui materialmente ricevuta”.
Secondo i giudici, però, c'è di più: perché la minaccia di Cosa nostra a Berlusconi “trova le sue radici nelle promesse che Dell'Utri, da assoluto protagonista della nascita ed affermazione della nuova forza politica, ebbe a indirizzare all'organizzazione mafiosa in vista delle elezioni politiche del 1994”. “Tali promesse, o, quanto meno, la disponibilità manifestata dal Dell'Utri anche in quell'occasione per soddisfare le esigenze di cosa nostra e che hanno contribuito all'entusiastico appoggio dato da quest'ultima in Sicilia alla nascente nuova forza politica, nonché all'affidamento, se non, in qualche caso, all'euforia, di molti capi mafiosi, hanno, nel contempo rafforzato, nei vertici dell'associazione mafiosa, il proposito criminoso di proseguire nella strada del ricatto anche nei confronti del Governo presieduto da Berlusconi. Tutt'altro – concludono – che un ruolo di Dell'Utri 'neutro'”.
Foto © Ansa
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