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dimatteo delbene c claudio paciellodi Aaron Pettinari - Video
I due magistrati intervenuti a Milano alla conferenza di WikiMafia, "Dipende da NOI"

La lotta alla mafia, l'impegno della magistratura, i silenzi della politica, gli attacchi subiti con il processo trattativa Stato-mafia, l'isolamento, la ricerca della verità sulle stragi, i legami tra le criminalità organizzata e segmenti del potere. E' un'intervista a tutto tondo quella che Nando dalla Chiesa, direttore dell'Osservatorio sulla Criminalità Organizzata della Statale di Milano, Presidente Onorario di Libera e figlio del generale ucciso in via Carini il 3 settembre 1982, ha fatto ai sostituti procuratori nazionali antimafia, Nino Di Matteo e Francesco Del Bene in occasione dell'evento "Dipende da NOI", organizzato da WikiMafia nei giorni scorsi, presso la Camera del Lavoro a Milano. Un dibattito a cui hanno partecipato tantissimi ragazzi. Grazie agli interventi dei due magistrati è stato possibile fare il punto sulla dimensione che i Sistemi criminali in Italia hanno assunto nel corso della storia, passata e presente.

La forza della mafia
Ed è proprio partendo dai rapporti mafia-politica, mafia-impresa, mafia-banche, mafia-pubblica amministrazione, mafia-informazione e mafia-giustizia che è iniziata la riflessione. Secondo Di Matteo questi rapporti sono il "cuore" su cui si dovrebbe insistere nel contrasto alle criminalità organizzate. "Le mafie hanno saputo sempre coltivare certi rapporti - ha detto il magistrato - Lo stesso Salvatore Riina, dialogando con alcuni capomafia diceva che 'se non avessimo avuto questo rapporti saremmo stati una banda di sciacalli', cioè una banda di criminali ordinari che come tali sarebbero stati debellati con una semplice repressione poliziesca. Se così non è stato è perché loro hanno la consapevolezza di questi rapporti e lo Stato non sempre ha avuto la consapevolezza e soprattutto la volontà di capire che, se non si recidono questo tipo di rapporti, in futuro potremmo arrestare dieci cento o mille esponenti dell'ala militare delle organizzazioni mafiose ma non vinceremo mai la guerra".
Quindi ha aggiunto che "al di là di quello che siamo riusciti a provare nei processi noi sappiamo che dietro l'eccidio di via Carini, dietro la strage di via d'Amelio, di Capaci, dietro gli omicidi eccellenti che hanno costellato la storia criminale di questo Paese c'è sempre stata una convergenza di volontà... Ora è necessario individuare, con nomi e cognomi, i responsabili ulteriori di tanti delitti eccellenti che hanno caratterizzato la nostra storia repubblicana e che non sono esclusivamente gli uomini d'onore che appartengono a Cosa nostra". Del Bene, da parte sua, ha ribadito: "Spesso siamo accusati di fare archeologia. Ma la necessità è quella di scavare nel tempo degli anni per individuare esattamente quelle persone, quella zona grigia che ha consentito la crescita di queste persone fino ad assurgere ai rapporti più alti delle istituzioni. Un'attività difficile ma che è un dovere morale... E' la volta che lo Stato italiano alzi la testa dinanzi a certe vicende e faccia completa chiarezza. Se noi non facciamo chiarezza sulle vicende del passato non riusciremo a comprendere bene il presente e soprattutto proiettarci nel futuro".

Il ruolo della Procura nazionale antimafia
Stimolati a rispondere sulle possibilità che la Procura nazionale antimafia può avere nel contrasto alla criminalità organizzata entrambi hanno evidenziato come la stessa abbia un ruolo differente rispetto a quello che Giovanni Falcone aveva pensato, lottando per la sua costituzione. "Falcone - ha ricordato Del Bene - sperava che la Dna potesse curare direttamente certe indagini in maniera centrale, sempre con l'aiuto delle distrettuali presenti sul territorio. Oggi la Dna svolge un'attività centralizzata di coordinamento anche se non è privo di efficacia il dato che oggi si ha una conoscenza del fenomeno in tutte le regioni... In Piemonte, in Lombardia, in Emilia Romagna, in Toscana oggi non parliamo più di infiltrazione dell'organizzazione mafiosa ma di radicalizzazione. E conoscere questi fenomeni diventa importante per contrastarli con forza anche laddove oggi le organizzazioni hanno diramato le proprie radici".
Ugualmente Di Matteo ha ricordato come la Procura nazionale antimafia ed antiterrorismo abbia un ruolo centrale a livello europeo proprio per le conoscenze acquisite nel corso degli anni. Inoltre ha ricordato che "la legge attribuisce alla Dna, oltre ai compiti di coordinamento, anche quelli di impulso che noi magistrati possiamo svolgere nei confronti di tutte le Procure distrettuali antimafia, attraverso strumenti incisivi: quello delle banche dati, fondamentali e ricchissime, che abbiamo a disposizione; quello dei colloqui investigativi (con i detenuti e non solo); quelli della pre-investigazione, rispetto l'investigazione giudiziaria che spetta alla Procura distrettuale; e quello dell'applicazione di magistrati della Dna nei processi presso le sedi distrettuali. La Procura nazionale antimafia non può esaurire il suo compito nel mero coordinamento e nella mera trasmissione di verbali da una procura all'altra o nella mera risoluzione o tentativo di risoluzione di conflitti che dovessero sorgere tra diverse procure.
Noi ci batteremo, assieme al procuratore Cafiero de Raho, affinché la Dna riacquisti il potere di impulso e di centralità affinché possa essere protagonista delle indagini assieme alle Procure distrettuali. Un passo necessario in particolare in indagini particolari come quelle sulle stragi, che richiedono un impegno totalizzante".

Il processo trattativa
Entrambi i pm hanno fatto parte del pool che ha condotto il processo trattativa Stato-mafia, conclusosi lo scorso 20 aprile con la condanna di boss, uomini delle istituzioni ed ex politici. Una sentenza che, come ha detto dalla Chiesa, oggi "sembra dimenticata, quasi come se non ci fosse stata". Ripercorrendo i momenti più difficili vissuti nel corso del dibattimento Di Matteo ha evidenziato come "dopo la sentenza i grandi media hanno parlato solo per un giorno e mezzo, dopodiché hanno taciuto. Diversamente hanno continuato a parlare, imperterriti quei giornali che in precedenza avevano osteggiato, denigrato e preso in giro l'inchiesta ed il processo". "Cosa sarebbe accaduto se fosse arrivata un'assoluzione, come gran parte di potere in questo Paese sperava? - si è domandato il pm - Questo Paese ha già rimosso la vicenda ed è letteralmente vergognoso... La sentenza della Corte d'assise sostiene che si è realizzata nei confronti di almeno tre governi della Repubblica di aver subito una minaccia e una pressione a colpi di bombe e di ricatti. Si è realizzata questa minaccia il ché significa che prima di tutto deve essere percepita e conosciuta da chi sta al governo". Due gli aspetti su cui il sostituto procuratore si è soffermato: "Il primo aspetto è che mentre saltavano in aria Falcone, Borsellino, Francesca Morvillo e i poliziotti delle scorte, e mentre venivano compiuti altri cinque attentati nel 1993 a Roma Firenze e Milano, c'era una parte di istituzioni che trattava con Totò Riina dicendo 'che cosa vuoi per finire le stragi?'. A me da cittadino italiano questa circostanza acclarata dalla sentenza colpisce". Il secondo è che "tra governi vengono raggiunti dalla minaccia ma nessuno degli esponenti di quei governi ha fornito un contributo. Nessuno, dopo la sentenza, continua ad avere la curiosità o ad interrogassi sulla reticenza di queste persone... Il processo lo abbiamo vinto e il potere ha reagito nel modo in cui reagisce meglio quando mancano i fatti su cui poter controbattere: alzando la cortina del muro di gomma, la cortina del silenzio, del 'non è successo nulla' o 'aspettiamo le motivazioni della sentenza o il secondo grado'".
Di Matteo punta il dito anche contro chi aveva definito il lavoro della Procura di Palermo "una botta pazzesca". "Oggi - ha detto - sentiamo lamentare da quelle stesse persone che la sentenza è arrivata dopo 25 anni, che la verità è tardiva o incompleta. Bene dopo 25 anni si sa che mentre saltavano in aria Falcone e Borsellino e nel contesto delle stragi non c'era soltanto Riina ma pezzi dello Stato". E a chi dice che mancano i politici sotto accusa il pm ha ricordato che "uno è ancora sotto processo (Calogero Mannino, ndr) e nel dispositivo è citato un altro (l'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ndr) che ha ricevuto la minaccia di Riina e non l'ha denunciata".

Gli attacchi al processo
Parlando degli attacchi subiti nel corso del processo Di Matteo ha ribadito come quelli che più lo hanno colpito "non siano stati tanto quelli arrivati dai media, dagli ambienti politici o dalla mafia ma dagli ambienti della magistratura". Il pm ha ricordato le parole del Procuratore generale di Milano che, a processo in corso, "criticava le iniziative processuali del Pm e della Corte d'Assise di Palermo". Poi ancora le dichiarazioni di altri magistrati che "parlavano di processo farsa". "Noi sappiamo - ha continuato Di Matteo - che se io o qualsiasi altro collega fossimo intervenuti dicendo qualcosa su un processo in corso a Milano, Firenze, Roma o Torino, dicendo che non lo condividevamo saremmo stati giustamente sottoposti ad un procedimento disciplinare. Noi siamo stati sottoposti a tutto. Non ci ha difeso nessuno, non ci ha difeso l'Anm, non ci ha difeso il Csm, non ci ha difeso, ed anzi ci ha strumentalmente attaccato, il Capo dello Stato. Noi siamo andati avanti non perché siamo bravi o siamo stati ragazzi eroi, ma semplicemente perché abbiamo fatto il nostro dovere".
Successivamente è stato il sostituto procuratore nazionale antimafia Del Bene a ricordare i momenti di isolamento ribadendo la gravità dell'azione del Pg di Milano in quanto "un organo giudicante censurava a mille chilometri un altro organo giudicante senza conoscere i fatti". Poi ha aggiunto: "Un altro momento difficile da digerire è stato quando ci è stato imposto la distruzione delle intercettazioni. Lo dico da tecnico del diritto. Noi abbiamo agito nel rispetto della legge e abbiamo fatto molto di più di quello che altri uffici non avevano fatto e che non sono stati censurati. Le famose conversazioni (quelle tra il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l'indagato Nicola Mancino, ndr) le abbiamo ascoltate solo noi. Non troverete un brogliaccio in cui si parla del contenuto. Non le abbiamo mai depositate in un processo per chiedere al giudice di ascoltarle, trascriverle o utilizzarle. Nello stesso arco temporale un altro ufficio giudiziario, con lo stesso interlocutore (Napolitano) ha fatto ascoltare le intercettazioni all'autorità giudiziaria, le ha fatte inserire nei brogliacci, le ha depositate, le ha fatte trascrivere e le ha fatte avere ai giudici e alle parti. Ebbene non si è mossa foglia".

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Il rapporto con Antonio Ingroia

Nel corso del dibattito entrambi i magistrati hanno ricordato il rapporto di lavoro avuto con l'ex collega Antonio Ingroia, che con Di Matteo ha curato l'inchiesta sulla trattativa per poi "lasciare il testimone" a Vittorio Teresi come procuratore aggiunto di riferimento, evidenziando come lo stesso sia stato "un magistrato che ha interpretato il suo ruolo secondo il dettato costituzionale di cercare di trattare tutti i cittadini allo stesso modo. Un magistrato che ha avuto il coraggio di indagare settori inquinati delle istituzioni e settori inquinati e inquinanti della politica". Nel suo intervento Di Matteo ha anche denunciato la revoca della scorta ad Ingroia.

La mafia spiegata a un bambino: perché la politica non ne parla?

Dalla Chiesa ha poi chiesto ai due magistrati di provare a rispondere ad un eventuale bambino che, curioso di capire cos'è la mafia, "ad un certo punto vi chiede per quale morivo quei signori, i politici, non ne parlano". Di Matteo è diretto: "Non ne parlano perché una parte trova ancora conveniente che questo sistema mafioso-corruttivo non venga affrontato con decisione e sconfitto. Perché da questo sistema comunque traggono la possibilità di nuovi affari, consensi, di perpetrazione del sistema di potere. Poi c'è un'altra parte che sembra ignorare la gravità del problema, che sembra non avere gli strumenti e che non li vuole acquisire... non ha consapevolezza di quello che c'è dietro i delitti eccellenti, di quello che c'è stato dietro nell'immediato dopoguerra in determinati accordi tra la mafia e le strutture politiche. Non vogliono avere la consapevolezza di quello che significa nel suo reale significato più vero la sentenza Andreotti o quella Dell'Utri. E non si pone il problema di ciò che significa la sentenza sulla trattativa Stato-mafia. Quindi a questo ipotetico bambino risponderei: lotta per te stesso, prima di tutto, per il tuo futuro affinché quei politici che convivono e che vogliono convivere vengano espulsi dalla vita politica. E lotta per cambiare quelli che ignorano il problema perché è altrettanto grave l'atteggiamento". Quindi ha aggiunto: "La mafia verrà sconfitta quando si realizzano due condizioni, in primis una rivoluzione culturale che deve partire dai giovani nella consapevolezza e nella conoscenza del problema. Ma l'altro punto dipende dalla politica".
Di Matteo ha dunque ricordato quanto sancito dalle sentenze Androetti e Dell'Utri sottolineando che ancora oggi "una parte importante della politica è rappresentata da un soggetto che una sentenza definitiva afferma che ha stipulato un patto, dal 1974 fino al 1992, con i capi delle famiglie mafiose palermitane. Allora era un imprenditore, si tratta di Silvio Berlusconi".
Secondo il pm "la politica deve fare un cambio di marcia. Deve stare in prima linea... Oggi mi sembra che abbia perso la consapevolezza della gravità del fenomeno e non ha più la volontà di stare in prima linea". Di Matteo ha quindi definito "una scusa meschina" il principio per cui oggi la politica "aspetta le sentenze definitive della magistratura". "Confondono i piani volutamente - ha ribadito - perché la magistratura accerta la responsabilità penale di singoli soggetti e di singoli comportamenti ma ci sono determinati fenomeni di collusioni che al di là dell'esito del processo penale dovrebbero essere sanzionati con una responsabilità politica". Del medesimo avviso il sostituto procuratore Francesco Del Bene che ha ricordato come la politica non si muova anche quando ci sono le sentenze. "Anche in quelle di assoluzione - ha ricordato - ci possono essere degli elementi su cui riflettere. Non si leggono mai le motivazioni delle sentenze. Ci sono dei comportamenti che possono avere rilevanza penale, altri no. Ma se tu incontri mafiosi, delinquenti e truffatori ha comunque un peso". Del Bene ha poi evidenziato il ruolo che deve avere l'informazione: "Bisogna conoscere il fenomeno. Un tempo si diceva che la mafia non esisteva, oggi non è più possibile dirlo ma si nasconde il problema".
Entrambi hanno ribadito il concetto che "la questione mafiosa è principale per la democrazia del Paese".

L'intervento di Salvatore Borsellino
Prima della fine dell'evento, con le conclusioni dell'ideatore e co-fondatore di WikiMafia, Pierpaolo Farina, che ha ricordato il valore dell'impegno quotidiano e di tutti nella lotta alla mafia, sul palco è salito Salvatore Borsellino. Il suo è stato un intervento accorato in cui, a proprio nome, ha anche voluto chiedere scusa a Nino Di Matteo per gli attacchi di sua nipote Fiammetta, figlia di Paolo, a proposito del depistaggio del finto pentito Scarantino. Poi, rivolgendosi ad entrambi i sostituto procuratori nazionali antimafia, ha aggiunto: "Voi non siete mai stati da soli. Noi vi siamo sempre vicini, noi vi abbiamo seguiti in ogni momento durante la vostra lotta e come voi siamo stati derisi e accusati. Se questo processo non avesse avuto la fine che grazie a Dio avuto anche noi saremmo stati attaccati. Saremmo stati il 'vascello pirata' finalmente affondato. Non è così. Questo processo è una svolta come anche il processo di Caltanissetta. Queste due sentenze portano ad una strada nuova, ancora lunga, difficile come quella di oggi ma non ci arrestiamo".

Foto © Claudio Paciello

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