di Lorenzo Baldo
Un istante eterno. E’ quello che resta nella foto di Paolo Borsellino scattata da Francesco Pedone. E’ il 24 maggio 1992, il giudice Borsellino è nell’atrio del Palazzo di Giustizia adibito a camera ardente dopo la strage di Capaci. Sullo sfondo si intravedono i cinque catafalchi pronti a sorreggere le bare del giudice Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Attorno a lui c’è il vuoto. Il senso di solitudine che pervade il giudice è devastante. Nel suo sguardo c’è tutta la consapevolezza di un destino segnato. Arrivano le bare. Borsellino è tra coloro che portano quella di Falcone. Mentre sorregge il feretro con la spalla sinistra i suoi occhi guardano lontano, oltre la città di Palermo. Appoggiano la bara. Con voce ferma Borsellino si rivolge ai suoi colleghi accanto a lui indicando le bare. “Chi vuole andare via da questa Procura se ne vada. Ma chi vuole restare sappia quale destino ci attende. Il nostro futuro è quello. Quello lì”.
E’ un ricordo fatto di carne e sangue quello che prende forma 26 anni dopo la strage di Capaci. Nel bel mezzo di una instabilità politico-istituzionale è come se le immagini indelebili di quelle stragi ci risvegliassero nuovamente da un’anestesia indotta. Come se una sorta di flashback ci venisse a ricordare quegli uomini e quelle donne che hanno dato la vita per un futuro migliore di quello che si sta prospettando.
E’ passato solo un mese dalla storica sentenza al processo sul patto tra Stato-mafia e i tanti giustificazionisti della trattativa continuano a inveire pesantemente - attraverso tesi e teorie che si commentano da sole, con il beneplacito di buona parte dei media - contro quel procedimento e i pm che l’hanno istruito. Ampio risalto viene dato in questi giorni anche al “fuoco amico” di qualche ex magistrato che si scaglia indebitamente contro l’impostazione “fantascientifica” di quel processo. Niente di nuovo sotto il sole. Soprattutto da parte dei soliti hooligans degli ufficiali dei Carabinieri, condannati assieme a boss mafiosi, sempre pronti a recitare il mantra vittimistico dei loro eroi. Che - in un clima di grande restaurazione - si autoassolvono con molta nonchalance. Di contraltare a quell’antimafia di facciata che si sgretola sotto i colpi delle inchieste giudiziarie, si fa spazio la pretesa di giustizia di Fiammetta Borsellino che si rivolge agli assassini di suo padre per avere la verità. Nel frattempo i tanti sepolcri imbiancati si preparano alla sfilata del 23 maggio a favor di telecamera. La sentenza sulla trattativa? Facciamola cadere nel dimenticatoio. I buchi neri nella strage di Capaci? Cose vecchie. Le indagini sul depistaggio nella strage di via D’Amelio? Non se ne parla. Prepariamoci quindi al festival dell’ipocrisia. Che si sovrappone ad un altro ricordo, indelebile e assolutamente autentico: il grido di Rosaria Costa, la vedova dell’agente di scorta di Giovanni Falcone, Vito Schifani, durante i funerali del giudice, di sua moglie e dei tre agenti di Polizia. “A nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato… - aveva gridato Rosaria prostrata dal dolore - chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia. Adesso, rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono anche qui dentro i mafiosi… e non… ma certamente non cristiani: sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono. Io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio… se avete il coraggio di cambiare… ma loro non vogliono cambiare… loro, loro non cambiano…”. La forza delle parole di questa donna continua a rimbombare nella città di Palermo. Ma soprattutto rimbomba nell’Italia delle connivenze e delle trattative, che non accetta una verità scomoda e che “non vuole cambiare”. Un Paese dove la strategia dell’immobilismo viene usata come arma potentissima per confondere le acque. Per poter tirare avanti fino al prossimo anniversario.
Info: Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino
Foto di copertina © Shobha
Foto a destra © Francesco Pedone
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