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graviano giuseppe c ansadi Aaron Pettinari
"Berlusca mi ha chiesto questa cortesia... per questo c'è stata l'urgenza. Lui voleva scendere... però in quel periodo c'erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa". È uno degli stralci di conversazione del boss di Brancaccio insieme al co-detenuto, il camorrista Umberto Adinolfi, durante l'ora d'aria nel carcere di Ascoli Piceno. Per 14 mesi, dal febbraio 2016 ad aprile 2017, le microspie hanno registrato le loro parole nell’ambito dell’inchiesta bis sulla trattativa Stato-mafia.
Perché il lavoro degli inquirenti non si ferma con la sentenza emessa venerdì dalla Corte d’Assise di Palermo. Lo hanno ribadito gli stessi pm (Antonino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia) al termine del processo. “Il lavoro non è finito - aveva dichiarato Di Matteo - Credo sia un momento in cui c’è una pronuncia giudiziaria importantissima sulla qualità ed esclusività dei rapporti dei corleonesi con lo Stato. Spero e credo che possa costituire anche uno stimolo per continuare le indagini sulle stragi del ‘93 e per cercare di acclarare se siano opera di Cosa nostra o di soggetti estranei a Cosa nostra. Adesso c’è una sentenza le cui motivazioni saranno sicuramente illuminanti che dovrebbe servire da ulteriore stimolo per tutti quelli che ne sentono la necessità a livello giudiziario e politico per fare definitiva chiarezza sulle stragi”.
La Procura di Firenze in questo senso ha già riaperto il fascicolo d’indagine per concorso in strage a carico di Berlusconi e ancora di Dell’Utri (dopo due archiviazioni). E mentre la Procura di Caltanissetta sta riflettendo se riaprire le indagini sulle stragi del 1992 e sui “mandanti esterni” alla mafia, e quella di Reggio Calabria celebra un processo contro il boss di Brancaccio (imputato assieme al boss Rocco Santo Filippone per gli attentati ai carabinieri in Calabria, tra il ‘93 e il ‘94), quella di Palermo prosegue con l’ulteriore filone di indagine.
Nel capo d’accusa provvisorio nei confronti di Graviano è scritto che il capomafia “usava minacce e violenza prospettando l’organizzazione o l’esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti per impedire o comunque turbare” l’attività del governo. Un’azione che veniva messa in atto dal boss di Brancaccio insieme a Riina, Bagarella e “esponenti politici di primo piano tra i quali Dell’Utri Marcello”. Proprio Dell’Utri è stato riconosciuto colpevole dalla Corte “limitatamente alle condotte contestate come commesse nei confronti del Governo presieduto da Silvio Berlusconi.
E’ indubbio che le parole di Graviano, registrate in carcere, forniscono diversi elementi. Sempre parlando di Berlusconi il boss di Brancaccio aggiungeva: "Sì, 30 anni fa mi sono seduto con te, giusto è? Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi, per che cosa? Per i soldi, perché a te ti rimangono i soldi”. E ancora: “Io non ho fatto niente, ti ho aspettato fino adesso perché ho 54 anni, gli anni passano, io sto invecchiando e tu mi stai facendo morire in galera… ti viene ogni tanto in mente di passarti la mano sulla coscienza, se è giusto che per i soldi tu fai soffrire le persone così?’’. Graviano sostiene anche di aver incontrato l'ex premier insieme ad un "paesano", indagato dalla Procura di Palermo nel fascicolo-stralcio sulla trattativa Stato-mafia. “È un paesano di quello che è morto - spiegava Graviano in carcere - e loro volevano fare… invece ci pressava per non farla questa volta, perché gli interessava di scendere lui, mi sono spiegato? E continuare, e invece dovevamo accordare e alla fine c’erano tanti punti da risolvere”. In un altro passaggio fa anche riferimento ad una figura, “la montagna”, che le stragi non le voleva (“Non volevano più le stragi... la montagna mi diceva, no… è troppo”).
Non solo, al boss camorrista, che sarebbe dovuto uscire dal carcere da lì a poco, Graviano chiedeva anche il favore di consegnare un messaggio intimidatorio a un misterioso tramite con Berlusconi. In quella intercettazione il boss palermitano dava anche indicazioni precise per arrivare all’uomo con riferimenti al fratello di Cesare Lupo, un altro boss di Brancaccio, e a un tale Giovanni, “che sa tutto”.

La mancata deposizione
Il boss di Brancaccio avrebbe potuto fornire chiarimenti proprio all’interno del processo trattativa, quando venne chiamato a testimoniare, ma da buon capomafia si avvalse della facoltà di non rispondere.
Ma al di là delle intercettazioni del boss, che hanno suscitato diverse polemiche al processo trattativa, con la relazione dei periti Antonino Caiozzo e Nino Maio, nominati dalla Corte, che è stata condivisa da quelli nominati dall'accusa (Merenda e Bonferraro, ndr) ma non da quello della difesa dell'ex senatore Marcello Dell'Utri (Pietro Indorato, ndr).
Sarà importante leggere le motivazioni della sentenza della Corte presieduta da Alfredo Montalto perché si potrà capire la valutazione fatta su questo elemento “chiave”.
Al di là dei “Berlusca”, dei “B.”, dei “Mi” o “Bravissimo”, ascoltati o no, ci sono anche le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che offrono importanti contribuiti per ricostruire il periodo delle stragi. Gaspare Spatuzza, il pentito che nel 2008 ha riscritto la storia della strage di via D’Amelio, ha raccontato le confidenze di Graviano secondo cui, grazie agli accordi con Berlusconi e “il nostro paesano Dell’Utri”, i boss “si erano messi il Paese nelle mani”. Tanti pezzi di una storia che, nonostante la sentenza, presenta ancora molte ombre. Una verità che può essere portata alla luce.

Foto © Ansa

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