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fiandaca giovanni 3di Lorenzo Baldo
All’indomani di una storica sentenza, il commento del noto giurista


Ancora tu? Ma non dovevamo non vederci più? Come nel più classico dei sequel, ecco che torna il tormentone degli anni passati attraverso il professor Giovanni Fiandaca. Che non si risparmia nelle critiche in merito alla sentenza dalla Corte d'Assise di Palermo al processo sulla trattativa Stato-mafia. “Avrei visto di più un’assoluzione - dichiara a Repubblica l’esimio giurista -. Ma le mie riserve giuridiche rimangono intatte, specie quelle sulla configurabilità in questo caso del reato di minaccia a un corpo politico”. E poi giù una stoccata ai giudici popolari: “Credo che le questioni giuridiche emergenti fossero troppo sottili per la componente laica della corte d’Assise”. “Io ritengo che siano questioni di competenza di un giudice solo professionale“, ribadisce all’Ansa il giurista sottolineando che per lui quello sulla trattativa era un processo che non doveva neanche iniziare. “La mia - conclude - è un’opinione condivisa anche da altri giuristi, ma negli ultimi anni sempre meno noi professori e i magistrati ci siamo capiti, nel senso che la magistratura in buona fede ricorre a interpretazioni estensive delle norme incriminatrici anche sorvolando su questioni di stretto diritto pur di arrivare ai risultati repressivi che ritiene necessari”. Interessante disquisizione in punta di diritto, difficilmente ripetibile, però, a chi ha visto morire un familiare per mano di quella mafia che con lo Stato ha trattato.  

La trattativa “legittima”
Nessuno stupore alle affermazioni di Fiandaca per il quale - non va dimenticato - se anche fosse ci fosse stata una trattativa sarebbe stata comunque “legittima”. Benvenuti al festival della tradizione italiana: stragi, misteri, segreti e nessun mandante esterno. L’eco delle parole di Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo contenute nel loro libro “La mafia non ha vinto - Nel labirinto della trattativa” non si è mai affievolito in questi anni. Ed è ricordando le loro (ardite) tesi che si può capire perché la sentenza di ieri è decisamente storica.

Carta canta
“Qualcuno può avere avviato, più o meno autonomamente, trattative con la leadership dell’organizzazione mafiosa - avevano scritto quattro anni fa Fiandaca e Lupo -, o con qualche sua fazione, o qualche suo satellite… la scelta politico-governativa di fare concessioni ai mafiosi in cambio della cessazione delle stragi risulterebbe legittima perché legittimata, appunto, dalla presenza di una situazione necessitante che impone agli organi pubblici di proteggere la vita dei cittadini”. Contenti? Che volete di più?, vi è stata pure salvata la vita! Le vittime delle stragi del ‘92/’93 tra cui donne e bambini? Effetti collaterali di una strategia che prevedeva il prezzo di vite umane. Fantapolitica? No: mero calcolo politico-terroristico. Ma guai a scriverlo, anche se di trattativa tra Stato e mafia si parlava già nelle sentenze di Firenze per le stragi del ‘93, con tanto di sigillo della Cassazione.
Del tutto irrilevante per il prof. Fiandaca che un Gup rigoroso come Piergiorgio Morosini nel 2013 rinviò a giudizio tutti gli imputati al processo sulla trattativa con un decreto di 50 pagine in cui venivano menzionati quegli “uomini cerniera” tra Stato e mafia. “Dall’esame delle fonti indicate - si leggeva nel documento - si ricavano elementi a sostegno di una ipotesi di esistenza di un progetto eversivo dell’ordine costituzionale, da perseguire attraverso una serie di attentati aventi per obiettivo vittime innocenti e alte cariche dello Stato, rivendicati dalla Falange Armata e compiuti con l’utilizzo di materiale bellico proveniente dai paesi dell’est dell’Europa”.

A futura memoria
Vale la pena riprendere alcuni passaggi di un’intervista all’ex pm Antonio Ingroia realizzata qualche anno fa assieme al direttore Giorgio Bongiovanni. Giusto per ristabilire la verità dei fatti. E’ una sorta di flashback che può risultare molto utile per comprendere le ragioni delle dichiarazioni odierne del prof. Fiandaca. Ingroia spiegava accuratamente che l’approssimazione nella ricostruzione degli aspetti storici e giudiziari della trattativa Stato-mafia da parte di Fiandaca e Lupo era “sintomatica di un pregiudizio”. Quello stesso pregiudizio “che anima una parte consistente dell’informazione, della politica e persino della magistratura”. E quali sono le ragioni di questo pregiudizio? “Una - spiegava l’ex pm - è rappresentata proprio dal rifiuto pregiudiziale di una magistratura che indaghi sull’inconoscibile. Uno di questi limiti è quello relativo ad una presunta ‘ragione di Stato’ che dovrebbe inibire l’azione giudiziaria di accertamento della verità. Ed è probabilmente l’identica matrice che ha ispirato anche il conflitto di attribuzione sollevato dal presidente della Repubblica”. “Il secondo fattore che determina questo pregiudizio è rappresentato da un certo conformismo nella lettura di vicende giudiziarie che si contrappone ad una verifica laica che andrebbe fatta per accertare se la verità giudiziaria, proposta da un ufficio giudiziario, ha un suo fondamento”. “Fiandaca e Lupo - proseguiva Ingroia - fanno una sovrapposizione di questione etica e di questione giuridico-giudiziaria. Che invece vanno tenute distinte. Da magistrato ritengo condannabile sul piano giuridico-giudiziario la condotta degli imputati di quel processo e ritengo eticamente condannabile la condotta degli uomini dello Stato che hanno trattato con la mafia. Ma le due cose le tengo ben distinte e separate”.

Una trattativa per difendere la casta
In merito alla questione di una possibile trattativa “legittima”, Ingroia aveva inquadrato subito la natura del problema: “Non è vero che la trattativa è stata fatta a fin di bene per salvare lo Stato e per salvare i cittadini in quanto lo Stato era in ginocchio. E non è vero che per ragioni di ordine pubblico tutto può essere giustificato. Questa è una trattativa che è nata per difendere la casta: una ristretta cerchia di uomini politici che erano stati condannati a morte dalla mafia. La mossa con cui viene istigata Cosa Nostra a farsi ancora più avanti con la minaccia (ricordiamoci quando Riina disse: ‘si sono fatti sotto’) si concretizza proprio quando lo Stato ‘si è fatto sotto’ chiedendo cosa volesse in cambio la mafia”. “Quello che succede nel ’93 è l’adempimento di una sorta di cambiale che era stata firmata nel ’92, perché in quella stessa cambiale gli uomini politici in effetti sono stati salvati”. Poi però ci sono degli “ostacoli” imprevisti nell’iter della trattativa.

Uccidete Paolo Borsellino!
Il principale “ostacolo” è indubbiamente rappresentato dal giudice assassinato in via D’Amelio assieme ai cinque agenti scorta il 19 luglio 1992. “La strategia subisce una deviazione che trova sulla sua strada altre vite umane, a cominciare da Paolo Borsellino, fino alle vittime delle stragi del ’93”. “E’ come dire - aveva specificato Ingroia - che una classe dirigente, un ceto politico, ha messo sul piatto della bilancia altre vite umane, dandole in pasto alla mafia, per salvare se stesso. Quella classe dirigente è responsabile di queste stragi. Secondo me è innanzitutto responsabile sul piano etico, ma ci sono anche delle responsabilità penali. Che altre procure diverse da quella di Palermo dovranno accertare. Di fatto, chi fece sapere che Borsellino era un ostacolo alla trattativa (che è stata la causa scatenante per cui Borsellino è stato ucciso) non può non essere anche penalmente responsabile, perché non poteva non prevedere che la conseguenza sarebbe stata quella che venisse eliminato. E’ plausibile che lo stesso tipo di ragionamento si possa fare rispetto alle stragi del ’93”. Ma l’accelerazione della strage di via D’Amelio sarebbe stata imputabile unicamente alla presa di coscienza di Borsellino della trattativa in corso tra Stato e mafia e al suo mettersi a mo’ di ostacolo? O quella “fretta” rientrava comunque all’interno di un piano di destabilizzazione già prestabilito? Dal canto suo Ingroia aveva risposto che questo interrogativo faceva parte delle domande a cui a tutt’oggi non ci sono ancora risposte. “Allo stesso modo dimostra la sconfitta della giustizia perché non siamo stati in grado di scoprire tutta la verità. Credo comunque che ci siano elementi per poter affermare con sufficiente certezza che Paolo Borsellino sia stato ucciso non solo per mano mafiosa, ma anche con complicità penalmente rilevanti di uomini dello Stato. Poi, se questo fosse preordinato dentro un disegno eversivo stabilizzante - non eversivo destabilizzante - per la tenuta del sistema criminale anche da parte di uomini dello Stato, è un’ipotesi più che plausibile, ed è quella sulla quale abbiamo costruito un’altra indagine denominata ‘Sistemi criminali’. Che però, fino ad oggi, non è purtroppo giunta al soglio probatorio tale da poter avviare un processo. Altrimenti si potrebbe ipotizzare che si tratta anche qui di una intenzionale corresponsabilità nell’uccisione di Borsellino, finalizzata semplicemente ad agevolare e preservare la trattativa, ma purtroppo non abbiamo le prove per dire quale fra le due opzioni sia quella convalidata. Anche se, a voler essere consequenziali, siccome la trattativa come sua finalità comunque aveva il mantenimento dell’assetto, di un patto di convivenza tra Stato e mafia, le due ipotesi non sono incompatibili tra loro”.

Vincitori e vinti
“La stagione della trattativa è quella in cui gli italiani intransigenti hanno perduto - aveva sottolineato amaramente l’ex pm - ed ha vinto l’Italia del compromesso e della trattativa. E’ una delle ragioni per le quali viene rifiutata questa verità, una verità pesante e dura. Ed è per questo che viene rifiutata quella stessa indagine che tenta di fare luce perché è come un pugno nello stomaco degli italiani. Per fortuna, però, insieme a Falcone e Borsellino non è morta quell’altra Italia. Paradossalmente, dal loro sacrificio quello spirito di intransigenza si è tramandato alle generazioni che sono venute dopo, a quelle dei giovani magistrati di quegli anni e a quei giovani (che in quella stagione erano bambini) che hanno individuato in Falcone e Borsellino modelli di riferimento e modelli di cittadini. Per cui oggi quell’Italia dell’intransigenza è ancora vivace e forte, ma non ha voce e potere, anche se è numerosa. La sconfitta dell’Italia dell’intransigenza che si è realizzata vent’anni fa non è stata di Falcone e Borsellino, ma nostra, degli altri che non sono riusciti a fare abbastanza scudo e sostegno nei loro confronti. La sovraesposizione di Falcone e Borsellino è stata anche alla fine isolamento e sconfitta in quel momento. Oggi diventa importante non ripetere lo stesso meccanismo. Non replichiamo lo stesso modello creando nuove sovraesposizioni e nuovi isolamenti, ecco perché bisogna operare non solo dentro la magistratura ma anche fuori, nel Paese e nella società, cercando di mettere insieme e organizzare quell’Italia dell’intransigenza. Quando riusciremo a dare i giusti diritti e il potere - nel senso migliore del termine - a questa Italia dell’intransigenza potremo fare vincere sia pure post-mortem Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Le condanne di ieri rappresentano a tutti gli effetti una prima importantissima vittoria per chi non si è mai arreso e ha continuato a cercare la verità.

Lo Stato “voleva” evitare le stragi del ‘93?
Ma le stragi del ‘93 potevano essere evitate? E soprattutto: lo Stato “voleva” evitare quelle stragi o le riteneva “necessarie”? “Penso che potevano essere evitate - aveva risposto di getto Ingroia - e qualcuno dentro lo Stato le ha consapevolmente provocate, non so se addirittura con lo specifico dolo, cioè con la specifica premeditazione. La questione è se ci fu addirittura premeditazione, o se fu soltanto consapevole determinazione delle stragi”. Al di là delle sterili disquisizioni di Fiandaca, che lasciano il tempo che trovano, urge quindi dare delle risposte esaustive a questi drammatici interrogativi. Che possono essere chiariti solamente attraverso azioni mirate: nuove indagini a tutto campo. Prima che scada il tempo.

Leggi l’intervista integrale - Ingroia: “Lo Stato ha trattato con la mafia per difendere la casta”

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