di Aaron Pettinari e Miriam Cuccu
Il pentito ascoltato al processo contro il superlatitante trapanese
Matteo Messina Denaro? “Aveva la cittadinanza onoraria palermitana”. I documenti di Riina? “Tutto ha lasciato pensare che molte di queste cose sono finite a Messina denaro appositamente”. I rapporti con la massoneria? “Riina contrario ma non ha mai detto no”. Le morti di Falcone e Borsellino? “Ci furono sondaggi. Si vedeva e si constatava con personaggi a noi vicini, non posso ricordare se imprenditori, avvocati. Ma non c’erano persone con cui noi eravamo in contatto che parlassero bene di Falcone e Borsellino. Tutte quelle persone messe sotto i riflettori delle forze dell’ordine automaticamente erano contro Falcone ed era chiaro che lo preferivano più da morto che da vivo”. L’ex boss di Caccamo, Antonino Giuffré, ha risposto così alle domande del procuratore aggiunto Gabriele Paci, al processo che si celebra in Corte d’Assise (presieduta da Roberta Serio) a carico del superlatitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e via d'Amelio, in cui persero la vita i magistrati Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti delle scorte.
Strategia stragista
Durante l'udienza di ieri Giuffrè ha ricordato come la commissione di Cosa nostra arrivò alla decisione di uccidere i giudici Falcone e Borsellino, e di come in quella riunione, datata 1991, si fosse parlato di quei “personaggi politici che si erano fatti carico di responsabilità per aiutare Cosa nostra e poi si erano messi da parte”. Cosa che aveva scatenato il furore di Riina. Certo è che, ha precisato il collaboratore, già negli anni ’86-‘87 “si parlava, in Cosa nostra, di Falcone e Borsellino come acerrimi nemici” e “anche i trapanesi erano d’accordo” di eliminarli. Proprio in quel periodo, ha riflettuto Giuffrè, “era iniziata la campagna diffamatoria contro Falcone e Borsellino, le famose tragedie siciliane” a causa delle inchieste che avevano portato a toccare fili ad alta tensione. Soprattutto, ha precisato il pentito, in merito agli appalti. È qui, ha aggiunto il teste, che “si legge la connessione tra imprenditoria, politica e mafia”.
Altro tema cardine che scosse le fondamenta della cupola di Cosa nostra furono gli ergastoli emessi con il maxiprocesso nonostante le rosee previsioni di Riina, il quale aveva assicurato alle fila di Cosa nostra “che sarebbe andato tutto bene”. Traduzione: sei o sette anni di carcere per associazione mafiosa e poi tutti a casa. Invece, ha proseguito il pentito, in quell’occasione “Riina ne esce con le ossa rotte. Era una vita che faceva guerre – ha considerato – basava il suo potere esclusivamente sulla violenza. Se si fosse fermato sarebbe stata la sua fine” perchè “era entrato in un gioco in cui doveva andare avanti con la violenza, che è sfociata nelle stragi”.
La riunione di Natale
Così ha ricordato la famosa “riunione di Natale” dove il Capo dei Capi disse di fronte alla Commissione provinciale di “chiudere il conto con la magistratura ed in particolare i politici si erano dimostrati inaffidabili”. “Regnava il silenzio più assoluto - ha ricordato il pentito - Io avevo alzato il dito e accanto a me Raffaele Ganci mi fece colpo con il ginocchio. E non chiesi alcuna delucidazione. C’era un silenzio-assenso assoluto”.
Provenzano trasformato
Giuffré ha anche ricordato gli scambi avuti con Bernardo Provenzano dopo l’arresto di Riina: “Lo trovai trasformato, parlava come se con le stragi non ci abitava, e si metteva nelle vesti di educante.. e predicatore dicendo che era stato tutto sbagliato. Si stava facendo la sua verginità cambiando tutto con il famoso discorso della sommissione. Nel mentre hanno arrestato a tutti e noi ce ne stavamo in santa pace”.
E’ sempre con Provenzano che Giuffré ha parlato della mancata perquisizione del covo di Riina: “Provenzano mi ha detto che è stato pulito il locale. Ogni latitante e persona di un certo livello ha biglietti documentazioni, pizzini ed un certo archivio e mi ha fatto capire che un ruolo in tutto questo lo avesse avuto anche il Matteo Messina Denaro e da questo è nato il discorso che molta documentazione fosse finita nelle sue mani”.
I rapporti Mafia-massoneria
Sempre rispondendo alle domande del pm Giuffré ha anche parlato di Vito Ciancimino, delle voci di “sbirritudine” di Provenzano e dei rapporti tra i boss mafiosi e la massoneria. Rapporti che riguardavano in particolare soggetti come Stefano Bontade, Mariano Agate e Francesco Messina Denaro. Anche Riina aveva una sua idea: “Lui diceva di essere contrario ai discorsi con la massoneria però se qualcuno aveva dei contatti diceva sempre di ‘prendere senza dare’. Si rendeva conto che era una situazione necessaria per avere appoggi e notizie. Non ha mai detto no. Ma i nostri segreti dovevano restare tali”. Una lunga pausa ha accompagnato il collaboratore di giustizia quando gli è stato chiesto dei contatti tra i mafiosi e soggetti esterni a Cosa nostra prima delle stragi. Per poi rispondere con un secco "No", ma ha confermato di aver sentito parlare di “contatti tra mafiosi e servizi di sicurezza deviati”. L’esame del teste è stato poi rinviato al prossimo 11 maggio.
ARTICOLI CORRELATI
Stragi, Brusca: ''Falcone, Borsellino, Bellini. Messina Denaro sapeva''
Stragi 92, a giudizio Messina Denaro