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“‘A morte ‘o ssaje ched’‘e? … è una livella. ‘Nu rre, ‘nu maggistrato, ‘nu grand’ommo, trasenno stu canciello ha fatt’o punto c’ha perzo tutto, ‘a vita e pure ‘o nomme: tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto?”. Diceva bene, Antonio De Curtis, in arte Totò, con la sua straordinaria poesia “‘A livella”. E proprio quello strumento utilizzato nel campo dell’edilizia per “livellare” una superficie veniva preso come metafora della morte capace di azzerare ogni tipo di disparità esistente tra i vivi. Totò Riina, “il boia” di uno Stato che non si è limitato a guardare, è morto stanotte. ‘A livella è arrivata anche per lui che da carnefice si ritrova ad essere giudicato di fronte alle vittime della sua furia omicida. Quelle vittime che su questa terra non trovano pace per l’assenza di verità e giustizia in un Paese che ha fretta di dimenticare. Chi non dimentica, però, sono quegli stessi familiari che continuano a vedere davanti ai loro occhi i corpi martoriati dei propri congiunti, caduti in una guerra dove la linea di confine nemica è contrassegnata da continue aperture. “Dove sta la logica secondo cui avete dovuto firmare delle carte di Stato per autorizzare i familiari di Riina ad assistere alla morte del loro congiunto il capo di Cosa Nostra, una organizzazione criminale a struttura piramidale, che in Italia ha provocato più lutti, miseria e disperazione di quanta ne hanno prodotta i nazisti nei campi di concentramento? Perché avete messo noi, le vittime di Riina, a dover affrontare il torto della Vostra umana pietà intrisa di ipocrisia e vigliaccheria?”. Le parole di Giovanna Maggiani Chelli, trascritte ieri sera in un comunicato inviato prima della notizia della morte di Riina, si scontrano contro quel muro di gomma istituzionale intriso di cinismo e ipocrisia. La presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili ha pagato sulla sua pelle un prezzo altissimo per quell’accordo “indicibile” tra Stato e mafia. Sua figlia Francesca è l’unica sopravvissuta del crollo della Torre dei Pulci, ma le ferite che l’hanno condannata ad una vita di inferno non si sono mai rimarginate. E a ricordare come stanno le cose a quello Stato che – a corrente alternata – recita la parte del misericordioso, ci pensa Luciano Traina, fratello dell’agente di scorta di Paolo Borsellino, Claudio Traina che sulla sua pagina facebook risponde alla “clemenza” del ministro della giustizia Andrea Orlando nei confronti della famiglia Riina. Il ricordo di quest’uomo, che assieme a sua sorella Giusi continuano a pretendere la verità sui mandanti esterni della strage di via D’Amelio, si materializza nell’immagine di 25 anni fa del prete del suo quartiere mentre cercava di consolare sua madre citando l’esempio del dolore della Madonna davanti alla croce. Non era trascorso molto tempo dall’eccidio del 19 luglio ‘92 e la signora Grazia non riusciva a darsi pace. Di fronte all’osservazione del prete la madre di Claudio Traina si era alzata in piedi e con molta amarezza e altrettanta pacatezza aveva replicato che alla Madonna era stata data la possibilità di stringere suo figlio al suo petto per dargli l’ultima carezza, mentre a lei non era stato possibile. E questo perché la violenza dell’esplosione dell’autobomba aveva fatto scempio dei corpi di tutte le vittime di quella strage decisa e voluta da Totò Riina a soli 57 giorni da quella di Capaci. “State tranquilli, mi hanno garantito che è un bene per tutta Cosa Nostra”, aveva sentenziato Riina ai suoi sodali presenti a quella riunione della Cupola nella quale il capo di Cosa Nostra li aveva messi al corrente che bisognava accelerare i tempi per la realizzazione di quell’eccidio. Era stato il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi a raccontare anni dopo agli investigatori che, di fronte ai timori di tutti i boss di una reazione forte dello Stato per quella nuova strage, Riina aveva rassicurato i presenti con quelle parole. Ma chi erano quelle “entità” esterne che avevano il potere di “rassicurare” il capo di Cosa Nostra? “La tempistica della strage - aveva scritto qualche anno fa il giudice nisseno Alessandra Bonaventura Giunta - è stata certamente influenzata dall'esistenza e dall'evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle Istituzioni e Cosa nostra”. Dello stesso avviso i giudici fiorentini che nelle motivazioni della sentenza di condanna nei confronti del boss Francesco Tagliavia avevano evidenziato un dato oggettivo: lo Stato ha avviato una trattativa con Cosa Nostra. Una trattativa che “indubbiamente ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des”. E proprio quella trattativa, iniziata dopo l’eccidio di Capaci, si sarebbe interrotta con la strage di via D'Amelio “forse per una sorta di ritirata di chi la conduceva (certamente il colonnello Mori, forse i livelli superiori degli apparati istituzionali) di fronte al persistere del programma stragista, laddove la trattativa avrebbe richiesto quantomeno un armistizio. Proprio per queste ragioni, l'uccisione di Borsellino resta nelle motivazioni e nella tempistica una variante anomala”. Decisamente molto “anomala”, tanto che lo stesso Salvatore Cancemi, rispondendo ad alcune domande durante una nostra intervista aveva così commentato: “Riina è stato ‘preso per la manina’ in questa strategia perché, va bene che era pazzo, ma non così tanto. Se voleva mandare un messaggio bastava che mettesse una bomba al mercato della Vucciria o al Capo a Palermo e faceva centinaia di morti. Invece con quegli obbiettivi così precisi gli interessava colpire determinate persone”. “Per me è stato guidato dall'esterno - aveva sottolineato l’ex boss deceduto nel 2011 - a lui interessava condurre i suoi affari tranquillamente e per farlo aveva bisogno di convivere pacificamente con lo Stato; avrà dato qualcosa in cambio...”. Fine della storia.
“Possono tirare un sospiro di sollievo i tanti potenti che in tutti questi anni hanno sempre temuto potessero venir fuori le verità indicibili su trattativa e stragismo del 1992-93: prima Provenzano e ora Riina sono morti senza parlare, portandosi nella tomba i terribili segreti di cui erano a conoscenza”. Le parole dell’ex pm Antonio Ingroia riempiono il vuoto dei silenzi di Stato. “La morte di Riina - evidenzia il legale che assieme a Fabio Repici difende la famiglia di Attilio Manca - copre con una coltre di silenzio omertoso le malefatte di un’intera classe dirigente collusa con la mafia. Per non essere complice di quel silenzio il popolo può e deve ribellarsi contro quella classe politica impunita, responsabile di una delle stagioni più buie della nostra storia”. Che potrebbe anche ripetersi se a prevalere sarà un’indifferenza complice, in totale spregio del dolore dei tanti familiari delle vittime di questa guerra non ancora finita.

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