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chinnici rocco eff c ansadi Francesca Mondin
“C'è la mafia che spara; la mafia che traffica in droga e ricicla soldi sporchi; e c'è l'alta finanza legata al potere politico (…) Stiamo lavorando per arrivare ai centri di potere più elevati”.
Aveva le idee chiare il magistrato Rocco Chinnici sull'articolazione della mafia. Quando ancora erano in pochi i coraggiosi che nominavano la mafia pubblicamente, lui, il capo di Falcone e Borsellino, già negli anni '80 cercava i colletti bianchi del terzo livello. Non guardava in faccia nessuno e denunciava senza giri di parole l'infiltrazione mafiosa nelle Istituzioni e nell'imprenditoria.
Per questo li avrebbe sicuramente scovati e colpiti quei centri di potere occulti, se questi stessi signori in doppio petto non avessero deciso che era meglio eliminare un nemico così audace con un unico colpo sicuro: una autobomba piena di tritolo.
Chi il 29 luglio di trentaquattro anni fa giunse in via Federico Pipitone descrisse quel luogo come Beirut, ambulanze spiegate, feriti, un caos di vetri, calcinacci polvere e fumo. E poi quell'enorme cratere nero profondo un metro dove qualche istante prima c'era Chinnici che si accingeva a salire nell'auto per un altro giorno di lavoro. Invece no, il giudice non aveva fatto a tempo a salire nell'alfetta blindata che la 500 parcheggiata difronte a lui esplose spazzando via il magistrato, i due carabinieri che lo scortavano Mario Trapassi ed Edoardo Bartolotta, assieme al portiere del palazzo Stefano Lisacchi. Il messaggio era chiaro: chi si metteva in testa di sconfiggere la mafia e il sistema di poteri su cui poggiava sarebbe stato fermato anche a suon di bombe e palazzi sventrati.

Chi c'è dietro i delitti eccellenti?
La mattanza dei giusti era già iniziata, prima di Chinnici, Palermo aveva visto cadere, uno ad uno, sotto i colpi dei corleonesi, chi intralciava con indagini, processi e leggi, gli affari di Cosa nostra e amici che da sempre avevano retto su un sistema di taciti accordi. Di alcuni di questi delitti eccellenti, come ad esempio quello di Pio La Torre, Piersanti Mattarella e Carlo Alberto dalla Chiesa, Chinnici aveva seguito le indagini e aveva maturato l'idea che dietro i principali omicidi eccellenti ci fosse un unica regia. “Una mia eventuale condanna morte - confidò agli amici prima di morire - scaturirà dallo stesso cervello criminale che ha già deciso di omicidi Terranova, Mattarella, Costa, La Torre”. Chinnici aveva capito, prima di molti altri, l'importanza di cercare le interconnessioni tra i grandi delitti compiuti dalla mafia per studiare unitariamente l’intero fenomeno mafioso. Ecco perché per molti aspetti può essere considerato il precursore del pool antimafia e del modus operandi utilizzato da Falcone e Borsellino. Oltre a creare l’embrione del primo maxi processo con il procedimento allora detto “dei 162” cercò di potenziare e rendere efficaci gli strumenti per la lotta alla mafia gettando le basi per il futuro pool antimafia guidato da Antonio Caponnetto". “Ne tentò i primi difficili esperimenti, - raccontò Paolo Borsellino in un suo scritto - sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione di informazioni fra i 'suoi' giudici”.
Nel mirino investigativo del giudice finirono anche i cugini Salvo, Nino e Ignazio, potenti esponenti della corrente andreottiana della Dc, nonché “uomini d'onore” all’epoca veri e propri padroni della Sicilia imprenditoriale. E probabilmente Chinnici aveva colpito nel segno perché, i cugini Salvo successivamente furono portati a processo dal pm Nino Di Matteo che ottene la loro condanna come mandanti esteri. “Questa volta, - scrive Di Matteo nel libro Collusi - Cosa Nostra aveva agito su input di altri. A dare il via era stato un vero e proprio potentato economico-politico, costituito da soggetti la cui autorevolezza criminale derivava dall’inserimento in un circuito esterno all’organizzazione mafiosa.” I cugini Salvo, scrive ancora Di Matteo, “avevano potuto chiedere e ottenere un omicidio eccellente di quel tipo proprio perché rappresentavano lo snodo più importante di contatto e penetrazione del potere politico nazionale”.

Il palazzo dei veleni
Chinnici cercava indizi per scoperchiare quelle infiltrazioni mafiose all'interno delle Istituzioni ben consapevole che forse qualche amico infiltrato c'era anche all'interno del palazzo di giustizia. Per tenere lontane quelle orecchie indiscrete quando discuteva delle inchieste scottanti, infatti, si chiudeva in ascensore con il procuratore Gaetano Costa e su e giù per i piani del Tribunale. Nel diario in qui annotava riflessioni, fatti e intuizioni, scrisse più volte episodi inquietanti che avvennero all'interno del palazzo di giustizia di Palermo. In quelle pagine, pubblicate da “L'Espresso” poco dopo la strage di via Pipitone, traspariva il pesante clima che respirò il magistrato in quello che dalla stampa venne definito il palazzo dei veleni. Chinnici scrisse delle pressioni ricevute per abbandonare le ricerche sulle banche che stava portando avanti Falcone, degli avvertimenti in chiave mafiosa di lasciar perdere, di non parlare e non “esporsi” troppo in pubblico in dibattiti e incontri sulla mafia. Insomma Chinnici e il suo gruppo di magistrati testardi non piacevano né ai mafiosi né a chi avrebbe dovuto sostenere la lotta contro la mafia e, invece, preferiva che tutto restasse com'era.

Il mistero sul fascicolo scomparso
Dopo numerosi processi e iter giudiziari complessi il 24 giugno 2002 la Corte d’appello di Caltanissetta ha confermato 16 condanne (12 ergastoli e quattro condanne a 18 anni di reclusione) per alcuni importanti boss di Cosa nostra e ha riconosciuto gli “esattori” Nino e Ignazio Salvo (entrambi deceduti, il primo per malattia, il secondo ucciso nel 1992) come mandanti dell'omicidio. Ma come da copione sono rimasti alcuni interrogativi: non si è mai chiarito se ci furono depistaggi e “aggiustamenti” nel terzo processo. Il mistero ruota attorno ad un fascicolo scomparso dove il presidente della corte d’Assise del terzo processo d'appello per l'omicidio Chinnici, Giuseppe Recupero, veniva accusato di concorso esterno in mafia e corruzione. Secondo alcuni pentiti infatti la mafia avrebbe corrotto Recupero con 200 milioni per fare degli ‘aggiustamenti’ così da arrivare all’assoluzione dei mandanti Michele e Salvatore Greco, e di Pietro Scarpisi e Vincenzo Morabito come esecutori. Questo fascicolo venne trasmesso nuovamente a Palermo nell’estate del ’98 dal gup di Reggio Calabria, dichiaratosi “incompetente’’ a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio, ma il casò finì in qualche cassetto. Finchè il procuratore Vittorio Teresi non scoprì che il fascicolo non era mai stato iscritto a ruolo e nell'aprile 2013 aprì ufficialmente una nuova indagine che archiviò l'anno successivo perché mentre il fascicolo cadeva nel dimenticatoio Recupero era passato a miglior vita.

Sono passati 34 anni da quel 29 luglio che colpì al cuore del cambiamento, ancora una volta, il Paese. Possiamo chiederci a che punto saremo oggi se quel pulsante non fosse stato premuto, forse non si sarebbe nemmeno aperto il periodo delle stragi terroristiche mafiose, forse respireremmo quel fresco profumo di libertà invece di essere ancora orfani di verità. Di certo oggi non possiamo permettere che succeda di nuovo, che il copione si ripeta e raccogliere questo impegno che spetta ad ogni cittadino. Perché Chinnici, come raccontava Borsellino, era il primo ad evidenziare la necessità di una cultura antimafiosa che partisse dai giovani.

Foto © Ansa

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