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graviano berlusconidi Lorenzo Baldo
Un filo rosso unisce le indagini di ieri sui “Sistemi criminali” a quelle di oggi sulla trattativa

Un tuffo nel passato. Probabilmente è quello che serve per scrollarsi di dosso gli inutili schiamazzi di tutti coloro che gridano allo scandalo per le dichiarazioni del boss Giuseppe Graviano su Silvio Berlusconi. Decisamente illuminanti si rivelano alcune vecchie carte confluite nella richiesta di archiviazione del 2001 dell’inchiesta denominata “Sistemi Criminali”. Tra gli indagati spiccavano i nomi di: Licio Gelli, Rosario Pio Cattafi, Stefano Delle Chiaie, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, Totò Riina, Nitto Santapaola, Paolo Romeo, Pino Mandalari ed altri. Quel termine era stato coniato dai magistrati della Procura di Palermo (in particolare da Roberto Scarpinato, Antonio Ingroia, Nico Gozzo e Guido Lo Forte) e indicava una sorta di network che condivideva gli stessi obiettivi criminali di arricchimento mediante la violenza, ma soprattutto di eversione e gestione del potere. Gli inquirenti erano concordi nel ritenere che la realizzazione delle stragi del ‘92 e del ‘93  era stata “delegata a Cosa Nostra dal vertice di quello che è stato definito il ‘Sistema Criminale Nazionale’, un sistema composito del quale fanno parte, in una comune convergenza di interessi, la massoneria, i servizi deviati e Cosa Nostra, quest’ultima in posizione egemonica sulle altre organizzazioni mafiose (‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita), pure integrate nel sistema”. I magistrati evidenziavano inoltre che le stragi avevano costituito “momenti di attuazione di un complesso piano eversivo, elaborato nel 1991, diretto a conquistare lo Stato mediante la destabilizzazione del preesistente quadro politico”.

Un piano eversivo
Una dopo l’altra venivano chiamate in causa quelle “intelligenze politiche che elaborarono il piano eversivo” così come “tutti coloro che svolsero un’attività di copertura e di fiancheggiamento operativo-strategico nei confronti di Cosa Nostra” evidenziando un dato inquietante: “sono ancora in libertà e immuni da qualsiasi conseguenza penale per i loro comportamenti criminali”. “Molti di essi vengono da lontano – si legge ancora – da quella terribile stagione di tentativi di golpe e di stragismo, che, iniziata negli anni ‘70, ha segnato indelebilmente la nostra vita collettiva. Essi non solo non sono stati archiviati dalla storia, ma ambiscono a proiettarsi nel futuro, cavalcando, da coprotagonisti occulti, l’attuale delicatissima fase di transizione politica”. Stiamo parlando di carte di vent’anni fa, il cui eco risuona fino ai giorni nostri. “Il loro obiettivo, oggi come ieri, è di piegare la democrazia al soddisfacimento degli enormi interessi economici del Sistema Criminale – spiegavano gli inquirenti – e di garantirsi l’impunità assoluta per il passato e per il futuro. La posta in gioco è dunque altissima. La magistratura ha il compito istituzionale di individuare i responsabili dei crimini del passato, in questo caso i responsabili ‘a volto coperto’ delle stragi, e non può farsi carico di liberare la politica del presente e quella del futuro dai pesanti condizionamenti di forze criminali, condizionamenti che vengono esplicati anche in forme che si sottraggono al controllo penale”.

Il passato che ritorna
Secondo i magistrati all’orizzonte si paventava un rischio altissimo e cioè che il presente e il futuro rischiassero “di divenire una tragica riedizione di un passato fatto di sangue e di svuotamento della democrazia”. L’auspicio riguardava la magistratura italiana che aveva il dovere di mostrarsi all’altezza del difficile compito: “affondare il bisturi nel recente passato criminale, individuando i mandanti ultimi delle stragi e liberando, con ciò stesso, il futuro democratico del nostro paese dalle tare di questo passato”. Veniva quindi evidenziata la preziosa collaborazione delle forze di Polizia negli anni “difficili e travagliati” per fronteggiare “l’attività eversiva posta in essere dal Sistema Criminale”. L’intento di quelle indagini veniva sintetizzato in maniera esaustiva: “contribuire ad individuare una chiave di lettura unitaria di eventi criminosi (omicidi e stragi) e di avvenimenti (es. la nascita e la formazione di movimenti indipendentisti meridionali, il c.d. scandalo dei fondi neri del SISDE, etc.) verificatisi dal 1991, ricomponendo in un quadro d’insieme organico e coerente fatti apparentemente slegati tra loro, ma in verità costituenti espressione ed aspetti di un’unica realtà criminale”. I magistrati si prefiggevano un metodo “ermeneutico” che consisteva, da una parte, nell’analisi di determinate “risultanze processuali decontestualizzate”, e, dall’altra “nella ricostruzione globale dei contesti storico-politici nei quali quelle risultanze si inscrivono e da cui ricevono nuove possibilità di decodificazione probatoria, si ritiene possibile pervenire alla razionale e programmata enucleazione di filoni di indagini da sviluppare rapidamente e alla celere identificazione delle ‘menti’ e dei responsabili ultimi delle stragi”. Quelle stesse “menti” rimaste nell’ombra su cui il pool di Palermo cerca insistentemente di fare luce.

Forza Italia e il 41bis
“Dalle indagini svolte dalle Procure di Catanzaro e di Reggio Calabria – si legge ancora nel documento che ha portato alla richiesta di archiviazione – emerge un impressionante spaccato dei rapporti che si vengono a stabilire tra la criminalità mafiosa ed alcuni esponenti del Polo delle Libertà e del governo Berlusconi, rapporti il cui segno unificante è la gestione contrattata delle leggi in materia di criminalità organizzata. Dai documenti trasmessi dalla Procura di Reggio Calabria si desumono altri significativi elementi di valutazione sugli atteggiamenti assunti da esponenti di Forza Italia on. Amedeo Matacena (attualmente latitante a Dubai, ndr) e on. Tiziana Maiolo in occasione della discussione parlamentare sulla proroga del 41 bis”. Lo stralcio dell’intervento di Matacena, tratto dal documento originario della Camera dei Deputati (XII Legislatura – Seduta del 9 febbraio 1995), si commenta da solo. “Signor Presidente, intervengo molto rapidamente per dichiarare che voterò anch’io contro la proroga fino al dicembre 1999 delle disposizioni di cui all’articolo 41-bis della legge n. 354 del 1975”. (…) “Ho presentato documenti dai quali risulta che attraverso la possibilità di applicazione dell’articolo 41-bis viene estorta ai detenuti la dichiarazione di pentimento”. (...) “Continuiamo ad assistere a strumentalizzazioni politiche realizzate attraverso l’uso dei verbali firmati in bianco dai pentiti, i quali poi alla fine vengono strapagati per tale servizio”. Di seguito i magistrati riportano il testo di alcune interrogazioni parlamentari “tutte chiaramente finalizzate, per la violenza dei toni e la strumentalità delle accuse, a delegittimare l’operato della magistratura calabrese e i collaboratori di giustizia”. Il riferimento successivo reca la data dell’11 ottobre ‘94, a parlare è sempre Amedeo Matacena che denuncia “un uso arrogante ed illegittimo della funzione giurisdizionale” per poi sottolineare come a suo dire sia “diffuso il sospetto che, in alcuni casi, più che alla ricerca della verità per garantire la giustizia si tende al ‘killeraggio politico’”. L’analisi degli inquirenti prosegue evidenziando “rapporti analoghi” a quelli stabiliti in Calabria con la ’Ndrangheta (e raccontati dai pentiti già appartenenti a quell’organizzazione), “vengono a stabilirsi in Sicilia tra esponenti di Forza Italia e Cosa Nostra”.

Abolire il 416 bis
“Nel corso del 1994 si scatena poi una violenta campagna di delegittimazione dei collaboratori di giustizia, della quale sono protagonisti esponenti di Forza Italia”, ribadiscono gli inquirenti. Che evidenziano ulteriormente il tentativo di estromettere i magistrati Vigna e Grasso dalla Commissione centrale che si occupa dei pentiti, così come di introdurre “attraverso procedure non trasparenti, un regolamento di attuazione che potenzia il controllo dell’esecutivo sulla gestione processuale dei collaboratori”. Viene quindi ricordata la campagna violentissima contro il pentitismo “mentre la cronaca registra la continua mattanza di parenti di collaboratori di giustizia”. L’attenzione si sposta quindi sulla proposta dell’on. Maiolo, in qualità di Presidente della Commissione Giustizia, di abolizione dell’art. 416 bis “una norma, afferma, che opera una criminalizzazione di massa delle popolazioni meridionali”. I magistrati ricordano che questa proposta “equivale in sostanza a porre le premesse per la revisione di tutti i processi conclusi con condanne per 416 bis C.P. L’abolitio criminis determinerebbe infatti la vanificazione delle condanne inflitte. Inoltre l’espunzione del 416 bis da Codice Penale avrebbe una serie di enormi ricadute su tutte le norme sostanziali e processuali collegate a quella norma”. “Al di là della fattibilità politica del progetto – sottolineano gli inquirenti –, che viene incontro ad una radicata aspirazione di Cosa Nostra, quel che conta sembra essere lanciare continui segnali di disponibilità e di presenza fattiva sul fronte della tutela degli interessi del Sistema Criminale”. Parole inequivocabili.

Storie di ieri e di oggi
“Il linguaggio politico – si ricorda – assume connotazioni di estrema durezza, superando in violenza espressiva anche quello della stagione della metà degli anni ‘80 (la stagione dei c.d. professionisti dell’antimafia e dell’attacco al pool antimafia)”. Viene ulteriormente evidenziato come i magistrati impegnati sul fronte dell’antimafia vengono ripetutamente definiti in trasmissioni televisive e in organi di stampa controllati dallo stesso Berlusconi, come “assassini, politicizzati e asserviti ai comunisti. Si auspica il loro arresto”. “In occasione di attentati mafiosi fortunatamente sventati – scrivono gli inquirenti – si solleva il dubbio che si tratti di falsi attentati (forse è utile ricordare che pure nel 1989, in occasione dell’attentato all’Addaura, era stata fatta circolare la voce che si trattava di un falso attentato organizzato dallo stesso Falcone)”. “Le cadenze e gli argomenti del linguaggio politico – si legge infine – vengono ripresi da Salvatore Riina, il quale in pubbliche udienze attacca i collaboratori di giustizia ed indica nei comunisti e in Caselli (Giancarlo, ndr) la fonte dei suoi problemi”. Storie di ieri. Che immancabilmente sembrano ripetersi in quelle di oggi.

Dossier Processo trattativa Stato-Mafia

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