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riina 41bis statoCoincidenze dopo il “ripensamento” del “Capo dei capi” al processo trattativa
di Aaron Pettinari
La decisione della prima sezione penale della Cassazione, che ha accolto il ricorso del difensore del boss Totò Riina (detenuto al 41 bis dal 1993) in cui richiede il differimento della pena o, in subordine, la detenzione domiciliare, ha giustamente scatenato una lunga serie di reazioni di protesta rispetto ad una possibile scarcerazione che, qualora avvenisse, sarebbe l’ennesimo schiaffo a tutti i familiari delle vittime della mafia. Il fatto che ciò potrebbe avvenire a 25 anni di distanza dalle stragi in cui morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino lo renderebbe ancora più vergognoso. Totò Riina, “u’ Curtu”, “la belva”, con il suo agire ha perso da tempo la propria dignità. Non ha mai ceduto alla propria condizione di “Capo dei capi” e dal carcere ha sentenziato più di una condanna a morte, anche di recente. Come dimenticare le parole dette nel carcere Opera, durante l’ora d’aria accanto alla dama di Compagnia, Alberto Lorusso: “Questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta e allora, se fosse possibile, ad ucciderlo... Una esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo con i militari… Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono…”. Conversazioni avvenute nel 2013.
Mentre il capomafia corleonese parlava delle stragi commesse e di attentati da compiere una lettera era stata a lui indirizzata dalla Falange Armata, sigla del terrore ricomparsa a vent’anni di distanza dalla sua ultima apparizione: “Chiudi quella maledetta bocca ricorda che i tuoi familiari sono liberi. Per il resto ci pensiamo noi”. Riina non ha mai ricevuto quella missiva. Tuttavia il Capo dei capi, nel frattempo trasferito nel carcere di Parma, è tornato a trincerarsi nel suo silenzio. Salvo qualche rarissima eccezione.
Così è stato quattro anni dopo quando il boss corleonese ha “sfogliato la margherita” scandendo il ritmo del “Parlo? Non parlo?”. Un “valzer” che si è consumato nel giro di una settimana e che ha avuto inizio durante l’udienza del processo trattativa Stato-mafia del 27 gennaio 2017. Totò Riina, sdraiato sulla lettiga, si era fatto trasportare fino al telefono per interloquire con il proprio legale, Giovanni Anania, presente in aula. Il motivo era semplice. Voleva dare il suo assenso alla richiesta dei pm di sottoporlo ad esame. Una vera e propria novità che aveva fatto sobbalzare sulla sedia mezza Italia. La decisione sembrava presa e per una settimana intera tutti i quotidiani hanno fatto rimbalzare la notizia. Fatto lo “scruscio” Totò è poi tornato sui suoi passi durante l’udienza dell’8 febbraio. “Sto male, ho avuto la febbre”, ha detto in videocollegamento per motivare il dietrofront. Ancora una volta, il silenzio. Riina non parla e l’11 maggio, un suo malore fa saltare l’udienza del processo che si celebra davanti alla Corte d’Assise. Un susseguirsi di date che porta fino ad oggi. La sentenza numero 27.766 della Cassazione, relativa all’udienza del 22 marzo scorso, risponde ad una richiesta precedente all’ultimo malore ed apre ad una scarcerazione che avrebbe il sapore di una beffa. Forse non sapremo mai cosa Riina avrebbe risposto ai magistrati che lo avrebbero voluto interrogare. Certo è che questa “apertura” della Cassazione, che ora lascia la “patata bollente” al Tribunale di Sorveglianza di Bologna, rappresenta un bruttissimo segnale ma anche una singolare coincidenza nella tempistica. Chissà che Riina stia ancora pensando: “Parlo? Non Parlo? Magari esco…”.

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