di Lorenzo Baldo
I buchi neri attorno all’unica imputata. Il padre: “Una sentenza che mi toglie la dignità”
“Si rende conto di essere una sorta di ‘capro espiatorio’ dietro il quale si nascondono altre persone?”. “Si, lo so…”. “E allora è il momento di parlare, lo faccia per un padre e una madre che rischiano di morire prima ancora di avere un brandello di verità”. “Adesso basta, non servirebbe a niente, mi lasci vivere...”. Era il 4 aprile dello scorso anno quando Monica Mileti rispondeva così al telefono. A distanza di un anno la sentenza di condanna a 5 anni e 4 mesi emessa dal Gup di Viterbo, Silvia Mattei, non scalfisce minimamente il muro di silenzio di questa cinquantenne romana. La consistenza di quel muro, però, è stata inevitabilmente corroborata da un’inerzia investigativa che non ha eguali. Dal canto suo la difesa della Mileti parla di “processo indiziario”. Certo è che nessun giudice di Viterbo ha mai interrogato in maniera approfondita questa donna. Nessuno le ha chiesto dei suoi legami con l’architetto Guido Ginebri che a sua volta le aveva presentato Attilio Manca. Né tanto meno qualche pm di Viterbo le ha mai chiesto che rapporto avesse avuto con Salvatore Fugazzotto che proprio a Gino e ad Angelina Manca aveva confidato di conoscere bene questa donna. Nessun magistrato di Viterbo le ha mai posto domande sulla sua conoscenza di Ugo Manca, oppure di Gennaro Scetta, amico di vecchia data del giovane urologo barcellonese (con il quale aveva convissuto a Roma diversi anni), morto nel 1998 in circostanze misteriose. Nessun giudice ha mai chiesto a questa donna le ragioni per cui si incontrava con Attilio quelle poche volte all’anno. Che rapporto c’era con lui? Perché l’aveva incontrato a Roma il 10 febbraio 2004, due giorni prima di essere ritrovato morto, dopo più di 24 ore nelle quali non si era saputo nulla di lui? E cosa c’entra Salvatore Fugazzotto in quell’incontro? Domande che non sono mai state poste a Monica Mileti dalla magistratura viterbese. Nessuno le ha mai chiesto se avesse mai pensato di essere stata usata da qualcuno per coprire l’omicidio di Attilio Manca. Ha mai parlato a sua figlia di Attilio Manca? E soprattutto, ha mai pensato che quello che è successo ad Attilio potrebbe succedere a chiunque, anche a sua figlia? E se queste ultime tre domande – come direbbero in un’aula di giustizia – sono “suggestive”, tutte le altre sono invece a dir poco necessarie per un qualsiasi magistrato che avesse voluto (o che voglia) arrivare alla verità sulla morte di Attilio Manca. Evidentemente non sono domande così fondamentali per alcuni magistrati.
L’esclusione della Mileti
Di fronte a tutti questi interrogativi inesplorati non resta che ripartire da lontano per capire questo possibile “ruolo” di Monica Mileti - volutamente ignorato - nel caso Manca. Nel dispositivo di archiviazione del Gip Salvatore Fanti emerge la “scientifica” esclusione di ogni fattore “esterno” nella responsabilità di questa donna. La parola fine in merito alle posizioni di Ugo Manca, Lorenzo Mondello, Andrea Pirri, Angelo Porcino e Salvatore Fugazzotto, inizialmente indagati assieme alla Mileti per la morte di Attilio Manca, viene quindi messa il 26 luglio 2013. Quel giorno il Gip scrive che “della mera circostanza che Mileti Monica sia stata presentata ad Attilio Manca dal Ginebri (Guido, ndr), amico di Ugo Manca, non può certo inferirsi che l’incontro tra i due del 10.2.2004 sia stato preordinato dall’ambiente ‘barcellonese’ allo scopo di eliminare Attilio Manca. Trattasi di illazione non confermata da alcun atto di indagine”. Per quanto riguarda poi la lettera anonima giunta alla redazione di “Chi l’ha visto?” relativa alla strana morte di Gennaro Scetta il giudice parla di “estrema vaghezza del contenuto” che “è tale da non meritare alcun approfondimento investigativo”. Le stesse considerazioni valgono per la richiesta di acquisizione dei tabulati telefonici tra gli “indagati messinesi” (tra cui Ugo Manca e alcuni suoi amici, ndr) e Attilio Manca; per il dott. Fanti è “irrilevante sotto il profilo probatorio, per l’impossibilità di evidenziare il contenuto delle conversazioni da cui desumere elementi utili a ricostruire una causa (diversa da quella ipotizzata dal Pm) della morte di Attilio Manca”. Giù il sipario.
Un esposto a Roma
Sono passati solamente due anni, ma è come se fosse passato un secolo. Era l’8 aprile 2015. Angelina Manca assieme al figlio Gianluca si erano presentati dal Procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone assieme al loro storico difensore Fabio Repici e all’ex pm di Palermo, ora avvocato, Antonio Ingroia. Il motivo era quello di presentare un esposto: una denuncia per omicidio - contro ignoti - contrassegnato dalla presenza della mafia. Lo scopo? Far aprire alla Dda capitolina un fascicolo di indagine sulla morte violenta di Attilio Manca. Obiettivo raggiunto. A tutt’oggi, presso la Dda di Roma, è pendente un fascicolo per omicidio - contro ignoti - nelle mani del procuratore aggiunto Michele Prestipino. Spunti di riflessione interessanti si possono ritrovare proprio in quell’esposto di due anni fa. Secondo la ricostruzione dei due legali la Procura di Viterbo “con il cadavere di Attilio Manca appena rinvenuto, ha di fatto mirato a indagare e processare la stessa vittima, al fine di conclamarne la sua pretesa condizione di persona adusa all’assunzione di eroina (seppure tale circostanza è stata smentita dai colleghi e dagli amici di Attilio Manca, ai quali certamente non sarebbe potuta sfuggire, frequentandolo quotidianamente in reparto e perfino in sala operatoria). E infatti le sue attività si sono limitate ad accertare i contatti avuti da Attilio Manca nel pomeriggio del 10 febbraio 2004 telefonicamente e di persona a Roma con tale Monica Mileti, persona non estranea al mondo della droga, al fine di evocare la possibilità che fosse stata per l’appunto Monica Mileti a fornire ad Attilio Manca le dosi letali di eroina”. “Nel far questo, però – sottolineano Repici e Ingroia – la Procura di Viterbo, da un lato, ha omesso di eseguire alcuna attività che consentisse di accertare l’eventuale responsabilità della Mileti per la cessione di droga e la conseguente morte di Attilio Manca (omessa alcuna attività di intercettazione, ad esempio) e, dall’altro, non è stata in grado di spiegare con quali modalità Attilio Manca si fosse adoperato per predisporre la droga che si sarebbe inoculato da sé con le due siringhe rinvenute in casa sua, visto che in casa sua non è stata trovata alcuna traccia degli strumenti con i quali, secondo le più banali cognizioni processuali di ciascuno, Attilio Manca avrebbe potuto trattare la sostanza stupefacente per la sua liquefazione al fine delle iniezioni”. I due legali avevano evidenziato di seguito che nel pomeriggio del 10 febbraio 2004, quando il dott. Manca aveva telefonato per la prima volta a Monica Mileti “si trovava già all’altezza di Ronciglione, dunque incontrovertibilmente già in cammino per Roma, laddove, come riferito da Loredana Mandoloni (amica e collega di Attilio Manca, ndr) e Gianluca Manca, Attilio avrebbe dovuto avere un non meglio precisato incontro per il quale aveva mostrato fastidio”, un dato importante da mettere in correlazione con l’ultima conversazione telefonica avuta da Attilio Manca prima di mettersi in viaggio per Roma “intercorsa con Salvatore Fugazzotto, fedele amico di Ugo Manca”. “Una volta collegata la vita di Attilio Manca alla persona di Monica Mileti – avevano spiegato i due legali – e una volta dimostrata una familiarità fra quest’ultima e l’eroina, il 19 febbraio 2004 il Pm di Viterbo cessò perfino di pensare al compimento di alcun atto utile all’accertamento della verità sulla morte di Attilio Manca”. Nello specifico Ingroia e Repici avevano evidenziato una stridente anomalia: dopo la perquisizione eseguita presso l’abitazione della Mileti, con la quale gli inquirenti attestarono che si trattava di persona che faceva uso di eroina, “le indagini segnarono il passo”. “Anche ammesso – si legge nell’esposto – che Attilio Manca fosse morto a causa dell’assunzione volontaria di eroina, colui o coloro che gliel’avessero venduta sarebbero stati responsabili di due gravi delitti: la cessione della droga e la morte di Attilio come conseguenza di quel primo reato, esattamente i reati che con dieci anni di ritardo il pubblico ministero decise di contestare a Monica Mileti, nonostante evidentemente si fosse convinto fin da subito che la morte di Attilio Manca rientrava in quel quadro, e solo in quel quadro. Sennonché nell’immediatezza gli inquirenti omisero di compiere gli atti di indagine che in quel quadro sarebbero stati doverosi, a partire dalle intercettazioni”. Certo è che la stessa Mileti, nonostante fosse stata posta sotto attenzione investigativa pochi giorni dopo la morte di Attilio Manca, venne rinviata a giudizio solo nel 2013. E soprattutto: nei suoi interrogatori disse che Attilio non faceva uso di sostanze stupefacenti.
Omicidio colposo? Prescritto
Il 23 ottobre del 2014 la famiglia di Attilio Manca è stata estromessa dal processo di Viterbo perché il reato di “omicidio colposo”, attribuito a Monica Mileti, è caduto in prescrizione, mentre lo “spaccio di sostanze stupefacenti” – l’altro reato per la quale la donna era sotto processo – a parere del giudice monocratico, non ha determinato danni alla famiglia del congiunto deceduto. Dietro richiesta dell’allora pm Renzo Petroselli (attualmente in pensione), il Giudice del dibattimento, dopo che il Giudice dell’udienza preliminare le aveva ammesse, ha infatti escluso dalle parti civili la famiglia Manca. Come sia stato possibile che sia accaduto questo lo aveva già illustrato l’avvocato Repici. “Si tratta di un’aberrazione giuridica – aveva spiegato a caldo –. Il reato caduto in prescrizione esclusivamente a causa del lassismo del dr. Petroselli e della Procura di Viterbo, che ha agito con quasi dieci anni di ritardo, era quello previsto dall’art. 586 del codice penale: morte come conseguenza di altro delitto. Tradotto nella vicenda della morte di Attilio Manca, la morte di Attilio come conseguenza della cessione di droga”. Fabio Repici aveva evidenziato che le imputazioni erano state scritte dallo stesso Petroselli. “Era stato lui, quindi, a dire che la morte di Attilio Manca era conseguenza immediata e diretta della cessione di droga imputata a Monica Mileti”. “Caduta una delle due imputazioni per prescrizione in udienza preliminare e rinviata Monica Mileti a giudizio per la cessione di droga, a dibattimento il dr. Petroselli ha cambiato idea e ha sostenuto che la morte di Attilio Manca non era conseguenza immediata e diretta della cessione di droga e che, quindi, i familiari di Attilio non potessero essere considerati nemmeno danneggiati da quel reato, di cessione di droga. Una follia. Purtroppo condivisa dal Giudice del dibattimento, che ha escluso i familiari di Attilio dal processo come parti civili”. “Evidentemente – aveva concluso Repici – la presenza dei genitori e del fratello di Attilio che reclamavano approfondimenti al fine della ricerca della verità era vissuta con fastidio da alcuni magistrati a Viterbo”.
Il dolore di un padre
“Questa sentenza toglie dignità anche a me”, al telefono Gino Manca non ha più parole per commentare il verdetto del giudice di Viterbo. “Io sono vecchio – sospira –, non pensavo che sarebbe passato tanto tempo per non vedere verità e giustizia… mi rendo conto che bisogna sopportare tutto...”. La consapevolezza del padre di Attilio Manca è tranciante. “Ormai c’è un muro di gomma insormontabile, temo che anche a Roma chiuderanno l’indagine, forse per omicidio, se non addirittura per suicidio… spero solo di poter resistere per vedere un giorno giustizia e verità”.
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