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Sullo sfondo resta aperta la minaccia di uno sciopero già evocata dal sindacato delle toghe.
Lo sciopero è uno strumento che non si addice a noi magistrati che siamo abituati a lavorare anche le domeniche e nei giorni di ferie; ma forse potrebbe essere un modo per richiamare l’attenzione della pubblica opinione su temi che riguardano i cittadini.

Leggendo il testo della riforma penale lei si è detto molto preoccupato perché si prospetterebbero maglie larghe per i mafiosi detenuti che non sono all’ergastolo, testualmente: “I mafiosi esenti dal 41 bis, e non ergastolani, avranno diritto a chiedere permessi premio (uscita temporanea dal carcere per chi si comporta bene, ndr) e di poter lavorare all’esterno”. Che segnale rappresenta questa possibile “apertura” per Cosa Nostra?
Alcuni sono portati a credere che la mafia quando non si fa sentire a suon di attentati non esista. Purtroppo però le organizzazioni hanno consolidato strutture economiche, e mantengono reti criminali attive anche su fronti che appaiono di minore allarme sociale, come il gioco, la prostituzione, la droga. Hanno relazioni, denaro e rapporti con gente che conta. Stanno alla finestra a guardare quello che accade e sono pronti ad approfittarsi di ogni passo indietro dello Stato. Queste modifiche smentirebbero - modificandola - la riforma che volle Giovanni Falcone quando era direttore degli affari penali del Ministero della Giustizia e potrebbero andare a beneficio di chi militava in Cosa Nostra quando lui fu ucciso. Questo è il segnale, molto semplicemente.

Queste eventuali “aperture” nei confronti di Cosa Nostra ci riportano indietro nel tempo, esattamente alla fine di novembre del 1993, quando al Dap c’era Francesco Di Maggio. Come è noto in quel preciso momento non furono prorogati 334 provvedimenti di 41bis. Nel 2011, nel suo libro “Ricatto allo Stato”, scriveva testualmente: “Il modo di procedere pragmatico e spedito della nuova gestione del Dap lasciava intendere che dietro quella scelta vi fosse una copertura istituzionale forte… ma probabilmente ispirata da un suggeritore tecnico per una scelta pragmatica di gestione della crisi”. A distanza di 5 anni, e dopo quello che sta emergendo al processo sulla trattativa Stato-mafia come è cambiata la sua valutazione su quei fatti?
La mia valutazione non è cambiata e non cambierà quale che sia l’esito del processo di Palermo. La vicenda del venir meno di 334 provvedimenti di 41bis fu una vicenda opaca, così come per primo ritenne Gabriele Chelazzi. Una compagine di magistrati di prim'ordine che operavano nell’amministrazione penitenziaria - sopravvissuta ai rapimenti ed agli attentati degli anni di piombo - in pochi mesi venne destituita interamente. Sono sicuro che in mano a loro - che li avevano adottati su delega del Ministro -, quei provvedimenti di 41bis non sarebbero stati revocati, così come non furono revocati ai terroristi i provvedimenti di art. 90 fino a che era presente la lotta armata.

Questo vuol dire che c’era una volontà politica di procedere all’alleggerimento del 41bis?
Lo Stato, ai suoi più alti livelli, non poteva ignorare l’effetto che si sarebbe innescato. Il problema non è giudiziario, ma di credibilità politico-istituzionale: non si risolverà con una sentenza di assoluzione, ma solo con la consapevolezza che la trasparenza e la fermezza delle scelte su temi così rilevanti sono un diritto dei cittadini ed un dovere nei confronti di chi ha sacrificato la propria vita per le Istituzioni.

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