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Ragion di Stato

Il processo di “normalizzazione” delle azioni “discutibili” svolte in quegli anni dai rappresentanti delle istituzioni riguarda anche i vertici del Ros ed il contatto che quest'ultimi hanno portato avanti con Vito Ciancimino. Per analizzare questa azione il giudice ha fatto particolare riferimento alla sentenza della Corte d'assise di Firenze. Quest'ultima aveva sollevato alcune contraddizioni logiche nel racconto fatto da Mario Mori e Giuseppe De Donno (“Non si comprende infatti come lo Stato in ginocchio nel ‘92 - secondo Mori - si sia potuto presentare a cosa nostra per chiederne la resa, non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa fino al 18 ottobre 92, si sia trasformato dopo pochi giorni in confidente dei carabinieri e non si comprende come il generale Mori e de Donno siano rimasti sorpresi da una richiesta da show dawn giunta addirittura in ritardo a quanto pare logico”). Tuttavia per il gup Petruzzella “le contraddizioni colte dalla Corte di Firenze non appaiono scontate. Non pare infatti potersi aprioristicamente escludere che l’approccio di Mori fosse poco meditato e meramente esplorativo delle possibilità che attraverso Ciancimino si potessero aprire spiragli investigativi, né l’ipotesi che Mori fosse convinto che all’interno di Cosa nostra, nonostante le difficoltà delle forze statali, vi fosse chi pensasse che quello scontro frontale stragista, adottato contro le istituzioni, prima o poi si sarebbe ritorto contro l’organizzazione criminale”. Il giudice non tiene però conto che, sempre in quella sentenza, viene scritto come quell'iniziativa del Ros “aveva tutte le caratteristiche per apparire come una ‘trattativa’ e fu pertanto che ebbe sui capi mafiosi l’effetto di convincerli definitivamente che la strage portava vantaggi all’organizzazione”.
E' un dato di fatto che proprio di trattativa avevano parlato direttamente sia De Donno che Mori (quest'ultimo poi in diretta tv ha parlato persino di baratto).
Non solo. Fu proprio De Donno, nella sua deposizione, a spiegare il fine di quell'interlocuzione con Ciancimino indicando la volontà di “porre fine alle stragi”. Di quali stragi se fino a quel momento (giugno 1992) c'era stata solo quella di Capaci? E a che titolo il Ros aveva intrapreso quell'iniziativa?
Il gup scrive: “resta il fatto che Mori e De Donno, ufficiali del Ros, corpo dedicato alle investigazioni antimafia e alla ricerca dei più pericolosi latitanti, andarono a rivolgersi a Vito Ciancimino, conoscendo chi fosse e quali interessi rappresentasse, ed ebbero con lui un’interlocuzione che, relativamente a quanto può considerarsi accertato, ebbe come fine la risoluzione di quei problemi di ordine pubblico e principalmente la cattura di Riina”.
Ma non si ferma a questa considerazione: “resta pure il fatto che, soprattutto dagli approfondimenti, a suo tempo espletati dal Pm della DDA di Firenze, sulla vicenda del 41 bis nel carcere di Pianosa, emerse non il sospetto che i Ros favorissero la revoca del regime del 41 bis, ma il diverso sospetto che in quei contesti utilizzassero, dentro le carceri o attraverso il ricorso a confidenti, informali metodi polizieschi per ottenere sbrigativamente i risultati desiderati, o quanto meno che i loro capi, e Mori era uno dei capi, mantenessero un particolare riserbo su questi sistemi, magari per una sorta di ritegno ad affrontare il problema o di ragion di Stato interna”. Di quale ragione di Stato si parla? E, soprattutto, di quale Stato, tenuto conto l’obbligo giuridico di un ufficiale di polizia giudiziaria a riferire alla magistratura i contenuti dei colloqui investigativi? Interrogativi gravi che restano appesi e che, forse, potranno trovare risposta non in questo processo ma in quello in corso di fronte la Corte d'Assise di Palermo.
Tutto il contrario di tutto
Ma il giro di valutazioni a volte anche contraddittorie che il giudice mette in atto nelle motivazioni della sentenza si evincono anche nelle conclusioni. “In ultima analisi - scrive la Petruzzella - resta accertato che l’omicidio di Lima, la strage di Capaci, la strage di via d’Amelio e tutti gli eccidi posti in essere da Cosa nostra  fino al ’94,  assunsero un’indubbia finalità politico eversiva ed implicarono una minaccia anche al Governo, che era diretta a condizionare l’azione repressiva contro la stessa organizzazione. Resta inoltre accertato che Mannino fu ben in grado di comprendere, almeno fin dalla fine del 1991, che i corleonesi nutrissero propositi di vendetta anche nei suoi confronti (ne ebbe conferma anche dagli atti intimidatori subiti, di tipico stampo mafioso), e che in tale contesto si rivolse al maresciallo Guazzelli e quindi  a Subranni, Mori, a Contrada ed altri, per ottenerne protezione”.
“Può d’altra parte considerarsi altamente probabile - aggiunge - stando alla sua biografia politica descritta negli atti del processo in cui fu giudicato sull’accusa di concorso in associazione mafiosa, che Mannino caldeggiasse una linea politica di non contrasto alla mafia. E bisogna dar atto inoltre che le dichiarazioni di Violante e quelle della Ferraro, a proposito del fatto che anche Borsellino fosse informato dei contatti tra Mori e Ciancimino, ed altresì le dichiarazioni di Violante (allora presidente della commissione parlamentare antimafia) sulla insistenza di Mori perché Vito Ciancimino venisse ascoltato, indicano un tentativo di Mori stesso di assecondare le pretese del Ciancimino”. Poi però smonta nuovamente l’impianto accusatorio: “Ma si è visto per quali ragioni, comunque, gli elementi concreti per connettere tale fatto all’iniziativa di Mannino di chiedere protezione ai Ros e la 'trattativa' tra Mori e Ciancimino appaiono fragili, come pure, si ribadisce, gli elementi per attribuire a Mori una volontà di patteggiare, attraverso Ciancimino, benefici per Cosa nostra”.
Sentenza già scritta, dunque, anche per il generale. Alla fine quel che resta, però, è l'amarezza di chi, come Giovanna Maggiani Chelli (Presidente dell'Associazione Familiari Vittime dei Georgofili) attende ancora giustizia: “E' vero che le sentenze si applicano, ma oggi come oggi non è più possibile non discuterle visto quanto l'ingiustizia debordi: una cosa è certa Calogero Mannino doveva essere ucciso da "cosa nostra" subito dopo Salvo Lima, è una prova oggettiva. Purtroppo a morire sono stati i nostri figli. Piaccia o no è così, il resto è lana caprina, che poi non ci sia prova penale che Calogero Mannino abbia tentato di proteggersi muovendosi per se e contro tutti gli innocenti è un altro fatto. Quando mai c'è prova penale oltre la mafia quando viene raggiunto il potere politico?”. “A questo punto - conclude - buon per lui, ci mancherebbe altro. Ma non si parli di giustizia bensì dei limiti di riparazione del torto verso quei cittadini che hanno pagato un prezzo senza pari, perché piaccia o no ai giudici, siamo stati messi nelle mani della mafia e travolti per interesse dei potenti”.

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