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tribunale eff focus greIncoerenze e contraddizioni nelle motivazioni del gup Petruzzella
di Aaron Pettinari
La minaccia al corpo politico dello Stato? C'è stata ma bisogna comprendere chi l'ha messa in atto e chi ne ha preso parte “consapevolmente”. E' così che, dando un colpo al cerchio ed uno alla botte, il gup Marina Petruzzella motiva l'assoluzione dell'ex ministro Calogero Mannino, per “non aver commesso il fatto”, nel processo trattativa Stato-mafia.
La tesi dell'accusa, che aveva chiesto una condanna a nove anni di reclusione, viene respinta pur in presenza di “elementi di sospetto”. In quanto tali “non hanno quindi una grave e autonoma natura indiziaria” e “se considerati come se possedessero tali connotati possono prestarsi a interpretazioni facilmente ribaltabili e tutte analogamente plausibili e in fin dei conti prive di specifico valore dimostrativo processuale”.

Il valore di un processo
Rispondendo anche alla difesa Mannino, che aveva rilevato il problema dell’esatta configurazione della condotta descritta nel capo d’accusa, nelle sue conclusioni la Petruzzella spiega che “da un punto di vista naturalistico può affermarsi la sussistenza della minaccia al Governo in quanto l’omicido Lima e tutte le stragi di Cosa nostra che seguirono vollero realizzare ogni volta una pressione e una minaccia di violenze ulteriori, dirette anche al Governo. La sequenza degli eccidi conteneva il chiaro messaggio intimidatorio della vendetta e della pretesa di un trattamento di favore e della minaccia di ulteriori stragi. Il messaggio integrato dall’omicidio di Lima era indirizzato a chi conosceva la storia di Lima”. Nelle motivazioni il giudice da una parte ammette che “i timori di Mannino, le sue iniziative per ricevere tutela da organi di polizia giudiziaria, senza sporgere denunce, le confidenze da lui fatte a Padellaro e a Mancino, confermano che Mannino scorgesse negli eventi i segni della minaccia, proveniente dai vertici corleonesi e che avesse consapevolezza che la minaccia fosse diretta anche al governo ed ai politici, soprattutto a quelli che, secondo Cosa nostra, avevano rotto il patto o che pubblicamente si vantavano di essere degli antimafiosi (il 12 marzo 1992 Mannino era ministro in carica del governo Andreotti, con Scotti e Martelli)”. Dall'altra ha scritto che non c’è alcuna prova che leghi “l’evento ipotizzato dall’accusa di un accordo tra Mannino e Cosa Nostra, per salvarsi e attuare un programma politico favorevole a una trattativa, volta a condizionare, partecipando alla volontà ricattatoria stragista della mafia, le scelte del governo” all’iniziativa di Mori e De Donno di interloquire con Vito Ciancimino.
Le contraddizioni iniziano se si considera che, in un altro passaggio sui contatti con il Ros, il gup scrive: “è ragionevole ritenere che i descritti comportamenti di Mannino con Guazzelli e con i Ros siano stati determinati dalla volontà di trovare una protezione speciale, approfittando certamente della sua pregressa conoscenza con Subranni e dei privilegi che gli derivavano dal suo ruolo di potente politico”. E successivamente aggiunge: “non vi sono elementi sufficienti per escludere che Mannino si fosse limitato a chiedere ai Ros protezione dagli attentati e dalle indagini sul Corvo 2, anche con condotte non specchiate, perché ne volesse essere tutelato”. Dunque qual è secondo la Petruzzella la ricostruzione corretta? Per quale motivo di quei timori arriva a parlare con Mori, Subranni, Guazzelli e Contrada e non con figure che lui stesso definiva “amiche” come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? Forse perché loro non sarebbero stati d'accordo ad intavolare una trattativa con la mafia, con il fine di fermare quegli attentati? Dunque, cosa portarono quegli incontri con il Ros? E' un dato di fatto che l'interlocuzione tra i carabinieri e Vito Ciancimino viene avviata nel giugno del 1992 così come è un dato di fatto che, dopo la morte di Lima, non vi furono altri politici a perdere la vita.
Rispetto all'operato dell'ex ministro della Dc il giudice non è coerente anche rispetto alla telefonata di Mannino a Di Maggio, oggetto della testimonianza di Cristella (affrontata dai pm nella requisitoria). “Sarebbe comunque suscettibile di rappresentare la volontà di Mannino di condizionare le scelte di non rinnovare i decreti ministeriali applicativi del 41 bis - scrive la Petruzzella - Il giudice non ha nessuna difficoltà ad immaginare un simile scenario, considerata la biografia politica di Mannino, rivelata dal compendio probatorio ben sintetizzato nell’ordinanza con cui il Gip di Palermo nel 1995 dispose nei suoi confronti la misura cautelare del carcere e nella sentenza che nello stesso processo lo giudicarono sull’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa”. Che significa che “il giudice non ha nessuna difficoltà ad immaginare”? Cosa vuole dire il giudice utilizzando questo termine? Gli elementi probatori ci sono o sono “immaginari”?
Demolizione testimoni
Nelle oltre cinquecento pagine di motivazioni scritte dal giudice larghi tratti vengono utilizzati per demolire i contributi di Massimo Ciancimino e del pentito Giovanni Brusca entrambi ritenuti inattendibili. Per quanto riguarda il secondo, però, la valutazione non viene data su tutte le dichiarazioni ma in particolare su quelle “rilasciate da una certa epoca in poi, relative alla presenza di Mancino e di altri uomini della sinistra della DC dentro la trattativa di Mori e de Donno con Vito Ciancimino e allo sviluppo che la trattativa stato-mafia avrebbe avuto nel ‘93”. Al processo di Firenze, sulle stragi del 1993, Brusca, che già aveva parlato del “papello” di Riina, spiegò di aver fatto per la prima volta il nome di Mancino, nel 2001, al pm fiorentino Gabriele Chelazzi. E, sempre a Firenze, parlò per la prima volta di Ciancimino e Dell’Utri per “evitare strumentalizzazioni”. “'Nel 1994, con Bagarella ho un contatto con Dell'Utri, attraverso Mangano, per avere modo di ''arrivare'' a Silvio Berlusconi - disse il collaboratore di giustizia - A Dell'Utri fu detto che il governo, allora guidato dal centrosinistra, sapeva e che ''da li' in poi per avere benefici si era intavolato un altro rapporto politico. Mancino non c'era più''. Invece, parlando del ''committente finale'' del papello, Brusca aveva detto che Salvatore Riina gli fece il nome di Nicola Mancino. Riina gli disse ''si sono fatti sotto''. ''Non mi disse il tramite - aggiunse poi - ma il committente finale e mi fece il nome di Mancino”.
A Brusca il giudice Petruzzella riconosce, “in relazione al contesto generale degli eventi di cui si discute” un apporto di tutta validità processuale. “Appaiono del tutto condivisibili - scrive il gup - le valutazioni di piena attendibilità del collaboratore,  formulate nelle sentenze sull’omicidio Lima e in quelle, pure passate in giudicato, sugli eventi stragisti del ’92 in Sicilia e nel ’93 e ‘94, come in altre, relative alle plurime finalità della stategia deliberata da Riina sul finire del ’91 e in vista dell’esito del maxi processo in Cassazione: di vendetta verso i magistrati e altre figure istituzionali che avevano contrastato l’organizzione mafiosa, e di rottura delle alleanze con i vecchi uomini politici, a cui gli stessi capi della fazione corleonese attribuivano la responsabilità di avere infranto “il patto”, e di ricerca al contempo di nuove alleanze politiche, in grado di assicurare gli interessi di Cosa nostra”.
Sul figlio dell'ex sindaco di Palermo, invece, non viene lasciata aperta alcuna possibilità. Addirittura viene messa in dubbio l'intera mole di documenti presentata ai pm, bollandoli come dei falsi nella loro interezza, senza entrare nel merito delle perizie svolte che, diversamente, decretavano l’attendibilità dei documenti. I pm, da parte loro, avevano spiegato nella requisitoria come l'attendibilità di Massimo Ciancimino fosse “solo 'parziale', ma al tempo stesso significativa, perché relativa ad un testimone privilegiato di quel momento e di quelle vicende”. Appare poi insolito l’appunto fatto ai pm di non aver sottoposto al giudice i verbali illustrativi degli interrogatori di Ciancimino jr, “che avrebbero evidenziato e agevolato la lettura di tutte le numerose ‘criticità’ (così si è espressa la Procura nel giudicarle) ed insidie che si annidano nelle pieghe delle farraginose e fluviali dichiarazioni del Ciancimino”, ma solo quelli integrali. Insolito perché è la stessa Petruzzella a scrivere, nel medesimo paragrafo, che “la presenza di verbali di sintesi operate dagli inquirenti nell’immediatezza dell’atto, non avrebbero certamente esentato il giudice dall’esame integrale delle trascrizioni”.

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