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sicilia effdi Aaron Pettinari - Documento pdf
Nella relazione i motivi per cui lo “status quo” è a rischio

C'è aria di fermento e rinnovamento all'interno di Cosa nostra. Nonostante i molteplici tentativi falliti di riorganizzare la “Cupola” (come avvenuto dal 2008 ad oggi) la mafia siciliana, continuamente colpita dall'azione repressiva, potrebbe subire uno scossone, stavolta proveniente dall'interno. La Dia, che ha diffuso la propria Relazione semestrale, spiega come in questo momento nell'aria “si avverte un clima d’instabilità”. In particolare si sottolinea come proprio “le scarcerazioni degli affiliati potrebbero contribuire a rimettere periodicamente in discussione lo status quo, oltre che sotto il profilo delle alleanze, in alcuni casi frutto di strategie di inclusione verso consorterie storicamente antagoniste, anche per ridurre, in una prospettiva di sopravvivenza dell’intera organizzazione, la vulnerabilità verso l’azione repressiva”.
Gli schemi criminali che vengono messi in atto dalle varie famiglie “sono sempre gli stessi” e “se da una parte viene configurato l'avvicendarsi nelle posizioni di vertice di alcuni boss, a volte autoproclamatisi, privi di lungimiranza, inclini all’affarismo ed inadeguati a garantire il rispetto delle regole associative” dall'altra si fa sempre ricorso “ai consigli degli anziani, che operano in una logica di cooperazione orizzontale”. Proprio i vecchi capimafia, fino ad ora, sarebbero riusciti a sopperire alle criticità dovute proprio all'assenza della “Cupola” o comunque di una “reale struttura di raccordo sovra familiare, in grado di dirimere contenziosi, contenere le possibili situazioni conflittuali e tramandare ai più giovani le regole 'ordinamentali' di cosa nostra”. Fino a quando ciò sarà possibile? Nell'operazione Brasca Santi Pullarà e Mariano Marchese, intercettati mentre commentavano lo stato di salute di Provenzano facevano intendere che finché non sarebbero morti Binnu u' Tratturi e Totà Riina “luce non ne vede nessuno”.
Il primo è deceduto, il secondo, seppur malato, continua a mandare ordini all'esterno (un esempio la condanna a morte contro il pm Nino Di Matteo). Né di questo, né della presenza a palermo di oltre cento chili di tritolo, si parla nella relazione della Dia ma il dato resta sempre sullo sfondo. Lo scorso mese neanche il Procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi, aveva fatto menzione a certi episodi, tuttavia, in una circolare inviata a tutti i pm dell'ufficio, aveva sottolineato lo stato di “fibrillazione all'interno degli ambienti criminali anche legati a Cosa nostra”, e aveva invitato tutti i pubblici ministeri “a prestare particolare attenzione ai profili di sicurezza”.

Trapani: tutto ruota attorno Messina Denaro
La Dia, nella sua relazione, si sofferma poi nello studio di tutte le Province siciliane. Se a Palermo c'è una situazione instabile nel polo mafioso trapanese “non si registrano situazioni di conflittualità, mantiene intatti gli storici collegamenti con le consorterie palermitane”. “L’area – scrivono gli investigatori - si caratterizza, ancora, per la forte coesione dei gruppi e per il capillare reticolo familiare, relazionale ed economico che, come emerso in più occasioni dalle investigazioni dirette dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, ruota attorno al noto latitante di Castelvetrano (Matteo Messina Denaro, ndr)”. Questo viene connotato non solo dalla partecipazione di parenti, affini, affiliati e prestanome, ma anche di “compiacenti professionisti e imprenditori, di cui il ricercato si avvale per tutelare e dissimulare i propri interessi, nel tentativo di sottrarsi all’azione repressiva della D.I.A. e delle Forze di Polizia che ne stanno progressivamente erodendo la rete economico – finanziaria e la complessa catena logistica di copertura”.

Sguardo verso oriente
Nella Sicilia orientale si evidenziano le “continue riconfigurazioni interne” da parte delle famiglie. Ciò accade per le continue operazioni che si sono sviluppate nel corso degli anni. Tuttavia in alcuni casi, secondo la Dia, “tali rimodulazioni degli assetti interni sono determinate dalla migrazione6 di affiliati da un gruppo ad un altro in funzione di un mero calcolo opportunistico”. Resta comunque “la capacità di condizionare la dimensione economica e sociale del territorio, non solo per ricavarne profitti, ma anche per acquisire una sorta di 'riconoscimento pubblico'”.

Non solo Cosa nostra
Nel documento diffuso alle Camere gli investigatori mettono in evidenza anche “l’interazione tra associati a cosa nostra e soggetti criminali di origine straniera. Quest’ultimi rappresentano, infatti, per tutte le aree della Sicilia, un ulteriore bacino per il reclutamento di manovalanza da impiegare nelle attività delittuose più esposte e rischiose, quali i danneggiamenti, gli incendi e lo spaccio di droga, o da sfruttare nel lavoro irregolare, come emerge dal diffuso caporalato”.
Vi è dunque una “duplice forma” di contatto. Da una parte “una piena subordinazione del singolo straniero rispetto all’organizzazione mafiosa”. Dall'altra, nel caso di gruppi criminali più strutturati di altra nazionalità, “con la concessione di una maggiore autonomia nella gestione di attività ritenute marginali, quali lo sfruttamento della prostituzione (rimesso ad albanesi, rumeni e nigeriani), la contraffazione, lo smercio di prodotti contraffatti (concessi a cinesi e nordafricani), nonché il traffico e lo sfruttamento di esseri umani (dove intervengono ancora i cinesi, i romeni e i nordafricani)”. Inoltre vi sarebbero anche alcuni riscontri su ruoli di mediazione, svolti da soggetti extracomunitari, nelle attività di approvvigionamento di stupefacenti.

Questione d'affari: il ritorno alla droga
Gli investigatori della Dia segnalano come negli ultimi anni “tutte le formazioni criminali dell’Isola stanno cercando di recuperare un ruolo di primo piano nella gestione della filiera della droga”. Ciò avviene sia instaurando rapporti diretti con le organizzazioni straniere che mantenendo saldi i legai con esponenti della 'Ndrangheta. “Le indagini transnazionali – aggiunge la Dia - hanno, peraltro, evidenziato come la criminalità organizzata calabrese sia divenuta primario referente delle famiglie di cosa nostra statunitense”. Ovviamente all'interno di Cosa nostra si fa sempre ricorso alle estorsioni (fondamentali per affermarsi sul territorio, ndr) non solo chiedendo il “pizzo” ma anche proponendo “canali illegali di finanziamento, poi funzionali alla progressiva sostituzione nella conduzione delle attività economiche”. E' così che Cosa nostra si infiltra nel tessuto imprenditoriale per un percorso che le consente “specie in aree economicamente depresse del territorio nazionale, di accreditarsi come un valido interlocutore, portatore di cospicue risorse finanziarie e di un considerevole 'capitale relazionale', da sfruttare anche all’estero per intercettare le nuove linee di tendenza sul fronte della domanda delle prestazioni illecite”.
Proprio il settore degli appalti pubblici e, più in generale, la tendenza a condizionare il buon andamento della Pubblica Amministrazione, rappresentano un ulteriore centro di interessi di Cosa nostra. Questo, scrive la Direzione investigativa antimafia, “è utile non solo ad intercettare fondi e a mantenere produttive le imprese infiltrate, ma anche a monopolizzare interi comparti dell’economia”. E' così che “cordate di imprese mafiose fanno 'cartello', avanzando offerte 'pilotate' per aggiudicarsi le gare, con la conseguente penalizzazione dei concorrenti che, non potendo accedere alle commesse pubbliche, vengono progressivamente estromessi dal mercato”.

Verso una mafia sempre più globalizzata
Ma la Dia dà l'allarme anche sulla nuova condizione della mafia, sempre più globalizzata e in grado di agire fuori dal contesto regionale di origine traendo grandi profitti su scala internazionale. Secondo la relazione della Dia le organizzazioni hanno preso coscienza che l'ambiente su cui applicare il “protocollo di infiltrazione mafiosa” non è tanto “geografico”, quanto sociale ed economico. Vengono evidenziate forme di aggregazione e collaborazione sempre più strutturate tra le diverse organizzazioni mafiose, specie nei casi di attività avviate fuori dalle aree storiche di insediamento. Questo perché, appunto, le mire espansionistiche delle mafie ricadono non tanto sui territori, quanto sui mercati o su nuovi settori economici, la cui estensione è trasversale e la cui complessità richiede l'integrazione di competenze diversificate in grado anche di operare sul web', che a livello globale offre infinite opportunità criminali. Proprio il web e i canali di comunicazione non convenzionali anche tramite apparati satellitari, sono oggetto di indagine per via della pianificazione e realizzazione di traffici illeciti transnazionali che potrebbero rappresentare lo strumento relazionale chiave tra diverse organizzazioni criminali anche di matrice straniera che operano su contesti territoriali diversi.

Corruzione come “humus” per le mafie
Gli investigatori evidenziano anche come la corruzione sia l'humus ideale per la radicalizzazione delle mafie. Nella relazione viene scritto come la corruzione, di per sé gravissima, è in grado di creare il terreno fertile ideale per far permeare le mafie. Pertanto andrebbe considerato come una sorta di reato spia di un meccanismo perverso, la cui unica finalità è proprio quella di infiltrare e condizionare i processi della Pubblica Amministrazione.
Diverse operazioni di polizia, infatti, confermano anche nel periodo in esame, come la corruzione sia stata funzionale al perseguimento di affari illeciti di ampia portata, quali il riciclaggio di denaro, l'acquisizione illecita di finanziamenti e l'accesso a notizie riservate utili per l'aggiudicazione delle gare di appalto.

L'affare terra
Nella relazione viene riportato anche l’ultimo redditizio affare della mafia in settori come l'agricoltura e la zootecnica. Il modus operandi di boss e prestanome per arrivare all'acquisizione di fondi comunitari è molteplice e passa attraverso “interposizioni fittizie o creazione di società ad hoc per eludere i controlli antimafia, l’acquisizione abusiva di terreni, spesso ad insaputa dei legittimi titolari, l’utilizzo di false attestazioni sul loro effettivo possesso e sulla reale destinazione d’uso ed il coinvolgimento di professionisti, pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, che si astengono dallo svolgere la dovuta attività di vigilanza e controllo, fornendo poi informazioni utili e riservate per agevolare l’accesso ai fondi”. La Dia segnala anche come sull'accaparramento dei terreni vi sia una corsa vera e propria messa in atto anche tramite “atti intimidatori o incendiari per costringere i legittimi proprietari a cedere appezzamenti e bestiame”. Proprietari che, spesso per paura di ritorsioni, non fanno poi denuncia.

DOCUMENTO PDF
Semestrale DIA (2° Semestre 2015)

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