chinnici rocco bndi Francesca Mondin
Trentatré anni fa esplodeva un autobomba in via Federico Pipitone, l’obiettivo era eliminare il giudice Rocco Chinnici "colpevole" di essere troppo perspicace ed aver compreso già negli anni ’70 cos'era Cosa nostra e come combatterla. Nel giorno dell’anniversario della strage in cui morì il capo dell’ufficio istruzione di Palermo assieme agli agenti Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, e il portinaio Stefano Li Sacchi, riproponiamo il ricordo di questo uomo dalla grande “mente” e intuizione.


Era la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80.
Erano gli anni dei corleonesi di Liggio e dei padri della lotta alla mafia. Erano gli anni in cui uomini come Boris Giuliano, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Calogero Zucchetto, Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Carlo Alberto dalla Chiesa ed altri stavano cercavano di sconvolgere il sistema che fino allora aveva vissuto sulla placida convivenza con la criminalità organizzata. Era l’epoca in cui si parlava della morte della vecchia mafia ma nessuno voleva parlare della nuova che in realtà altro non era che la stessa che cavalcava l’onda dei ‘piccioli’ e della crescita economica. Gli appalti, l’oro bianco, l’alta finanza.
Era l’inizio della lunga lista di padri e madri della patria abbandonati sul campo di battaglia e mandati a morte sotto i feroci colpi della mafia. Nel giro di pochi anni, infatti, Cosa nostra aveva messo a punto una vera e propria mattanza di servitori dello Stato e giornalisti.

Il boato
Era il 1983. Venerdì 29 luglio, ore 8.05. Il capo dell’ufficio istruzione di Palermo Rocco Chinnici saluta il portinaio del condominio in cui abita. Via Federico Pipitone avvolta dal caldo torrido di fine luglio e dagli odori e rumori palermitani è sempre la solita. Chinnici esce di casa. Un uomo preme un pulsante. Un boato. Un istante lungo un sospiro e la via si trasforma nell’inferno. Sirene spiegate, ambulanze, urla, macerie, vetri e mura frantumate, un immenso cratere profondo e nero ha preso il posto della macchina del giudice. La mafia aveva colpito ancora, e lo aveva fatto nel modo più vigliacco e sensazionale che poteva. Un' autobomba, la prima di una lunga serie, aveva spazzato via Rocco Chinnici, i due agenti della scorta Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, e il portinaio del condominio Stefano Li Sacchi. Zero probabilità di errore perché questo giudice testardo che aveva intuito troppe cose andava cancellato.
Cosa aveva capito Rocco Chinnici di tanto fastidioso? Paolo Borsellino parla di lui come di una grande mente che già alla fine degli anni ’70, quando ancora le conoscenze sul fenomeno mafioso erano molto lacunose, era riuscito a intuire prima di tutti cosa fosse Cosa nostra e le sue connessioni con l’alta finanza, la politica e l’imprenditoria. “Le dimensioni gigantesche della organizzazione, la sua estrema pericolosità, gli ingentissimi capitali gestiti, i collegamenti con le organizzazioni di oltreoceano e con quelle similari di altre regioni d’Italia, le peculiarità del rapporto mafia-politica, la droga ed i suoi effetti devastanti, l’inadeguatezza della legislazione: c’è già tutto in questi scritti di Chinnici”.
La grandezza di Chinnici fu anche nel cercare di potenziare e rendere efficaci gli strumenti per la lotta alla mafia. Il giudice aveva capito l’importanza di lavorare in équipe e aveva gettato le basi per il futuro pool antimafia guidato da Antonio Caponnetto: “Ne tentò i primi difficili esperimenti, sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione di informazioni fra i “suoi” giudici. - racconta Paolo Borsellino in un suo scritto - Per suo merito, nell’estate del 1983, si erano realizzate, pur nell’assenza di una idonea regolamentazione legislativa, ancora oggi mancante, tutte le condizioni per la creazione del pool antimafia”.  
Chinnici può essere considerato per molti aspetti il precursore della lotta antimafia portata avanti poi dal pool antimafia e da Falcone e Borsellino, fu lui a creare l’embrione del primo maxi processo con il procedimento allora detto “dei 162”. Fu tra i primi a capire che bisognava cercare tutte le interconnessioni tra i grandi delitti compiuti dalla mafia per studiare unitariamente l’intero fenomeno mafioso. Così come era convinto che unitamente, dai vari componenti dello Stato, andava combattuta la criminalità organizzata. Infatti, scrive il giudice Borsellino: “Non si stancò mai di ripetere, ogni volta che ne ebbe occasione, che solo un intervento globale dello Stato, nella varietà delle sue funzioni amministrative, legislative ed, in senso ampio, politiche, avrebbe potuto sicuramente incidere sulle radici della malapianta, avviando il processo del suo sradicamento”. Dopo 32 anni però la mafia invece di essere sradicata si è avvinghiata ancora di più alle scure trame del potere raggiungendo livelli di convivenza politico finanziaria che le permette oggi di essere la più grande potenza economica italiana con un fatturato di oltre 80 miliardi di euro. Molti sono stati gli uomini e le donne che dopo Chinnici hanno ereditato la sua lotta, ma puntualmente sono stati ostacolati, isolati, screditati e quando questo non bastava uccisi. Alcune vittorie grazie al coraggio di questi uomini sono state raggiunte e alcune verità sono emerse, qualche volto è stato scoperto ma certamente è mancato quell’intervento globale dello Stato di cui parlava il giudice. Anzi, sembra non esserci tuttora la volontà, da parte di alcuni centri di potere, di capire e trovare i mandanti dei grandi delitti e stragi. “Una disamina complessiva di quanto è emerso dai processi (sugli omicidi eccellenti, ndr) - scrive il pm Nino Di Matteo sul suo nuovo libro Collusi (scritto a quattro mani con Salvo Palazzolo, edizioni BUR, ndr) - … lascia intravedere dietro ogni omicidio eccellente una convergenza di interessi mafiosi e di altri poteri, di volta in volta politico-istituzionali, imprenditoriali o finanziari. Tale convergenza si è manifestata con modalità differenti.”. Chi ha voluto dunque la morte del giudice Chinnici?
Nel mirino investigativo del giudice erano finiti i cugini Salvo, all’epoca i veri padroni della Sicilia imprenditoriale. Nino Di Matteo che nel 1996 si occupò a Caltanissetta dell'indagine sull'attentato a Chinnici nel libro Collusi scrive: “Le parole di Brusca (collaboratore di giustizia che parlò del coinvolgimento dei Salvo nell’attentato, ndr) e i numerosi riscontri emersi nel processo non lasciano spazio a interpretazioni: questa volta, Cosa Nostra aveva agito su input di altri. A dare il via era stato un vero e proprio potentato economico-politico, costituito da soggetti la cui autorevolezza criminale derivava dall’inserimento in un circuito esterno all’organizzazione mafiosa.” I cugini Salvo, scrive ancora Di Matteo, “avevano potuto chiedere e ottenere un omicidio eccellente di quel tipo proprio perché rappresentavano lo snodo più importante di contatto e penetrazione del potere politico nazionale”.
I processi per il delitto Chinnici sono stati numerosi e come sempre l’iter giudiziario è stato piuttosto lungo e complesso.
Soltanto il 24 giugno 2002 la Corte d’appello di Caltanissetta ha confermato 16 condanne (12 ergastoli e quattro condanne a 18 anni di reclusione) per alcuni fra i più importanti affiliati di Cosa nostra.
La sentenza ha dato ragione alla tesi dell’accusa secondo cui l’omicidio di Rocco Chinnici fu chiesta dagli “esattori” Nino e Ignazio Salvo (entrambi deceduti, il primo per malattia, il secondo ucciso nel 1992).

Il giallo del fascicolo scomparso
Secondo alcuni pentiti il terzo processo d’appello, celebrato a Messina nel 1988, dopo due annullamenti della Cassazione, avrebbe subito degli ‘aggiustamenti’ per arrivare all’assoluzione, per insufficienza di prove, dei mandanti Michele e Salvatore Greco, e di Pietro Scarpisi e Vincenzo Morabito come esecutori. Secondo quanto dissero all’epoca i collaboratori di giustizia in questione, infatti, la mafia avrebbe corrotto l’allora presidente della corte d’Assise, Giuseppe Recupero, accusato di aver preso 200 milioni. Il fascicolo venne trasmesso nuovamente a Palermo nell’estate del ’98 dal gup di Reggio Calabria, dichiaratosi “incompetente’’ a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio per concorso esterno in mafia e corruzione di quest’ultimo. Il caso però finì nel dimenticatoio per poi tornare fortuitamente alla luce per la scoperta di due giornalisti che stavano lavorando al libro “Così non si può vivere” edito da Castelvecchi. L’inchiesta sul “fascicolo scomparso” venne quindi affidata al procuratore aggiunto Vittorio Teresi per poi essere archiviata lo scorso anno. Sulla vicenda sono tornati 15 senatori del Movimento 5 stelle che, alla vigilia del 32/esimo anniversario della strage hanno presentato un'interrogazione presentato al ministro della Giustizia.
In questi trentadue anni ci sono state molte iniziative della società civile per chiedere verità e giustizia, per manifestare il rifiuto al malaffare mafioso. Iniziative fondamentali per quel processo di sradicamento di cui parlava il giudice che però trova la sua realizzazione in una nuova coscienza critica che guidando l’azione individuale supera l’eccezionalità dell’evento o dell’incontro pubblico. Rocco Chinnici fu tra i primi magistrati ad andare nelle scuole e parlare ai giovani, convinto della necessità di gettare le basi per questa nuova coscienza civile e sociale. Chinnici, racconta ancora Paolo Borsellino nel suo scritto, era convinto che “una lunga e defatigante istruttoria su un omicidio di mafia o su un traffico internazionale di stupefacenti non avrebbe avuto senso compiuto se insieme egli non avesse profuso tra i giovani, che con la sua attività giudiziaria cercava di difendere, anche quei frutti della sua esperienza e della sua cultura che, se ben recepiti, li avrebbero messi in grado di difendersi da se stessi.”
(29 luglio 2015)

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