di Francesca Mondin
L'avv. Repici chiede la revisione della sentenza contro il sociologo e Alasia
Potrebbe avere nuovi risvolti il famoso caso giudiziario, che tanto fece discutere negli anni '70 e che portò il 7 luglio 1972 alla condanna, emessa dalla Corte d'appello di Roma, del sociologo Danilo Dolci, “il Gandhi italiano” e del suo collaboratore Franco Alasia, per diffamazione per aver accusato due appartenenti alla Democrazia cristiana siciliana oltre a Liborio e Giuseppe Munna di rapporti con Cosa nostra.
E' l'avvocato Fabio Repici a chiedere la revisione di quel processo. Nella richiesta di revisione, depositata nei giorni scorsi alla Corte d’Appello di Roma, l’avvocato parla chiaramente di “ingiusta condanna” che “non sarebbe mai stata pronunciata..se l'Autorità giudiziaria avesse potuto conoscere gli elementi di prova sopravvenuti nei decenni successivi”.
Un fatto che potrebbe restituire giustizia alla memoria del sociologo e fondatore del “Centro studi e iniziative per la piena occupazione” che, come scrive Repici, assieme al suo amico e collaboratore, fu “promotore di iniziative sociali e d'inchieste pubbliche che ebbero il merito di scoprire, in anticipo su magistrati, poliziotti e giornalisti, i patti inconfessabili fra politici e boss, la contaminazione di larga parte della società siciliana”. Così come potrebbe mettere un punto fermo sulla figura del padre dell'attuale capo dello Stato, l'avvocato democristiano Bernardo Mattarella e dell'altro onorevole Calogero Volpe. Sono loro infatti i due parlamentari democristiani che finirono nelle inchieste del sociologo Dolci e di Alasia e che nel '66 querelarono i due attivisti antimafia per diffamazione.
Un punto fermo su Bernardo Mattarella
A difendere la figura di Mattarella senior erano scesi in campo gli eredi Mattarella: l'attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e i nipoti Bernardo jr e Maria. Nel 2012 avevano intentato una causa civile contro lo scrittore Alfio Caruso e la casa editrice Longanesi per “aver diffamato” nel suo libro “Da cosa nasce cosa” il patriarca siciliano facendo riferimenti alle sue “frequentazioni mafiose”.
E' proprio a partire da questa causa civile che l'avvocato Repici, difensore dell'autore Caruso, ha raccolto elementi di prova per dimostrare “l'effettiva vicinanza dell'On. Bernardo Mattarella senior a Cosa Nostra” elementi che, si legge, “destituivano di ogni minimo fondamento le ragioni della condanna di Dolci e Alasia”.
All'epoca, secondo l'avvocato dello scrittore “sul processo pesarono l'aria del tempo, ancora intrisa di <<Onorata società>> e <<Uomini d'onore>>, l'assenza d'informazioni su Cosa Nostra..; la solitudine di Dolci e di Alasia nel denunciare complicità, malaffare, sottovalutazioni”. Repici sottolinea come infatti all'epoca vennero ritenute inattendibili le testimonianze a discolpa “in ragione dell’estrazione sociale o politica di sinistra”, mentre furono riconosciute attendibili le fonti indicate dalle parti civili “i cui nomi, letti oggi, solleverebbero inevitabili riflessioni” tra cui spiccano personaggi come Giulio Andreotti, Charles Poletti, il cardinale Ruffini, Mariannina Giuliano sorella del bandito Salvatore e il segretario dell’On. Mattarella Antonino Buccellato.
Nel descrivere il quadro nel quale maturò quella condanna, Repici fa riferimento anche ai due avvocati difensori di Mattarella e Volpe: Giovanni Leone e Girolamo Bellavista “tra i massimi penalisti italiani sorretti da potentati universitari”. Il primo “già presidente della Camera e del Cosiglio” ma che “aveva appena fatto assolvere il boss emergente della Cosa nostra catanese Francesco Ferrera”. Il secondo difensore prima di Michele Navarra, medico e capo mafia dei giovanissimi Liggio, Riina e Provenzano, e dopo del sanguinario capo dei corleonesi Luciano Liggio (che assassinò Navarra, ndr).
Di Carlo “Mattarella uomo d'onore”
“Ho conosciuto personalmente l’On. Bernardo Mattarella senior a Palermo, fra il 1963 e il 1964. Ero amico di un altro politico, di Caltanissetta, Calogero Volpe, democristiano...Volpe mi era stato presentato come uomo d’onore della provincia di Caltanissetta”. A parlare è il pentito Di Carlo che nelle dichiarazioni rese al difensore di Caruso a marzo di quest'anno fa riferimento “non già di concorso esterno ma addirittura di partecipazione da intraneo”, scrive Repici che sottolinea la portata dirompente di queste dichiarazioni.
“Erano in pochi a conoscere Volpe come uomo d’onore di Cosa Nostra. - ha raccontato Di Carlo - Io ero tra questi. Volpe mi presentò Mattarella come uomo d’onore della famiglia di Castellammare del Golfo”. “In epoca successiva, Bernardo Mattarella, per ragioni politiche (...) si era allontanato da Cosa Nostra (...) Buccellato in qualche occasione mi disse che Mattarella si era allontanato anche in conseguenza del sequestro operato da Cosa Nostra ai danni del figlio di un amico di Mattarella, tale Caruso. Ma in realtà Bernardo Mattarella si era allontanato prima”.
Il collaboratore di giustizia ha raccontato che l'onorevole sarebbe stato in rapporti anche con Vincenzo Rimi, “un personaggio importantissimo in Cosa Nostra nella provincia di Trapani”.
L'equazione che non torna tra Dc e lotta alla mafia
Le dichiarazioni di Di Carlo, assieme a quelle già emerse negli anni '80 dei due pentiti pezzi da 90 Francesco Marino Mannoia e Tommaso Buscetta sembrano mettere in seria difficoltà la sentenza di condanna nei confronti di Dolci e Alasia.
Nel '72 infatti i giudici “sostennero che le accuse di contiguità mafiosa lanciate ai danni dell’On. Bernardo Mattarella senior ... e dell’On. Calogero Volpe fossero inveritiere in radice – spiega Repici - sulla scorta di una sconcertante equazione secondo cui nel secondo dopoguerra (…) la Democrazia Cristiana si manifestava come palese antagonista della mafia siciliana. Cosicché la militanza nella DC portava con sé, immancabilmente, l’ostilità nei confronti della mafia siciliana. E questo bastava per affermare che le quattro parti civili del processo, tutti democristiani di più alto o più basso livello, fossero avversari pubblici di Cosa Nostra”. Equazione smentita abbondantemente poi da fatti e sentenze che dimostrano come esponenti della Dc avessero frequentazioni stabili con Cosa nostra quando non si dimostrarono addirittura interni all'organizzazione. Di questo, con riferimento a Salvo Lima e in parte all'onorevole Mattarella ne parlarono abbondantemente i collaboratori di giustizia Buscetta e Mannoia. Repici a riguardo cita alcuni stralci dei verbali d'interrogatorio agli atti del processo a carico del Senatore Giulio Andreotti (processo in cui venne riconosciuto il reato di associazione a delinquere fino alla primavera del 1980, e la sua “amichevole disponibilità” nei confronti di Cosa nostra, ndr).
Tra i documenti allegati alla richiesta dell'avvocato dell'autore del libro c'è anche il memoriale della Federazione provinciale di Trapani del P.c.i. Sul fenomeno mafioso e sulla evoluzione delle sue manifestazioni a partire dall'immediato dopoguerra, diventato parte integrante della relazione di minoranza della Commissione parlamentare antimafia del 4 febbraio 1976. Dove si legge chiaramente: “L’on. Mattarella fin dal primo momento della ripresa della vita democratica in Sicilia ha mirato ad assorbire nella D.C. le forze mafiose per farne strumento di potere. È evidente però che la mafia dà per avere. Così ha dato potere assoggettando con violenza e minaccia le popolazioni ed ha ricevuto potere. Questo orientamento dell’On. Mattarella che ha informato tutta la sua azione politica nella Sicilia occidentale emerge subito dall’art. che egli ha scritto sul N. 100 del Popolo, allora organo della D.C. della Sicilia, il 24/9/1944 a commento dei fatti di Villalba in cui la mafia di Don Calogero Vizzini ha aggredito proditoriamente l’On. Li Causi durante un comizio, ferendolo gravemente. L’On. Mattarella allora ha scritto: “È bene fin d’ora precisare che se ad elementi è attribuito l’incidente, la sua vera causa determinante sta nel conflitto di due famiglie che nel piccolo centro si contendono il primato ed il potere”. E più avanti aggiungeva: “quegli elementi di Villalba che guardano con antica simpatia al movimento D.C., nel quale pensavano di rientrare, non sono per niente reazionari”. Due osservazioni salgono spontanee dalla lettura dell’edificante scritto, primo: l’On. Mattarella chiama la mafia “elementi”. Perché elementi e non mafia” Perché non si deve nominare il nome di mafia? 2) Gli “elementi” cioè la mafia è bene accolta nella D.C.. Data la posizione dell’On. Mattarella quella era una direttiva. Il resto è venuto nel corso degli anni”.
E' a partire da queste fonti di prova che secondo l'avv. Repici ci sarebbero tutti i presupposti, ai sensi dell'art. 630 comma 1, per la revisione della sentenza del '72 che secondo il difensore apparve come il risultato del “trionfo dell'Eterno Paradosso Siciliano: la mafia che portava alla sbarra l'antimafia ottenendo, per di più, una sconcertante vittoria con la condanna dei due rappresentanti del Bene”.
Foto © Archivio Ricciardi
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