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“Nel passato gli attacchi alla magistratura partivano dalla politica per ragioni di interesse personale, dopo l'apertura di inchieste, ad esempio, ora invece la situazione si è rovesciata”. Parola dell'ex Presidente della Camera Luciano Violante intervenuto nei giorni scorsi all'incontro sul referendum di ottobre, alla presenza del ministro Maria Elena Boschi, a Palermo. E' un nuovo capitolo della campagna di delegittimazione dei giudici che la politica, messa all'angolo dalle continue inchieste su casi di corruzione ed affini, sta mettendo in atto senza esclusione di colpi. Una campagna costruita ad arte, urlata, condotta stravolgendo i fatti (anche grazie all'intervento quantomeno scorretto di certi mezzi di informazione) e volta, con ogni probabilità, ad azzerare ogni critica sul referendum costituzionale che potrebbe cambiare (in peggio) il futuro del nostro Paese.
Ma la questione è ancora più ampia se si pensa che nell'ultimo mese, per episodi e motivazioni diverse, nel mirino sono finiti via via il neo presidente dell'Anm Piercamillo Davigo, il membro togato del Csm Piergiorgio Morosini ed ora il Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato.
E' a lui che Violante, in un vero e proprio “j'accuse”, fa particolare riferimento. “Ho letto di recente l'intervista al Procuratore generale di Palermo – ha detto Violante - Lui dice 'Il nostro compito è controllare la politica', ma dove sta scritto? Chi lo dice? Da dove nasce questa questione? Noi dobbiamo difendere l'autonomia della magistratura”. L'intervista è quella che Scarpinato ha rilasciato nei giorni scorsi a La Repubblica intervenendo proprio sul referendum. Basta leggerla per capire l'assurdità delle critiche rivolte da Violante, basatosi su un titolo fuorviante (“Roberto Scarpinato: 'Compito delle toghe è vigilare sui politici, noi fedeli alla Carta più che alla legge'”) più che sul merito delle questioni sollevate dal Procutatore generale.
Giustamente lo stesso magistrato palermitano ha poi commentato: “Prendo atto che, purtroppo, non si registrano toni sereni nella dialettica culturale sul tema referendario. Da parte di taluni si tende ad attribuire a coloro che esprimono posizioni dissenzienti affermazioni inesistenti in modo da screditarli come estremisti agli occhi della pubblica opinione. Ho affermato in una intervista che i magistrati devono sottoporre al vaglio della Consulta le leggi sospette di incostituzionalità e che, quindi, devono vigilare sulla conformità alla Costituzione delle leggi ordinarie frutto di maggioranze politiche contingenti. Si tratta dell’abc di ogni giurista. Da giorni si continua invece ad attribuirmi l’affermazione, da me mai fatta, che i magistrati devono controllare tout court la politica, ingenerando così nella pubblica opinione la convinzione che taluni magistrati coltivano segrete ambizioni egemoniche. La scorciatoia della facile delegittimazione disimpegna dall’onere delle contro argomentazioni e rischia di declassare il confronto culturale a puri rapporti di forza mediatici in uno stile gladiatorio che mi è estraneo come magistrato e come persona”.

Visione distorta
Del resto l'ex Presidente della Camera, per proseguire con la sua visione distorta delle cose, non si è fermato all'episodio del Pg di Palermo, ma ha anche ricordato la “vicenda del consigliere del Csm che manda un suo commesso a chiamare la giornalista” (chiaro riferimento a Piergiorio Morosini, che poi ha smentito l'intervista pubblicata dal Foglio dal titolo 'Renzi va fermato'). “E' chiaro che se parli con un giornalista, stai rilasciano una intervista – ha ancora accusato Violante - Questi meccanismi vanno stigmatizzati, tanto per Morosini, quanto per Scarpinato, sta partendo da là l'attacco e ha fatto molto bene il Presidente del consiglio a non scendere in contrapposizione con la magistratura”.
Peccato che sia stato proprio il premier Mattero Renzi, poco tempo fa, ad alzare i toni dello scontro, parlando di “20 anni barbarie legate al giustizialismo”, commentando l'inchiesta di Potenza sul petrolio in Basilicata che ha portato alle dimissioni del Ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi. E cosa dire delle assurde polemiche scoppiate quando il neoeletto presidente dell'Anm, Piercamillo Davigo, ha posto l'accento su alcuni punti chiave (“Ora è peggio di Tangentopoli. I politici non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto”) in materia di giustizia e lotta alla corruzione.

Quale questione democratica?
Luciano Violante sulla “questione morale” che dovrebbero porsi i politici non ha detto nulla, diversamente ha ritenuto di dover accusare la magistratura. “Trovo che non solo la magistratura ordinaria ma anche quella contabile, quella amministrativa meno, ogni tanto si incaricano di funzioni di governo morale del paese – ha detto - Se guardate alcuni provvedimenti, ci sono giudizi morali inaccettabili”. Secondo il politico vi è “una questione democratica che va affrontata. Bisogna collocare ogni potere nella sua giusta 'casella', non si esce da quella casella altrimenti si sfascia la democrazia bisogna porre la questione democratica che ogni potere non deve uscire dalle sue competenze, altrimenti diventa un potere arbitrario e diventa pericoloso per la democrazia”. Infine ha concluso: “Io non credo che il magistrato sia un cittadino come gli altri, la quantità di poteri discrezionali è talmente elevata, che se prendi posizione di parte chi ti sta di fronte non ha più fiducia in te”.
Un concetto che potrebbe essere sicuramente rivolto a molti politici. E pensare che tempo fa, quando Renzi reagì con un “brrrr... che paura” alle critiche dell'Anm sui tagli delle ferie alle toghe e sue quelle affermazioni che accreditavano l'idea dei giudici “fannulloni” che guadagnano troppo, lo stesso Violante aveva detto: “Non mi pare questo il modo di affrontare problemi seri. Ne va di mezzo l'autorevolezza del presidente del Consiglio, che non è un bene personale, ma un valore dell'intero paese”. Evidentemente l'ex Presidente della Camera non ricorda. Del resto si parla di uno di quei “smemorati di Stato” che nel 1992 ritenne di non dover informare l'autorità giudiziaria che l'allora generale Mori chiedeva per conto di Vito Ciancimino un'audizione in Commissione Antimafia. Lo ha fatto tempo dopo, a quasi vent'anni di distanza.

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