Al Senato il premier attacca la magistratura e ricorda tanto B.
di Aaron Pettinari
Referendum contro le trivelle, riforme costituzionali, intercettazioni. Vanno d'accordo su tutto il premier Matteo Renzi e l'ex Capo dello Stato, Giorgio Napolitano che continua a dare indicazioni quasi come fosse ancora al Quirinale. Un asse che si rinnova nel giro di pochi giorni. Dopo aver “avallato” la scelta dell'astensionismo (“E' un modo di esprimere la convinzione dell’inconsistenza e della pretestuosità” e la scelta del non voto, al pari delle altre, “è costituzionalmente legittima”), “Re Giorgio” è tornato a spalleggiare il Presidente del Consiglio sul tema delle intercettazioni. Un argomento da lui sempre ritenuto “scomodo”, tanto da preferire la distruzione delle telefonate tra lui e l'ex senatore Nicola Mancino, all'epoca indagato ed oggi imputato al processo trattativa Stato-mafia, anziché divulgarne il contenuto. Una scelta che avrebbe potuto chiarire ogni dubbio che legittimamente si è diffuso tra l'opinione pubblica.
Matteo Renzi, da parte sua, è intervenuto in Senato per affrontare due mozioni di sfiducia nate dall’inchiesta sul petrolio in Basilicata, attaccando pesantemente la magistratura ed evocando per l'ennesima volta il bavaglio alla stampa, rea di divulgare i contenuti delle intercettazioni: “Questo Paese ha conosciuto anche negli ultimi venti, venticinque anni, pagine di autentica barbarie legate al giustizialismo. L’avviso di garanzia è stato per oltre 20 anni una sentenza mediatica definitiva, le vite di persone per bene sono state distrutte mentre i delinquenti facevano di tutta l’erba un fascio”.
E Napolitano ha rincarato la dose: “Vengono pubblicate anche intercettazioni manipolate, pezzi di conversazioni estrapolate dal contesto. Com’è successo al mio consigliere D’Ambrosio (un dato falso perché le intercettazioni vennero pubblicate in maniera integrale) che ci ha rimesso la pelle con un attacco cardiaco. E io certe cose non le dimentico”. “In passato - ha aggiunto parlando con i giornalisti - ci sono stati casi gravi di montature giornalistiche contro persone che hanno ricevuto avvisi di garanzia e poi sono state scagionate, ma hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista della vita privata”.
Tutto questo è accaduto mentre uomini di Governo vengono travolti dallo scandalo “Trivellopoli”, l'ennesima inchiesta su casi di corruzione ed affini. La politica, anziché farsi un esame di coscienza ed epurare quei soggetti che presentano comunque degli aspetti oscuri, risponde in maniera classica, attaccando la magistratura e barricandosi a difesa degli avvisi di garanzia.
Un letmotiv che viene trasmesso dai tempi di Berlusconi premier e che viene continuamente riproposto oggi da Renzi. Anche su questo, del resto, si basa il Patto del Nazareno.
Questioni di opportunità
“Io sono per la giustizia sempre non per giustizialismo, credo nei tribunali e non nei tribuni, credo nelle sentenze e non nelle veline che violano il segreto istruttorio” ha ancora detto Renzi. Eppure il premier si è dimostrato impassibile anche di fronte alle condanne. Non una parola ha pronunciato quando il senatore Denis Verdini, sostenitore della maggioranza renziana con il gruppo Ala, è stato condannato lo scorso 17 marzo a due anni (pena sospesa) per concorso in corruzione relativamente alla vicenda degli appalti per la ristrutturazione della Scuola dei Marescialli di Firenze. Si tratta di uno dei sei processi dove il politico ex Pdl-Forza Italia (tra i fautori del pattro del Nazareno) è imputato. Gli altri riguardano il crac di una ditta che avrebbe dovuto ricevere 4 milioni di euro del Credito cooperativo fiorentino, la bancarotta dello stesso Credito cooperativo fiorentino, il cosiddetto "affare P3", la plusvalenza nella vendita di un appartamento a Roma e il crac della Società Toscana di edizioni (Ste), che pubblicava il Giornale della Toscana.
Come spesso ricorda il pm Nino Di Matteo, oggi, "Nemmeno gli accertamenti definitivi sono sufficienti a fare valere, in sede politica, le responsabilità per chi ha coltivato rapporti con i mafiosi". Basti pensare al caso del senatore Marcello Dell'Utri (condannato oggi in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa). Nella sentenza della Cassazione viene fotografata una situazione in cui un imprenditore (Silvio Berlusconi) dal 1974 al 1992 ha stipulato e rispettato un patto di protezione con le famiglie palermitane mafiose più potenti. Nonostante questo oggi nessun politico mette in evidenza il dato e quell'imprenditore, nel frattempo diventato politico, discute ancora oggi di come riformare la costituzione.
La mancata assunzione di responsabilità
In generale la politica ha deciso di demandare alla magistratura quel ruolo di controllo che dovrebbe essere invece proprio della politica. Paolo Borsellino, in uno dei suoi interventi pubblici, prima che fosse ucciso, ricordava come spesso “ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c'è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reati”. Un concetto ribadito oggi dal Presidente dell'Anm, Piercamillo Davigo, intervistato da Il Fatto Quotidiano: “Non c’è nessuna guerra. Noi facciamo indagini e processi. Se poi le persone coinvolte in base a prove e indizi che dovrebbero indurre la politica e le istituzioni a rimuoverle in base a un giudizio non penale, ma morale o di opportunità, vengono lasciate o ricandidate o rinominate, è inevitabile che i processi abbiano effetti politici. Se la politica usasse per le sue autonome valutazioni gli elementi che noi usiamo per i giudizi penali e ne traesse le dovute conseguenze, processeremmo degli ex. Senza conseguenze politiche”.
Un comportamento totalmente opposto rispetto a quanto accade oggi. Senza poi contare gli emendamenti, come quello presentato in Commissione Giustizia al Senato dal presidente della stessa, Nico D'Ascola di Ap (Udc-Ncd), che potrebbe affossare la proposta di legge sull'aumento dei tempi di prescrizione per i reati di tangenti. Interventi che minano alla base proprio il lavoro della magistratura. E' così che si dovrebbe riformare la giustizia?
Certo non possiamo stupirci. Se si guarda ai vertici delle Istituzioni appare sempre più evidente che questo non è uno Stato che vuole davvero verità e giustizia. Napolitano, quando era ancora al Quirinale, ha indicato chiaramente il percorso da seguire sollevando un conflitto di attribuzione senza precedenti contro la Procura di Palermo. Procura che è impegnata nel tentativo di portare alla luce i fatti avvenuti nel biennio stragista che, assieme a Tangentopoli, ha portato alla caduta della Prima Repubblica. Oggi, da Senatore a vita, assieme a Matteo Renzi torna a puntare il dito contro le intercettazioni mentre non una parola è stata mai detta da entrambi nei confronti di magistrati come Di Matteo, impegnato in delicatissime indagini, su cui vi è un progetto di morte mai revocato ed anzi avallato dalle parole dette da Riina in carcere (“Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono”, “E allora organizziamola questa cosa! Facciamola grossa e non ne parliamo più”). Un silenzio grave tanto quanto l'attacco indiscriminato e scellerato nei confronti di stampa e magistratura.