di Aaron Pettinari
L’operazione dell’aprile 2013, “Nuovo mandamento”, aveva portato un certo sconquasso all'interno del mandamento di San Giuseppe Jato, creando di fatto un vuoto di potere che stava per scatenare una nuova “guerra” per il vertice del mandamento.
Due le fazioni che erano in corsa. Quella guidata da Gregorio Agrigento e composta da Ignazio Bruno (sorvegliato speciale) e Antonino Alamia (di professione barbiere) e quella guidata da Giovanni Di Lorenzo, soprannominato la morte, operaio edile e pregiudicato che si era fatto carico la gestione degli interessi di vecchi capi come Salvatore Mulè, storico capomafia che sta scontando diciannove anni di carcere al 41 bis.
Proprio al fine di fronteggiare gli avversari Di Lorenzo stava mettendo da parte un vero e proprio arsenale per poi porre in essere una lunga serie di atti intimidatori. Tra questi vi è anche un “massacro” di bovini, nella notte tra il 18 e il 19 gennaio 2014, appartenenti all'allevamento di Giovanni Longo, un allevatore finito in carcere, accusato di avere trattenuto una somma di denaro destinata ad aiutare la famiglia di Mulè. Il 31 gennaio in una stalla di proprietà di Giuseppe Buscemi Tartarone i carabinieri trovano le armi del clan: due pistole calibro 7.65, un fucile a canne mozze, munizioni e passamontagna. Armi che erano pronte per essere usate. “Speriamo di aver impedito una nuova escalation di morte” hanno detto gli inquirenti durante la conferenza stampa.
Dopo quel sequestro Di Lorenzo stava valutando – come emerge dalle intercettazioni – di dotarsi anche di un bazooka, ma poi abbandonò il proposito perché eccessivamente costoso e le munizioni erano difficili da reperire. “Per me quella specie di landa missile eeeh… lo deve avere lui! Il bazooka!… E che minchia se ne fa? Se non c’è niente che minchia se ne fa! Eh, se uno capitasse le cose! E dove le vai a trovare! Ma se uno… capitando quello… ogni cosa di questo ci vogliono mille euro!” diceva assieme a Domenico Lo Biondo.
Nel frattempo però il rappresentante di Salvatore Mulé avvia una ricerca di pistole. Gliele forniscono un imprenditore edile di Monreale, Antonino Giorlando, e Vincenzo Ferrara di San Cipirello. Le tensioni non si placano e nel 2014 il rischio di uno scontro è altissimo.
Prima di dar fuoco alle armi, però, si cerca una mediazione. Così tra il 23 febbraio e il 9 marzo 2014 vi sono degli incontri importanti. Bruno (capofamiglia di San Giuseppe Jato), Alamia (il cassiere), Giuseppe D'Anna (capo decina) si danno appuntamento con Di Lorenzo e l'imprenditore Vincenzo Licari per raggiungere una sorta di “pax mafiosa”. “Sono stato chiamato da due persone per fare appacciare... - racconta sempre Di Lorenzo - facciamo l'appaciata e poi si vede... minchia ieri parole pesanti... io non mi spavento di te, tu non ti spaventi di me... Pitipum, pitipam... tirami... se hai l'abilità di tirarmi... ci deve essere un altro incontro per fare un' appaciata con tutti”.
Le indagini hanno dimostrato come la “pax”, però, fosse solo apparente tanto che Di Lorenzo avrebbe continuato a cercare armi. Nel novembre del 2014 fu persino fermato con la replica di una pistola Beretta, modificata. A casa dell'uomo trovato in sua compagnia, Raffaele Bisiccè, c'erano una calibro 10,35, centinaia di munizioni e l'attrezzatura per produrle. Segno che lo scontro poteva essere davvero dietro l'angolo.
La contesa su Altofonte
Problemi, nelle indagini condotte dai carabinieri del Gruppo di Monreale, erano anche emersi rispetto al controllo su Altofonte. L'operazione “Grande Mandamento” aveva messo in evidenza come Antonino Sciortino, allevatore, già condannato per mafia, e storicamente legato ai Vitale “Fardazza” di Partinico, Leonardo e Vito, nonché al “veterinario” e boss di Altofonte, Mimmo Raccuglia, tornato in libertà in quel periodo avrebbe assunto il comando dei mandamenti di San Giuseppe Jato e Partinico creando un “supermandamento” ,quello di Camporeale. Un'operazione a cui alcuni soggetti si sarebbero anche opposti tanto che Giuseppe Billitteri fu persino vittima di lupara bianca.
Quei mutamenti avrebbero previsto la riannessione della famiglia di Altofonte (in passato accorpata a quella palermitana di Santa Maria di Gesù), una conferma di Montelepre al mandamento di San Giuseppe Jato, e il passaggio del clan di Giardinello a Partinico, sottomesso comunque a Salvatore Mulè.
I problemi per porre in essere questo piano, secondo gli inquirrenti, Sciortino li avrebbe incontrati soprattutto con i clan di Altofonte e Monreale, tanto che sarebbe questo il motvo che portò all'omicidio di Billitteri. Dopo l'arresto di Gisueppe Marfia, avvenuto con l'operazione di aprile 2013, al vertice della famiglia vi è stato un passaggio di consegne in favore di Salvatore Terrasi, sottufficiale dell'esercito e cognato del boss Mimo Raccuglia, coadiuvato da Andrea Di Matteo, imprenditore edile conosciuto con il soprannome di “faccia da porco”.
Questo cambio al vertice della famiglia di Altofonte veniva commentato nel corso di una conversazione tra Mario Marchese, Gaetano Di Marco e Francesco Di Marco, all’interno della marmeria di quest’ultimo. Nell’occasione Marchese confidava agli interlocutori che Dii Matteo era il rappresentante della famiglia mafiosa di Altofonte. Nel corso delle indagini si sono quindi acquisite prove sul rientro della famiglia di Altofonte sotto l’influenza del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato in cui tradizionalmente era inserita e dal quale si sarebbe allontanata solo per alcuni anni, entrando di fatto nell’orbita della famiglia di Villagrazia.
Il vertice della famiglia di Monreale
Per quanto riguarda la riorganizzazione della famiglia di Monreale gli inquirenti hanno invece scoperto che a prendere lo “scettro” del comando sarebbe stato Giovan Battista Ciulla, insospettabile fisioterapista a domicilio, privo di precedenti penali, ma addentrato nelle dinamiche mafiose per via dei legami con Carmelo La Ciura, in quanto “figlioccio” del genero.
Proprio con l'arresto di La Ciura, di Vincenzo Madonia e Giuseppe Lucido Libranti, Ciulla, divenne, da semplice soldato, generale. Intercettato dai carabinieri è stato lui stesso a descrivere il suo ruolo: “... nemmeno prima me ne potevo uscire... perché purtroppo non è una cosa di ora.. è una cosa di sempre... solo che prima io... partivo nel momento del bisogno”. E il suo interlocutore chiosava: “Un soldato eri...Il soldato... ora è diventato generale”.
Le indagini dei militari hanno permesso di ricostruire l'intero organigramma della famiglia. Così al suo fianco vi erano Onfrio Buzzetta (imprenditore edile e capo decina di Pioppo), Giuseppe Giorlando (già arrestato nel blitz Apocalisse) e Nicola Rinicella, altro imprenditore e pure lui incensurato. Dalle indagini è emerso che a volere Ciulla al potere sarebbero stati i boss di San Giuseppe Jato che gli affiancarono, come supervisore, il capo decina Giuseppe D'Anna che, per suggellare l'accordo, scelse Ciulla come suo compare d'anello.
Non sono poi mancati atti di estorsione e di danneggiamento. Decisamente il più eclatante fu l'incendio della macchina della figlia del vecchio capo, Vincenzo Madonia.
Gli inquirenti, nel documento, sottolinenano il comportamento “spregiudicato” di Ciulla che aveva portato a far emergere anche alcuni contrasti all'interno del mandamento di San Giuseppe Jato. Ciulla, a detta degli altri appartenenti dell'organizzazione, non si presentava alle riunioni e non gestiva bene il denaro (in un caso anche impossessandosi di una somma di denaro destinata alla cassa del mandamento) ed anche intratteneva una relazione extraconiugale con la moglie di un detenuto, in violazione di una regola “sacra” di Cosa nostra. Per risolvere la questione, che si stava surriscaldando, dovette intervenire persino il vecchio padrino, Gregorio Agrigento.
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