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scarpinato c castolo gianninidi Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari
Nella sua lunga requisitoria il Procuratore Generale di Palermo si sofferma più volte sui “fatti che dimostrano in modo inequivocabile la falsità degli assunti giustificazionisti degli imputati”. Per Scarpinato la “pre-comprensione innocentista induce il Tribunale anche a viziare il processo accertativo facendo nella seconda parte erronea applicazione delle regole del giudizio imposte dal codice di procedura penale nel tentativo di smantellare totalmente l'attendibilità del tenente colonnello Michele Riccio, l'unico in grado di raccontare lo svolgimento degli avvenimenti e di mettere a nudo la condotta degli imputati dopo che l'altro protagonista degli avvenimenti, Luigi Ilardo, era stato assassinato il 10 maggio del 1996”. Il magistrato cita quindi le regole del giudizio stabilite dagli art. 236 e 234 del c.p.p.. “In riferimento alla credibilità di un testimone – ribadisce – è consentita l'acquisizione di certificati del casellario giudiziario e delle sentenze irrevocabili. La regola del giudizio per la valutazione dell'attendibilità dei testi è dunque che non si deve valutare la credibilità di un testimone basandosi su sentenze non irrevocabili, non solo in applicazione del principio di presunzione di innocenza, ma anche per l'evidente ragione che fatti, circostanze, ricostruzioni probatorie contenute in sentenze non definitive non sono certi, possono essere ribaltati, smentiti, come erronei nei successivi gradi del giudizio”.

La credibilità di Riccio
Scarpinato ribadisce che “non si può valutare  la credibilità dell'attendibilità di un testimone sulla base di prove che non sono ancora state consolidate in sentenze irrevocabili, così per valutare la credibilità di un imputato di reato collegato (qualità soggettiva che veniva rivestita  dal tenente colonnello Riccio nel  primo grado di giudizio in quanto a quella data era indagato per il reato di calunnia a seguito di una denuncia presentata da Mori, procedimento poi archiviato)  allo stesso modo non si potevano desumere da sentenze non irrevocabili giudizi basati su elementi probatori che non erano definiti”. “La libera valutazione delle prove da parte del Giudice – sottolinea ancora il Pg – riguarda soltanto le prove legittimamente acquisite e utilizzabili, non può trasmodare nella libertà di porre a base del giudizio prove non utilizzabili. Ed è quello che invece è avvenuto in questo processo di primo grado, facendo strame del principio costituzionale della presunzione di innocenza sino alla condanna definitiva e facendo erronea applicazione delle consolidate regole del giudizio  sopraccennate, il Tribunale al fine di demolire la credibilità del Riccio non ha esitato a definirlo come soggetto affetto da manie persecutorie e calunniatore facendo ampio uso di documenti non utilizzabili: decreti di rinvio a giudizio, decreti di archiviazione, e addirittura richieste di archiviazione formulate dal pubblico ministero”.  Così facendo, secondo Scarpinato “il Tribunale fa entrare di soppiatto quello che non può entrare dalla porta principale” ed è per questo che il magistrato auspica che la Corte sappia “porre rimedio a questo errore nel giudizio”. Di fatto la questione riguarda un vero e proprio “pregiudizio costruito nei confronti di Riccio” di cui “il Tribunale ne fa continuo uso”. Per il Procuratore Generale è invece del tutto oggettivo che le dichiarazioni di Riccio “inchiodano gli imputati alla loro responsabilità”. “Presentare Riccio come un calunniatore seriale – continua – è un indice pregiudiziale di sbilanciamento”.

Un nucleo di verità
Scarpinato cita l’unica sentenza definitiva di condanna per Riccio, relativa ad alcune operazioni antidroga, sottolineando la similitudine dei reati per i quali sono stati imputati Obinu e Ganzer davanti alla Corte di Appello di Milano. “Ma neppure l'unica condanna del Riccio può fornire utile indicazione per valutare la sua attendibilità – evidenzia il Pg – perchè non vi è alcuna pertinenza logica tra il tipo di reato per cui è stato condannato e la sua attendibilità come teste in questo processo”. “Riccio non si è mai messo in tasca un solo euro”, rimarca il magistrato. “Stiamo parlando di una persona che pur potendo diventare ricca con la droga, se fosse stato disonesto, non ci ha guadagnato un euro e che addirittura non accettava regali dai suoi infiltrati. Questo è l'uomo. Un ufficiale con un passato operativo brillantissimo, appartenente alla scuola e alla filiera del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Un uomo che viola le regole, che commette reati per contrastare altri reati per fare carriera, uno per cui il fine giustifica i mezzi”. Non risulta da nulla che egli sia stato un calunniatore, affetto da manie persecutorie come il Tribunale vorrebbe dipingerlo basandosi su atti inutilizzabili. Si tratta della stessa tipologia di condotte, della stessa filosofia operativa, secondo cui il fine giustifica i mezzi, per cui lo stesso Obinu è sotto processo ed è stato condannato seppure con sentenza non definitiva”. “Dalle dichiarazioni di Riccio – sottolinea Scarpinato mentre conclude questo specifico capitolo – resta un nucleo di verità che proietta una luce sinistra sulle inerzie degli imputati”.

Fuori dalla trattativa
Mentre ripercorre i punti salienti della sua requisitoria, Scarpinato ci tiene a sottolineare che “è come se l'enorme forza gravitazionale del processo sulla cosiddetta trattativa avesse attratto nella propria orbita questo processo impedendogli così di avere una vita propria, di gravitare dentro la propria orbita”. Secondo il Pg quindi “per restituire il processo a se stesso, per riportare il baricentro sul capo di imputazione, per rimetterlo sui giusti cardini e per ripristinare la fisiologia del procedimento accertativo, riteniamo dunque  necessario operare una manovra di definitivo e radicale sganciamento dal processo sulla cosiddetta trattativa rinunciando alla contestazione delle aggravanti”.

Il movente? Indifferente.
“L'accusa – spiega ancora Scarpinato –, avendo rinunciato alle aggravanti contestate in primo grado, non deve provare il movente della condotta favoreggiatrice specificata nella formulazione dell'aggravante contestata”. “Noi non intendiamo provare più, rinunciando alle aggravanti, che il movente della condotta degli imputati sia quello contestato alle aggravanti. Resettiamo il processo, facciamo conto che quelle aggravanti  non siano state mai contestate. Noi proveremo a dimostrare alla Corte che vi sono fatti e documenti che dimostrano in modo certo, al di là di ogni ragionevole dubbio, che gli imputati omisero ogni investigazione, ogni attività in proprio, ogni comunicazione alla Procura di Palermo e addirittura occultarono documenti con la consapevole volontà di aiutare Provenzano e i suoi favoreggiatori a eludere le investigazioni dell'autorità giudiziaria”. Il Procuratore Generale parla esplicitamente di una “consapevole volontà che integra il dolo generico”. “Ci atterremo in questo percorso alle regole consolidate sancite e ribadite dalla Corte di Cassazione sia nella definizione del dolo generico, del reato di favoreggiamento, sia nel sottolineare e ribadire (sino alle più recenti pronunce) la irrilevanza ai fini della consumazione del reato dei motivi che hanno indotto il reo a porre in essere la condotta di favoreggiamento. Il movente della condotta, secondo la classica definizione di dottrina e di giurisprudenza, è la causa psichica della condotta umana e costituisce lo stimolo che induce l'individuo ad agire”.  “Il movente in questo caso è indifferente per la consumazione del reato – conclude Scarpinato –, perché a causa della scelta legislativa  di configurare il dolo come generico e non come specifico è fuori dalla sfera degli elementi costitutivi del reato”.

Foto © Castolo Giannini

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