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fava giuseppe web2Video-intervista all'interno!
di Aaron Pettinari

E’ un anniversario davvero particolare questo trentaduesimo anno della morte di Pippo Fava, ucciso per mano mafiosa il 5 gennaio 1984. Un uomo, il direttore de “I Siciliani”, che ha avuto il coraggio della verità, per una Sicilia libera dalla mafia e dai soprusi, dalla cui vita si può e si deve trarre spunto ed insegnamento per fare il proprio lavoro con spirito etico.
Lo stesso Fava, nel 1981, in un editoriale scritto per il Giornale del Sud, aveva spiegato il profondo significato di etica e giornalismo: “Io ho un concetto etico di giornalismo. Un giornalismo fatto di verità, impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, sollecita la costante attuazione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo si fa carico di vite umane. Un giornalista incapace, per vigliaccheria o per calcolo, della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori che avrebbe potuto evitare, le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze, che non è stato capace di combattere". Un concetto che ha sempre messo in pratica nel suo lavoro meticoloso di analisi della società siciliana e italiana.
Il valore della “memoria” oggi è ulteriormente arricchito, purtroppo, dalla scomparsa, nel 2015 che si è appena concluso, della figlia del giornalista, Elena, a causa di un male che da un anno l’aveva colpita.
Proprio lei in questi anni aveva invitato tutti a ritenere la cerimonia sotto la lapide in ricordo del padre non come un momento di retorica ma di riflessione in una città, Catania, dalla memoria corta. Ed è anche in suo onore che oggi ci stringiamo tutti alla famiglia ed ai cittadini onesti che cercano verità e giustizia.

Pippo Fava e la mafia in Parlamento
“I mafiosi sono in ben altri luoghi e in ben altre assemblee. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della Nazione. Se non si chiarisce questo equivoco di fondo – cioè non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità che credo abiti in tutte le città italiane ed europee – il problema della mafia è molto più tragico e importante, un problema di vertici di gestione della Nazione che rischia di portare al decadimento politico, economico e culturale l’Italia. I mafiosi non sono quelli che uccidono, quelli sono gli esecutori, anche ai massimi livelli”. Così rispondeva Pippo Fava, direttore dei Siciliani, ad una domanda di Enzo Biagi, durante la trasmissione “Filmstory”, andata in onda il 28 dicembre 1983, appena una settimana prima di essere ucciso. Potrebbero bastare quelle parole, tanto lungimiranti, per spiegare i motivi per cui Pippo Fava doveva essere eliminato. Le sue incessanti denunce sul connubio tra i boss e gli imprenditori catanesi erano una spina nel fianco non solo per i mafiosi, autori del delitto, ma anche, se non soprattutto, per quel pezzo di istituzioni corrotte e colluse con la mafia.
Fava, giornalista, scrittore e drammaturgo italiano fu tra i fondatori della rivista I Siciliani nel primo numero scrisse un pezzo intitolato "I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa" dedicato ai quattro maggiori imprenditori catanesi, Rendo, Graci, Costanzo e Finocchiaro. Nell'inchiesta, frutto di due anni di lavoro già da quando Fava lavorava al Giornale del Sud, accusava il mondo imprenditoriale e politico della città di essere legato a doppio filo con la mafia catanese e in particolare con il boss Nitto Santapaola. Nell'inchiesta, Fava riportò anche l'intervista del generale Carlo Alberto dalla Chiesa a Giorgio Bocca su Repubblica, dove lo stesso Generale, ucciso dalla mafia il 3 settembre 1982 a Palermo, accennava ai quattro cavalieri del lavoro: “Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?”. Accusato dell'omicidio fu proprio Nitto Santapaola (latitante dal giugno dello stesso anno), già incriminato per la Strage della circonvallazione di Palermo, dove trovò la morte il boss Alfio Ferlito, insieme ai tre carabinieri della scorta. Da quel dicembre al gennaio 1984 furono pubblicati undici numeri de I Siciliani, con il primo numero ristampato per ben tre volte perché esaurito nel giro di una settimana. Tra le inchieste più rilevanti quelle sui rapporti tra la mafia e la politica, le banche, e le altre criminalità organizzate, a cui si aggiunsero quelle sulla Giustizia e il “Caso Catania”, sullo stanziamento dei missili nucleari nelle Basi Nato siciliane.
Fava venne ucciso la sera del 5 gennaio 1984 da cinque proiettili calibro 7,65, sparati sulla nuca dai sicari di Cosa nostra. Inizialmente, l'omicidio fu etichettato come delitto passionale, sia dalla stampa sia dalla polizia. Si disse che la pistola utilizzata non fosse tra quelle solitamente impiegate in delitti a stampo mafioso. Si iniziò anche a cercare tra le carte de I Siciliani, in cerca di prove: un'altra ipotesi era il movente economico, per le difficoltà in cui versava la rivista.
Persino rappresentanti delle istituzioni, come il sindaco Angelo Munzone, avallarono questa tesi, evitando di organizzare una cerimonia pubblica con la presenza delle cariche cittadine e arrivando persino a dire che la pista mafiosa fosse impossibile in quanto “a Catania la mafia non esiste”. L'onorevole Nino Drago chiese una chiusura rapida delle indagini perché “altrimenti i cavalieri potrebbero decidere di trasferire le loro fabbriche al nord”. In quel clima di polemiche, omertà e depistaggi non fu facile giungere ad una verità. Per l'omicidio sono stati condannati nel 1998 dalla Corte d'Assise di Catania i boss Nitto Santapaola e Aldo Ercolano, considerati i mandanti, e Marcello D'Agata, Francesco Giammuso e Vincenzo Santapaola, come organizzatori ed esecutori dell'omicidio. A portare alla sbarra i cinque imputati furono le dichiarazioni di Maurizio Avola, collaboratore di giustizia che si autoaccusò dell'omicidio, patteggiando sette anni di pena. La Corte d'Appello di Catania confermò poi le condanne all'ergastolo per Santapaola e Ercolano, mentre assolse D'Agata, Giammuso e Vincenzo Santapaola: sentenza diventata definitiva nel 2003. "Fava non era controllabile" Maurizio Avola ha parlato così, attraverso il suo avvocato, in un'intervista al quotidiano "La Repubblica". "Con la stampa si andava d'amore e d'accordo e qualche 'incomprensione' giornalistica da allora si risolse senza bisogno di minacce. Fava invece non era più controllabile. Il Giornale del Sud che dirigeva in precedenza era del cavaliere Gaetano Graci, ma 'I Siciliani' era del tutto indipendente e schierato contro gli interessi di Costanzo e degli altri che controllavano appalti miliardari. Uccidendolo, Cosa nostra ha tutelato anche i propri interessi economici". Avola, dopo 31 anni, ha spiegato che "l'omicidio Fava è servito allo scopo della mafia e dei Cavalieri" di cui "Fava aveva scritto molto, parlando, in particolare, della mafia dai colletti bianchi".

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VIDEO Nel dicembre 1983 Fava rilascia la sua ultima intervista a Enzo Biagi. Parla di mafia, di Sicilia, di politica





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