Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

l43 aylan mediumdi Massimo Del Papa
Era l'estate che declinava, era il 3 di settembre quando il mondo si vergognò davanti alla fotografia di un piccolo profugo senza vita sulla spiaggia turca di Bodrum.
E ancora non si sapeva che anche il suo fratellino di cinque anni aveva subito la stessa sorte, insieme alla mamma. Si vergognava il mondo e promise a se stesso: mai più bambini spiaggiati, mai più fotografie come questa. Le foto sono finite, i bambini hanno continuato ad affogare e a spiaggiarsi, ogni giorno, ogni notte. E noi non siamo più “tutti Aylan”.
E questo è un Natale negato, rinnegato perché dobbiamo sapere, perché non possiamo non sapere che quest'anno sono già troppi. Uno è già troppo, ma sono più di 700 gli Aylan senza nome, senza storia. Senza foto.

Un milione di disgraziati alla deriva. Più di un milione di disgraziati alla deriva, più di tremilasettecento non ce l'hanno fatta, più di mille barconi soccorsi, più di 700 bambini perduti: altri tre s'arrendevano al mare proprio mentre, il 23 dicembre, Unicef, Fondazione Migrantes, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni diffondevano le loro allucinanti cifre.
Poche ore dopo, altri cinque, tra di loro un neonato, s'inabissavano nell'Egeo.
Settecento, anche più, fanno due bambini al giorno. E questo è un Natale offeso, perché le foto sono finite e il nostro sentimentalismo morale pure. Certo, non è colpa nostra, non c'è un colpevole preciso, ci sono dinamiche perverse, contorte, contraddittorie e maledette, ci sono i nostri anatemi e le nostre illusioni, i nostri sensi di colpa storici, sentimentali anch'essi.
Ma non si può credere che questo piccolo Olocausto, che piccolo non è, non lo si riesca ad arginare; e invece cresce, mentre sempre più Paesi diffidano, ovvero, detta come va detta, se ne fottono.
Certi alzano barriere, muri di cemento e di gomma, e sono, vedi caso, quelli del Nord Europa, della socialdemocrazia virtuosa, quelli che rispettano tutto e tutti e stanno attenti all'ambiente e alle parole e ad ogni diversità, quelli del welfare scintillante che alla prima occasione si è rivelato per quello che era: egoismo, chiusura entro le mura.
Certi levano perfino fili spinati di rifiuti, e pure son di quelli, come la Macedonia, che hanno lasciato tanti suoi figli sparpagliarsi in Europa cercando improbabile fortuna.
Intanto l'Europa sta a guardare. L'Europa, come le stelle, sta a guardare. Le sue stelle sulla bandiera assistono impassibili allo spettacolo impossibile, eppure così reale, dei bambini che annegano, scaricati a riva da risacche crudeli.
Partoriscono, le burocrazie di vetro, progetti, programmi, missioni ai quali ogni tanto cambiano nome, ma che non partono mai davvero. L'Italia abbandonata se la cava all'italiana, con una gestione patetica e disperata della disperazione, generosamente tamponando una emergenza che comunque è per definizione chiudere la stalla a buoi scappati, anzi è proprio arginare il mare con le mani. Un mare di disgraziati. Un mare di bambini. Un mare che affoga nel mare, ma le foto sono finite e di quei bambini a nessuno importa davvero: neppure - per esperienza diretta - nelle scuole: lo sapete che altri come voi, appena più piccoli, spariscono nel Mediterraneo? In risposta sguardi vacui, risatine, apatia da smartphone.
Una festività amputata. E questo è un Natale amputato, se solo ci pensi a quei corpicini che vanno sotto senza neanche urlare, anestetizzati dal freddo. Ti vergogni anche se non hai colpa. Ti mortifichi allo spettacolo della tragedia, con il tuo tirare avanti, il tuo festeggiare comunque, perché si deve, perché almeno oggi fatemi respirare, perché anche noi i nostri guai, tra vizi da basso impero e lavoro che muore, risparmi evaporati e famiglie che però debbono mangiare, tasse e bollette e vita insanguinata che ancora non cancella il nostro disperato voler vivere, il nostro non potere esistere un Natale dopo l'altro, anche se non ci capiamo niente.
Ma quei bambini l'ultimo respiro lo esalano con la bocca piena di mare. E tra la Scilla dell'impotenza e la Cariddi dell'indifferenza, non siamo più Aylan, non abbiamo più foto per commuoverci e se scomodiamo il cuore è per addentare un panettone in uno spot. Ma non è necessario essere fanatici o allergici al presepe per capire che quel Bambinello oggi più che mai è un simbolo senza religioni, che forse davvero servirebbe un presepe senza Bambino nella mangiatoia: inghiottito dal mare, mentre l'asino e il bue aspettano.
Tanti, tanti anni fa, nessuno sa precisamente quando, un compositore sconvolto e arrabbiato, Abel Meeropol, scrisse un brano terribile che nel 1939 fece la fortuna di Billie Holiday (della quale cadeva quest'anno il centenario): nessuno come lei, nessuno a parte lei poteva cantare Strange Fruit, quegli strani frutti, i cadaveri dei neri appesi agli alberi del razzismo.
Forse, questo Natale ci vorrebbe un altro Meeropol che scrivesse di Strani Pesci, quei piccoli in scarpe da tennis che non sanno nuotare, affogati o spiaggiati cuccioli d'uomo che agli uomini non interessano più.

Tratto da: lettera43.it

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos