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di Miriam Cuccu

La conferenza a Salemi sulle protezioni della "primula rossa" trapanese


"La convinzione che con l'arresto Messina Denaro la mafia sia finita è una pia illusione, uno degli errori più pacchiani che si possano commettere". Ne è convinto il magistrato Teresa Principato, le cui indagini si concentrano sulla cattura del boss di Castelvetrano, latitante dal 1993. Perché c'è qualcosa che va "al di là di Messina Denaro e delle sue indubbie protezioni" delle quali si è parlato ieri alla conferenza "Chi protegge Matteo Messina Denaro?" organizzata a Salemi dall'associazione Libera, su impulso dell'imprenditrice antiracket Elena Ferraro, in collaborazione con l'assessorato alle politiche giovanili di Salemi e moderata da Lorenzo Baldo, vicedirettore di Antimafia Duemila, che ha ribadito come sulla latitanza dorata della "primula rossa" trapanese ci siano ancora "ruoli da approfondire". "Spero che avremo modo di tornare appositamente nelle scuole con questi argomenti" ha commentato il sindaco di Salemi Domenico Venuti.

All'indomani dell'operazione antimafia del 3 agosto scorso che ha portato all'arresto di 11 fedelissimi fiancheggiatori di Messina Denaro la dottoressa  Principato aveva dichiarato: “Nonostante il territorio sia più che sorvegliato e da anni si susseguono operazioni, ancora non siamo riusciti a prendere il latitante. Questo può significare solo che gode di protezioni ad alto livello”. “Ma quel livello 'alto' quanto coinvolge i pezzi 'deviati' del nostro Stato?”, ha chiesto Baldo. Il punto, secondo la Principato, sta nel fatto che in Italia, diversamente dagli altri paesi europei "la storia della criminalità è inestricabilmente legata a quella nazionale", caratterizzandosi come "espressione della criminalità del potere". Un sistema di "illegalità di massa che coinvolge ampi settori della classe dirigente e della borghesia", per non parlare "della massoneria deviata", di cui la provincia di Trapani vanta una lunga tradizione. Proprio per questo il magistrato ha parlato di "borghesia mafiosa" in quanto, ha aggiunto, "il grave problema dell'illegalità riguarda anche i soggetti acculturati della classe dirigente, soggetti scolarizzati e pienamente integrati nella società civile" sommati alle "sacche di emarginazione e sottosviluppo culturale". E questo, ha proseguito la Principato, "riguarda anche la componente cattolica, espressa per un verso da uomini come padre Puglisi o don Luigi Ciotti (presidente di Libera e tra i relatori della conferenza, ndr) e per l'altro da sacerdoti che a volte provengono dagli stessi ambienti mafiosi che dovrebbero redimere. Ricordiamoci che i mafiosi sono sempre stati ferventi cattolici che chiedevano perdono a Dio per i propri omicidi, ma il problema - ha puntualizzato - è il rapporto che l'uomo stabilisce con Dio, che è mediato dalla propria cultura". Proprio perché il problema è anche culturale il pm ha evidenziato l'importanza dell'educazione alla legalità: "Il corpo sociale e l'apparato politico lanciano segnali contraddittori perchè predicano la legalità ma tollerano l'illegalità. Gli effetti di messaggi e stimoli contraddittori sono dirompenti per la strutturazione dell'identità, può portare alla creazione di personalità insicure e fragili, ambivalenti, aprire a crisi d'identità che possono portare a meccanismi di omologazione comportamentale, per esempio nell'imprenditoria". 




Tra gli imprenditori, però, se ne scoprono alcuni che della loro professione ne hanno fatto un punto di partenza per scegliere con coraggio e onestà di denunciare la mafia. E' il caso di Elena Ferraro, imprenditrice di Castelvetrano, in passato oggetto di intimidazioni per aver denunciato il tentativo di estorsione da parte di un cugino di Matteo Messina Denaro: "Ho solo compiuto una normale scelta di legalità, ho fatto il mio dovere e nient'altro - ha dichiarato l'imprenditrice - ora la mia vita è più bella perché ho avuto la possibilità di andare nelle scuole, di raccontare ai ragazzi che si può dire di no e ci si può ribellare al malaffare, perché ho avuto fiducia nelle forze di polizia e nelle istituzioni e non sono mai rimasta sola".
"Messina Denaro rappresenta un problema, ma non è il problema
- ha riflettuto Salvatore Inguì, coordinatore di Libera Trapani - la vera questione è se noi riusciamo a togliere quell'humus dentro cui pesca l'organizzazione mafiosa, che è fatto di mentalità". Recentemente, ha denunciato Inguì, "si tende a puntare il dito contro quelle persone e associazioni che in vario modo sono impegnate, questo è un paradosso e costituisce un modo per proteggere Messina Denaro o ciò che lo rappresenta". Non c'è dubbio, ha proseguito il coordinatore di Libera Trapani, "che anche sul carrozzone dell'antimafia parolaia ci salgano persone che hanno interesse a fare carriera politica, ma accanto ai singoli episodi ed alle malefatte reali non si può non pensare alle migliaia di giovani, uomini e donne impegnati quotidianamente per modificare quella cultura che farà si che un domani, decapitato il Messina Denaro di turno, non ce ne sia un altro". "Vogliamo che la società sia più attenta - ha quindi affermato Nicola Mezzapelle, portavoce dell'Associazione Peppino Impastato - anche quando si vogliono fare tagli alla sanità e alle scuole, e aumentare le spese militari. Come diceva Mauro Rostagno, creiamo tutti insieme una società per cui valga la pena trovare un posto".

Sulla rete di coperture che ruota attorno a Messina Denaro, è intervenuto il giornalista Rino Giacalone che ha ribadito come "ci sono sentenze già scritte che riguardano il 'cerchio magico' del senatore Antonio D'Alì, ci sono le condanne di imprenditori, sequestri e confische”. Giacalone ha evidenziato che sicuramente si consacreranno nuove responsabilità giudiziarie nei confronti dei fiancheggiatori del superlatitante di Cosa Nostra ma che queste "verranno attribuite senza il plauso della società civile, perché continuano a passare altri messaggi e penso che ci sia un sistema che protegge Messina Denaro". "Nel 1980 - ha continuato - il presidente della Commissione antimafia Violante diceva che alla mafia organizzata bisognava rispondere con un istituto organizzato. Nel 2015 non è cambiato nulla e siamo costretti a spiegare ai ragazzi che difendiamo una legalità in nome della quale bisogna interrompere le intercettazioni dopo tre mesi, o non si possono raccontare i processi fino a quando non diventano definitivi. Sono convinto che la mafia non ha vinto, ma stiamo disputando una partita dove lo Stato è in vantaggio, la mafia tenta di infiltrare i suoi giocatori in squadra avversaria e questo Stato sta calando le difese. Oggi noi giornalisti dobbiamo raccontare un'altra volta la mafia - ha aggiunto Giacalone - non si tratta più di ammazzatine varie ma della mafia del terzo livello. Devo ringraziare Libera e don Ciotti, perché oggi posso scrivere quello che scrivo ed esercito il mio ruolo di libertà".


“Restano ancora tanti buchi neri attorno a Matteo Messina Denaro - ha sottolineato Baldo prima di leggere uno stralcio della lettera aperta al superlatitante scritta da Nicola Biondo -. Uno su tutti riguarda il ruolo dei servizi segreti nello scambio di pizzini tra lo stesso Messina Denaro e l'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, per non parlare delle dichiarazioni del m.llo Masi e del luogotenente Fiducia”, come è noto i due hanno denunciato di essere stati ostacolati dai propri superiori dell'Arma nella cattura di Messina Denaro. E su questo si deve ancora fare luce.
"Siamo noi che proteggiamo Messina Denaro e i suoi parenti quando diventiamo cittadini a intermittenza, quando il nostro cambiamento e la presa di coscienza non sono sostanziali -  ha esordito don Luigi Ciotti - ci hanno rubato la parola antimafia, che è diventata una carta d'identità, quella che predica in pubblico la legalità e che la calpesta in privato, che dalla mafia ha preso l'ambiguità, la capacità di tessere relazioni, di influenzare e alludere senza dover spiegare. Ci hanno rubato anche la parola legalità. La giustizia non venga confusa con la legalità, che resta lo strumento al servizio della giustizia e la via che ci aiuta a costruire una maggior coesione con il mondo dei valori, mentre ormai è una bandiera che tutti usano". "C'è una mafiosità diffusa - ha continuato don Ciotti - che credo sia il vero patrimonio delle mafie, prima ancora di quello economico, e credo sia necessaria una politica libera dalle complicità e dalle cricche, che sia veramente al servizio del bene comune". Anche per questo, ha sottolineato ancora, "c'è bisogno di prendere più coscienza e di metterci in gioco tutti. Io spenderò tutta la mia vita, fino all'ultimo respiro, con le mie fatiche e i miei limiti perchè chiunque possa tutelare la propria verità".

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