di Sara Donatelli
“Noi amiamo il camaleonte. Cambia colore a seconda di dove si trova, ma resta sempre lo stesso sotto la pelle-corazza. Noi amiamo anche l’anticamaleonte, che non cambia colore mai alla pelle-corazza, ma cambia interamente sotto, dentro. Noi amiamo soprattutto il NON- camaleonte. Quello che a un certo punto si rompe e getta la corazza”.
Mauro Rostagno
Sociologo, leader del movimento studentesco, fondatore di Lotta Continua, animatore di Macondo, seguace del verbo del Maestro Bhagwan Rajnesh, fondatore dell’Associazione Saman, giornalista e direttore operativo dei servizi d’informazione dell’emittente televisiva trapanese RTC. Sono queste le tante sfumature di Mauro Rostagno, l’uomo “ca varva niura” vestito di bianco. In questo articolo cercheremo di raccontare non la vittima di mafia, ma il compagno nel sogno e il suo lavoro “sulla bellezza dell’universo”.
La sua vita
Mauro Rostagno nasce a Torino il 6 marzo 1942. Iscrittosi alla neonata facoltà di Sociologia, a Trento, diventa ben presto uno dei leader di punta del movimento degli studenti attivi e fonda, nel 1969, “Lotta Continua”, insieme ad Adriano Sofri, Guido Viale, Marco Boato, Giorgio Pietrostefani, Paolo Brogi, Enrico Deaglio. Laureatosi con il massimo dei voti e la lode, Mauro decide di trasferirsi a Palermo con la compagna, Chicca Roveri. Qui, a Palermo, nasce Maddalena, la figlia. Qui, a Palermo, conosce Peppino Impastato, il quale descriverà l’incontro con Mauro come un “episodio centrale” della sua vita.
“Tre anni in Sicilia sono lunghi e belli. Mi piace la politica, i siciliani, le siciliane, lo Scirocco. Con Chicca facciamo un figlio. Nasce e cresce Maddalena. Mi piace l’odore della zagara e quello del gelsomino, i tramonti, le albe, il pesante vino e il lieto “marocchino”, il mare di Sicilia”.
Dopo questi primi anni in Sicilia, Mauro Rostagno torna a Milano e il 29 ottobre del 1977 nasce Macondo, centro culturale al quale dedicherà molto del suo tempo, e del suo amore. Dopo pochi mesi però, lui e gli altri dodici fondatori di Macondo vengono arrestati e condannati per “aver adibito il circolo all’uso di sostanze stupefacenti che venivano distribuite anche a giovani di età minore”. In questo periodo, molti si schiereranno dalla sua parte, come ad esempio Dario Fo e Franca Rame (“contro ridicola montatura e per vostra scarcerazione ci stiamo battendo”) ed anche Wanda Osiris (“A Mauro che non soffre il freddo delle stagioni, ma quello delle persone. A Mauro, che voglio libero subito”). Dopo questa intensa parentesi, Mauro cambia vita. Mauro non c’è più, diventa Sanatano. Diventa Eterna Beatitudine, vivendo anni importanti a Poona, in India, insieme a Chicca e Maddalena. Mauro e Chicca scelgono però, dopo qualche anni, di fare ritorno in Italia e di fondare, insieme a Francesco Cardella, una comunità di arancioni a Lenzi, divenuta successivamente una comunità terapeutica che si occupa del recupero di persone tossicodipendenti. Proprio qui, a Trapani, inizia a lavorare come giornalista e conduttore per l'emittente televisiva locale RTC, avvalendosi spesso della collaborazione di alcuni ragazzi della comunità Saman.
Una voce alta, nel silenzio di Trapani
Mauro Rostagno mostra (e dimostra) fin da subito un modo di essere contro la mafia più profondo: un modo che consiste nella capacità di avvicinare la gente comune a valori come quelli della legalità, della trasparenza, dell’onestà. Rivolge la sua attenzione lucida, vigile, critica e soprattutto ben documentata, alla politica locale, incapace di anteporre la cura del bene comune alle beghe di potere. Parla quotidianamente di malaffare, corruzione e di quelle che lui stesso definisce con una punta di disprezzo irridente “concussioni di provincia”: “Emerge una sottocultura che è la sottocultura del malcostume e della cattiva amministrazione, dominata da una cultura dell’appartenenza. Qui non conta più se uno è bravo o non è bravo, se è pulito o ha le mani sporche, se è intelligente o se è cretino, se è uno che sa fare il suo mestiere o è un ignorante della più bell’acqua. Ma quello che conta è l’appartenenza: si iddu m’apparteni o non m’apparteni. Se tu fai parte della mia casta, della tribù, della mia corrente, allora la cosa vale. Se invece non ne fai parte, non sei nessuno. Fuori fa freddo, però io apro la finestra: pfuu, sputo e richiudo. E fuori deve stare, perché quello che conta è l’appartenenza. Il degrado dell’appartenenza è il clientelismo politico”. E’ tanta la passione civile che si sprigiona da ciascuno dei redazionali o dei servizi firmati da Rostagno. Mauro riesce, con il suo linguaggio sempre schietto e diretto, a far comprendere alla gente come determinati valori siano parte integrante del vivere quotidiano, ma anche come l’ignorarli o il calpestarli abbia ricadute immediate sulla qualità della vita e sulle condizioni di vivibilità della città. Anche quando prende di mira “il Palazzo”, la corruzione e il malaffare diffusi tra politici, amministratori e burocrati, lo fa gettando lo sguardo oltre la semplice notizia di cronaca.
La droga è leggera, ma la storia è pesante
“La lotta alla droga è lotta alla mafia. Pesante o leggera, la droga è sempre una storia pesante. Lo è per chi subisce, e cioè per i giovani resi schiavi dalla dipendenza della droga e spesso portati a delinquere per procurarsi denaro, o spacciare a loro volta per avere di che procurarsi la propria dose. Ma lo è soprattutto perché sullo sfondo dei giri di piccolo spaccio c’è l’organizzazione mafiosa, Cosa Nostra, che opera su scala internazionale”. Questa è, in estrema sintesi, il filo conduttore dei ragionamenti a voce alta di Mauro Rostagno su uno dei temi più ricorrenti del suo repertorio quale opinionista e direttore editoriale della piccola emittente televisiva trapanese. Rostagno ammonisce che “la lotta alla tossicodipendenza, la lotta alla droga e dunque la lotta alla mafia, è uno dei punti fondamentali e cardine di una battaglia di civiltà nella nostra isola, nella nostra nazione e dappertutto, specialmente in questa epoca che è afflitta letteralmente da questo morbo sociale”. L’equazione lotta alla droga=lotta alla mafia torna spesso nei suoi redazionali. Non solo, ad esempio, in quello del 23 maggio 1988: “Mentre i politici sono affaccendati in queste loro meravigliose cose, cioè l’accaparramento delle poltrone, intanto in provincia è il disastro, non soltanto per quanto riguarda la situazione della carenza idrica e di altre cose, ma in particolare la situazione della droga. Bisogna avere polso fermo e occorre che i giovani vengano risvegliati a piena consapevolezza, perché diversamente la storia si farebbe pericolosa”, ma anche il suo ultimo redazionale, quello pronunciato pochi minuti prima di morire, verte proprio sul problema della droga: “La legislazione in Italia in materia di stupefacenti è stata fatta quando il fenomeno era appena agli inizi, adesso la cosa è dilagata, la preoccupazione è generale fra i cittadini, molto meno fra i politici che naturalmente tengono per la capa altre questioni”. Rostagno non è a favore di una liberalizzazione indiscriminata, ma neppure per una repressione spinta fino a criminalizzarne il consumo, o ad adottare metodi punitivi nei confronti del tossicodipendente, che è, nella sua visione, prima di tutto una persona che soffre e che ha bisogno di aiuto. Memorabile rimane, in tal senso l’intervista che Mauro rilascia a Claudio Fava per la rivista King: “Noi non siamo contro la droga o contro l’alcolismo. Noi non siamo contro nulla. Se tu ti fai, e sei contento, non ho niente da dirti. Se invece vieni qui e mi dici: guarda, mi sono rotto i coglioni, è una vita di merda, non ne posso più, mi dai una mano a uscire dall’eroina? Allora io ti aiuto. Non starò mai a controllare se quando esci ti fai o no. E’ una differenza importante rispetto alle altre comunità: qui non siamo in caserma. E il risultato è che i ragazzi tornano sempre. Perché la comunità Saman è strutturalmente antimafiosa, perché fondata su un patto tra uomini liberi”.
Mauro e la questione morale
“Bisogna continuare a percepire con estrema rigidità l’acutezza della questione morale. I signori della politica devono rendersi conto che non è situazione secondaria, che gli elementi di corruzione, mafia, potere occulto e intrighi hanno portato il nostro capoluogo ad essere azzerato per quanto riguarda l’acqua, ad avere un cattivo servizio per la raccolta dei rifiuti urbani, avere un disastroso servizio sanitario, avere una particolare disattenzione ai problemi dell’assistenza sociale, i problemi della diffusione della droga, dei giovani in mezzo alle strade, dei punti di raccolta, dello sfascio del verde, della bellezza della nostra isola e una decadenza complessiva, un degrado sociale politico e morale”. La corruzione e il malaffare sono temi onnipresenti nelle riflessioni di Mauro Rostagno il quale, utilizzando spesso anche l’arma di una tagliente ironia, lamenta una politica ripiegata su se stessa, parla dell’incapacità dei partiti di trovare un’intesa, racconta la degenerazione del confronto politico a rissa tra tribù, in cui a dominare è la logica “degli affari per gli affari” e non certo l’interesse per il bene comune. “E’ diritto degli uomini, quello di abitare in un posto in cui si riconoscono, per difendere la qualità e la vivibilità della vita. Per questo poniamo sul terreno le questioni della qualità della vita, come l’acqua, la munnizza, la disoccupazione e il diritto della gente ad avere dei posti, degli spazi verdi dove far crescere bene sé stessi e i propri figli. Vorremmo rivolgere un invito specifico ai politici e agli amministratori: fate bene il vostro dovere, fatelo bene e in fretta. Si rischia una mancanza di credibilità troppo forte per essere tollerata, Qui in Sicilia, a Trapani, l’ultima e la più lontana delle province del nostro Paese, questa cosa è decisamente intollerabile”. Sono costanti gli appelli alla mobilitazione civile e ad un rinnovato impegno di cittadinanza e non è un caso che l’immagine che Rostagno evoca per designare la malapianta che inquina la vita politico-istituzionale sia quella della piovra, solitamente associata alla conformazione tentacolare tipica delle organizzazioni mafiose. La piovra, ma una piovra che Rostagno vede alle corde sotto i colpi dell’azione repressiva della magistratura e delle forze dell’ordine: “Quello che sta iniziando nel nostro capoluogo è un’operazione di pulizia, un’operazione di scoperchiamento delle pentole, un’operazione in cui si sollevano i sassi e si guarda se sotto ci sono i vermi”. E ancora una volta si appella alla coscienza civile con un costante richiamo ai trapanesi onesti affinchè possano scuotersi dal loro torpore e unirsi a lui in una rinnovata fiducia nell’operato della magistratura e delle forze dell’ordine: “Noi rivolgiamo un pressante invito ai cittadini. Sentano che la città è loro, sentano che loro è il territorio. Facciano bella mostra di sé e insegnino ai politici come si deve governare. Il popolo trapanese sia protagonista di questa riscossa e di questo cambiamento di pagina. Cominciamo a mostrare noi per primi che teniamo puliti noi stessi, la nostra casa e le nostre strade perché dopo loro, cioè gli eletti, tengano pulite le amministrazioni. In modo che non si riproponga lo scrocco dei voti, il clientelismo, il malaffare e la gestione personalistica per cui va a finire il denaro pubblico nel tasche dei privati”. Appelli inusuali e persino eversivi in una realtà come quella trapanese, perché dichiaratamente rivolti a infrangere il muro dell’omertà, andando così a colpire al cuore uno dei pilastri del potere mafioso, che fonda la propria capacità di influenza e soprattutto la propria impunità sulle connivenze e sull’assoggettamento della comunità. Rostagno squarcia il silenzio, parla di mafia. E lo fa senza veli e senza mezzi termini. Lo fa sfidando e scuotendo un’opinione pubblica anestetizzata da un pensiero dominante che, o nega l’esistenza della mafia a Trapani, o vuole che se ne parli il meno possibile per non screditare l’immagine della città. “Oggi la lotta alla mafia è più semplicemente una lotta per il diritto alla vita. La mafia è sopravvivere, l’antimafia è vivere. Anzitutto c’è la denunzia: il degrado politico, la partitocrazia, la corruzione, le solite cose. Poi c’è la scelta di non fare televisione seduti dietro a una scrivania, proiettati in mezzo alla gente, con un microfono in pugno, mentre i fatti succedono. Sociologicamente si chiama primato dell’esistenziale sul teorico. E già questo, a Trapani. È profondamente antimafioso”. Entra ogni giorno nelle case dei trapanesi e a loro si rivolge parlando non della mafia come entità astratta e anonima, ma del mafioso della porta accanto, dando sempre un nome e spesso un volto ai mafiosi di cui parla. Non nasconde come questo modo di porsi sia in sé una sfida rischiosa, ma se ci si accontenta di sopravvivere “allora decidi di non rischiare, di non sfidare il vento. Ti poti, diventi un alberello tranquillo, tranquillo, pochi rami, poche foglie. Appena l’indispensabile. Oppure te ne fotti, Cresci e ti allarghi. Vivi. Rischi.” E rischiare a Trapani ha un significato bene preciso: “sfidi la mafia, che è una forma di contenimento, di mortificazione. La mafia ti umilia: calati junco che passa la piena, dicono da queste parti. Ecco, la mafia è negazione di una parola un po’ borghese: la dignità dell’uomo. Io voglio avere la possibilità di guardare una persona negli occhi e dirgli di sì o di no con la stessa intensità. E questo lo mafia non lo consente”.
Non bisogna dunque sorprendersi se nelle motivazioni della sentenza, leggiamo : “E’ vero per fortuna che non tutti i giornalisti che si occupano di criminalità organizzata sono stati ammazzati. Ma quanti sono quelli che, al pari di Rostagno, di questo prezioso lavoro di informazione e sensibilizzazione fanno (o facevano) un impegno quotidiano?”
Una camurrìa
La voce del giornalista è diventata ormai troppo insidiosa per la sicurezza degli affari illeciti e per le trame collusive delle cosche mafiose con altri ambienti di potere. Mauro Rostagno è diventato una camurria, soprattutto dopo aver scoperto strani traffici a ridosso della pista di un vecchio aeroporto militare ufficialmente in disuso alle porte di Trapani. Nelle motivazioni della sentenza, si legge addirittura che “quei sordidi legami, per quanto non direttamente afferenti al movente del delitto, abbiano avuto l’effetto di incoraggiare i vertici dell’organizzazione mafiosa ad agire, nella ragionevole convinzione di poter contare, una volta commesso il delitto, su una rete di protezioni e connivenze pronta a scattare in caso di necessità”. Mai si è visto a Trapani uno scassaminchia così. Troppo fastidiosa la sua opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui temi dalla dignità delle istituzioni e dei cittadini. Troppo profondo e acuto il suo sforzo di studio del fenomeno mafioso. Troppo pericolose le sue inchieste giornalistiche volte a varcare la soglia di autentici santuari del potere locale (come la rete di circuiti massonici che fa capo al Centro Studi “Antonio Scontrino”). Troppo grande il timore che da questo suo modo di fare giornalismo possano partire precisi imput per inchieste giudiziarie. Tutto troppo grande per gli ominicchi d’onore trapanesi, impegnati a tessere una fitta rete di relazioni pericolose con alcuni esponenti dei Servizi. Relazioni, queste, che servono anche ad offrire copertura a traffici indicibili che coinvolgono pezzi di apparati militari e di sicurezza dello Stato.
Lo scassaminchia deve morire
Esiste a Trapani, negli anni Ottana, un gruppo criminale capace di mettere in campo un considerevole dispiegamento di uomini e mezzi per commettere un delitto. Un gruppo che vanta una conoscenza perfetta dello stato dei luoghi e che detiene un controllo pieno del territorio. Un gruppo che possiede una tecnica di esecuzione omicidiaria di sperimentata efficacia e che può contare su uomini in grado di agire con fredda determinazione e in possesso di non comuni doti di esperienza, precisione e abilità di tiro. Si tratta della cosca mafiosa operante agli ordini del capo mandamento di Trapani, Vincenzo Virga. Tante sono le motivazioni per cui Virga vuole fortemente la morte del giornalista: primo fra tutti il rischio che i suoi reportage possano fomentare inchieste giudiziarie sulla gestione degli appalti pubblici, settore nel quale il boss è particolarmente attivo e intraprendente. Rostagno mette il naso nelle collusioni tra amministratori corrotti e politici compiacenti. E va addirittura a toccare gli intoccabili, come ad esempio il politico Francesco Canino, legato a Virga da relazioni d’affari. Eccolo dunque, l’oscuro potere criminale che mette a tacere per sempre chi vuole svelarne i disegni occulti in un appassionato impegno di ricerca della verità e di formazione dell’opinione pubblica. “L’uccisione di una delle menti più lucide e delle personalità più coraggiose del giornalismo siciliano. L’omicidio di Mauro ha rappresentato un vero e proprio attentato contro la libertà di stampa”, scriveranno i giudici nelle motivazioni della sentenza.
Quella sera, quegli spari
Il 26 settembre 1988 Mauro Rostagno muore, all’età di 46 anni, sotto i colpi di un fucile a pompa calibro 12 e una pistola calibro 38, a poche centinaia di metri dalla sede della comunità Saman. Il 29 settembre si tiene il funerale. Il più grande che Trapani abbia mai avuto. Durissime le parole di Monsignor Adragna: “Mafia, tu non sei società, Ma sei contro la società. Siamo tutti stanchi di odio e di violenza. Vogliamo vivere in pace. Vogliamo dire allo Stato e ai partiti maggiori responsabili di queste cose, svegliatevi! Siamo stanchi di chiacchiere. Lo Stato può vincere la mafia, ma occorre la risposta forte e immediata di tutti, nessuno può stare in panchina a guardare”.
Il processo, 26 anni dopo
Vito Mazzara e Vincenzo Virga vengono rinviati a giudizio dal G.U.P del Tribunale di Palermo durante l’udienza preliminare del 18 novembre 2010. Il processo inizia il 2 febbraio del 2011. La sentenza viene pronunciata il 15 maggio del 2014. Mauro è stato ucciso il 26 settembre 1988. Una giustizia lenta, quella italiana. Si sa. Mauro, ucciso dalla mafia. Anche questo si sapeva già. Ma ci sono voluti 26 anni affinché un Tribunale Italiano emettesse una sentenza di condanna nei confronti del mandante e dell’esecutore materiale del delitto. 26 anni senza Mauro, senza le sue domande scomode e le sue scomode inchieste. Una Trapani privata di quell’uomo che con un microfono gira per la città, facendo domande sulla gestione dei rifiuti e delle gare d’appalto. Intervistando politici e gente comune. Oggi, finalmente, troviamo scritto nero su bianco le motivazioni che portarono all’omicidio di Mauro Rostagno. Sappiamo che Vincenzo Virga e Vito Mazzara sono stati condannati. Sappiamo che tanti furono i depistaggi e le omissioni durante le indagini. Sappiamo che chi sapeva non ha parlato, chi poteva scoprire non ha indagato. Sappiamo di occhi chiusi, di spalle voltate dall’altra parte, di persone innocenti sbattute in carcere. Sappiamo di accuse infondate, di piste investigative che nulla avevano a che fare con la morte di Rostagno. Sappiamo di appartenenti alle forze dell’ordine che non hanno svolto il proprio lavoro in maniera corretta. Più di 3000 pagine in cui si racconta di Mauro, del suo lavoro, delle sue inchieste, delle sue scoperte. Più di 3000 pagine in cui è possibile comprendere come la verità poteva essere scoperta tanti, ma tanti anni fa. Ed invece sono passati 26 anni.
L’inconsistenza delle piste alternative: da quella politica a quella della droga
Grazie al processo emerge finalmente l’inconsistenza delle piste alternative, prima fra tutte quella politica. Fino al 1996, infatti si ipotizza che a decidere l’eliminazione di Rostagno siano stati i suoi ex compagni di Lotta Continua con l’intento di impedirgli di rivelare ai magistrati che conducono l’inchiesta, quanto a sua conoscenza sui responsabili del delitto. Poco tempo prima di essere ucciso, Mauro Rostagno riceve infatti una comunicazione giudiziaria: è indagato per l’omicidio del Commissario Calabresi. Vuole essere interrogato al più presto dai magistrati sia per chiarire la propria posizione, sia per spiegare l’assurdità dell’accusa anche nei riguardi degli altri ex dirigenti di Lotta Continua, inclusi gli arrestati. Non solo, vige in lui il sospetto che il tutto sia frutto di una macchinazione riconducibile ad alcuni settori dell’Arma dei Carabinieri. La mattina del 19 agosto Mauro Rostagno e Roberto Morini indirizzano all’ANSA un comunicato nel quale commentano la notizia (ormai di dominio pubblico) del loro coinvolgimento nell’inchiesta con un tono fermo e pacato: “L’arresto di Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani e di Adriano Sofri ci ha riportato indietro nel tempo quando era ricorrente la voce che qualcuno volesse mettere fuori legge Lotta Continua, ma l’ironia vuole che ci mettano fuori legge proprio quando non esistiamo più. Tocca a questo punto a chi ci ha tirati in ballo dirci perché lo ha fatto, raccontare a noi e all’opinione pubblica quale contorto ragionamento lo ha portato a decidere che abbiamo qualcosa a che vedere con questa storia”. Anche nel suo redazionale commenta la notizia, non rinunciando ad un pizzico di ironia: “Ho continuato a svolgere con serenità e con tranquillità il mio lavoro normale, sia nella comunità terapeutica dove vivo e trascorro le mie giornate, sia qui in RTC, alla televisione, insieme con le persone che collaborano con me. Devo dire che la mia serenità non è stata incrinata, ma sarebbe anche fuori luogo dire che non sono stato colpito. Continuerò a svolgere il mio lavoro, in attesa che i giudici vorranno convocarmi per spiegarmi per quali motivi hanno ritenuto loro dovere coinvolgermi in questa inchiesta, che non è sicuramente cosa carina. Il che suscita in me una certa curiosità non solo giornalistica e professionale, ma anche, perché no, una curiosità privata e personale. Curiosità che, non appena sarà soddisfatta, sarà di dominio pubblico perché non voglio perdermi l’occasione e non voglio farla perdere a nessuno, di veder in concreto come funziona la giustizia italiana e, perché no, come funziona la stampa, la televisione, i mezzi di informazione”. Nel redazionale del 26 agosto torna sull’argomento: “Ma visto che sono imputato vorrei anche essere sentito. Non ho fretta, con tutti i comodi del giudice Istruttore, del dottor Pomarici, come ho detto prima hanno diritto anche loro alle ferie e ne ho diritto anch’io. Qualcuno però avrà avuto i suoi motivi per tirarmi dentro questa sporca vicenda. Io ho tutto il diritto di sapere chi, come, quando, perché e per quali motivi e su quale base, poffarbacco! Ho anche il diritto di venirne fuori, con totale restituzione del mio onore e anche dell’onore di Lotta Continua, vicenda che se pure lontana e passata, è una fetta della mia vita a cui non ho nessuna intenzione di rinunciare, perché è una cosa bella, positiva e a cui sono felicemente attaccato”. La pista della droga ipotizza invece che il movente sia da ricondursi ad una vendetta di balordi dediti allo spaccio di stupefacenti i quali, visti a viso scoperto da Rostagno, ne avrebbero in tutta fretta deciso l’eliminazione. Anche questa, però, si rivela una mera congettura.
La pista mafiosa: una strada imboccata molto tardi
La sottovalutazione della pista mafiosa (o l’improvvida scelta di accantonarla per battere altre piste investigative ritenute più convincenti) sono state le maggiori cause del ritardo con il quale siamo arrivati alla verità sulla morte di Mauro Rostagno. Non si può non parlare della lettura approssimativa, superficiale e fuorviante della scena del crimine e dei primi accertamenti. Proprio sotto questo aspetto si registra, fin dalle prime battute, una netta divergenza tra le valutazioni (e le conseguenti ipotesi investigative) della Squadra Mobile e dei Carabinieri. Questi ultimi pongono l’accento sull’incidente accaduto durante l’esecuzione del delitto, dando per scontato che il fucile sia scoppiato (a riprova del fatto che l’arma sia stata inefficiente o che il delitto sia stato opera di principianti o di mani poco esperte). Ritengono inappropriata la scelta del luogo dell’agguato e glissano totalmente su due elementi ritenuti invece importanti dalla Squadra Mobile: l’impiego di un micidiale revolver cal. 38 in associazione con un fucile semiautomatico cal.12 e l’utilizzo di un’auto rubata in un’altra provincia diversi mesi prima, bruciata dopo l’omicidio e abbandonata in un luogo distante pochi minuti dal luogo del delitto. Alla fine del processo, dieci persone sono state sottoposte a procedimenti per falsa testimonianza, (dalle motivazioni della sentenza è possibile leggere: “sono emersi concreti indizi di reità in ordine al reato di falsa testimonianza, o nella forma del mendacio o in quella della reticenze o in entrambe le configurazioni, avuto riguardo a circostanze "sensibili" per l'accertamento dei fatti per cui si procedeva”). Durante il processo, non a caso, il Pubblico Ministero Gaetano Paci dichiara: “Le prime indagini sull'omicidio di Mauro Rostagno condotte dai carabinieri del Reparto Operativo di Trapani furono scandite da troppe anomalie. In quest'aula abbiamo dovuto inevitabilmente processare certi atteggiamenti delle forze dell'ordine, ma anche di questo Palazzo di Giustizia, e in generale della città di Trapani. Perché troppe sono state le insufficienze investigative, le omissioni, le sottovalutazioni. Ma anche orientamenti di pensiero di taluni rappresentanti istituzionali dell'epoca naturalmente adesivi verso la presenza mafiosa”.
Chicca, la compagna di una vita
“Ci sono dolori e avvenimenti nella vita delle persone che sono incancellabili - ha commentato Chicca Roveri, rispondendo alle nostre domande - La morte di Mauro è questo: un dolore incancellabile, reso ancora più crudele non solo per la mancanza di determinazione da parte di chi doveva indagare per arrivare alla verità, ma anche per la mia chiamata in causa nel suo assassinio. Non dimentichiamo che gli avvocati dei due mafiosi ritenuti colpevoli per la morte di Mauro hanno, in tutti questi anni, abbracciato in pieno (per discolpare i due imputati) le tesi del dr Garofalo, il PM che mi chiamò in causa. Detto ciò, il fatto che in un’aula di un tribunale italiano siano stati finalmente riconosciuti il valore, l’intelligenza, la profondità e la lungimiranza del lavoro svolto da Mauro e dunque la sua grandezza, non può che rendermi serena. Almeno questo, a Mauro, glielo dovevano". La compagna di Rostagno ha poi aggiunto: "So che Mauro è arrivato a fare il giornalista dopo aver vissuto una vita molto ricca e piena di esperienze straordinarie che lo hanno portato ed essere un uomo prima, e un giornalista poi, straordinario. Il senso di giustizia, la comprensione per gli ultimi e i cosiddetti 'sfigati', la ricerca della felicità, mai disgiunta dalla dignità e dal rispetto per gli altri, la passione per la verità sono sempre stati presenti nella sua vita. Trento, Lotta Continua, Macondo, l ‘esperienza in India, Saman sono tutte esperienze incredibili. La morte di Mauro credo sia stata causata proprio da questo: dalla sua capacità e dalla sua voglia di analizzare e approfondire tutto quello in cui si è imbattuto lavorando a RTC. E si è imbattuto in molte cose: mafia, politica corrotta, servizi deviati, massoneria, traffici di droga e di armi. Il funerale di Mauro è stata una grande manifestazione contro la mafia, un grande momento per la città. Credo che, ad oggi, ci sia una parte di Trapani che è riconoscente a Mauro, quella che ascoltava o ascolterebbe i suoi redazionali. Ma esiste anche un’altra parte, ed anch’essa lo ascoltava e lo ascolterebbe. Proprio per questo lo ha voluto morto". Sul risultato ottenuto al processo ha infine concluso: "Che un tribunale abbia riconosciuto la mafia colpevole non lo considero un risultato di serie B. Assolutamente. La mafia non sono quattro bulletti che chiedono il pizzo. Sono ben altro, e ben altrimenti coinvolti e avviluppati con poteri forti, fortissimi. Non posso sapere cosa penserebbe ora Mauro di tutto questo. In troppi si appropriano di lui ed io non voglio farlo. Posso solo dire di aver sopportato tutto questo dolore perché ho avuto la fortuna di vivere 17 anni con lui, di aver condiviso tanti momenti belli e anche brutti, di aver condiviso la sua straordinarietà, ma soprattutto la sua normalità, la quotidianità fatta di tante bellissime e piccole cose. E chi può dire dove sarebbe adesso Mauro. Solo lui”.