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via damelio web3di Lorenzo Baldo
La richiesta di archiviazione di Caltanissetta non scalfisce quel muro (istituzionale) di omertà.
Il mistero resta. Con il rischio che non si giunga mai alla verità sul depistaggio di Stato relativo alle prime indagini sulla strage di via D’Amelio. Sui tre funzionari di polizia Vincenzo Ricciardi, Mario Bo e Salvatore La Barbera ex componenti del pool “Falcone e Borsellino” diretto dall’ex Questore (deceduto) Arnaldo La Barbera rischia quindi di calare definitivamente il sipario.

Fonti scivolose
Nelle 188 pagine della richiesta di archiviazione della Procura di Caltanissetta i principali accusatori: Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Salvatore Candura vengono definiti a tutti gli effetti “fonti estremamente scivolose” sulle quali, quindi, non può poggiare l’atto di accusa nei confronti dei tre funzionari, né tanto meno sul loro capo Arnaldo La Barbera. Su quest’ultimo, però, il procuratore Lari assieme ai sostituti Luciani e Paci mettono nero su bianco la sua affiliazione dall’86 all’88 al Sisde, con il nome in codice “Rutilius”, avvenuta grazie all’interessamento del suo fidato amico del Sisde Luigi De Sena. Resta del tutto singolare che nel periodo di affiliazione “nessun documento sarebbe stato redatto dal dott. La Barbera durante il suo rapporto di collaborazione con il Sisde”. Ma soprattutto La Barbera viene definito un “protagonista assoluto dell’intera attività di depistaggio”.

Quella nota del Sisde
La Procura di Caltanissetta sottolinea inoltre che le “investigazioni condotte” all’epoca “aprono uno squarcio su uno scenario che non pare esagerato definire inquietante”.  Che si materializza nella nota del 13 agosto 1992 acquisita presso l’Aisi, con cui il Centro Sisde di Palermo comunicava alla Direzione del Sisde di Roma “a seguito di ‘contatti informali’ con gli investigatori della Questura di Palermo, anticipazioni sullo sviluppo delle indagini relative alla strage di via D’Amelio circa gli autori del furto della macchina ed il luogo ove la stessa ‘sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato’”. “Non è dato agevolmente comprendere – sottolineano i magistrati – come a quella data, sia pur successiva alle intercettazioni dell’utenza della Valenti (Pietrina Valenti, la proprietaria della fiat 126 destinata alla strage, ndr), gli investigatori avessero acquisito notizie sul luogo dove la vettura rubata era stata custodita”. E su questo punto nessuno degli uomini delle istituzioni successivamente interrogati ha mai fatto luce. A cominciare da Lorenzo Narracci, all’epoca funzionario del Sisde di Palermo, né tanto meno da Luigi De Sena, alto dirigente del Sisde, così come nemmeno dal gen. Andrea Ruggeri, al tempo capo del Centro Sisde di Palermo, il quale “pur ammettendo che la firma apposta sul documento in esame ‘potrebbe essere’ la sua, ha dichiarato di non ricordarne assolutamente il contenuto, escludendo, tuttavia, di poter aver acquisito personalmente le informazioni ivi contenute poiché ‘non vantava all’interno delle strutture investigative territoriali una forza di penetrazione di siffatta portata’, essendo i suoi rapporti con tali strutture, e quindi anche con il dott. Arnaldo La Barbera, ‘meramente formali’”. Per i magistrati nisseni “il totale oblio della vicenda da parte dei diversi protagonisti della stessa dà ovviamente la stura ad una serie di allarmanti ipotesi, posto che, se non altro, il contenuto della suddetta nota rende tangibile come gli investigatori della Questura di Palermo si preparassero - ben prima del comparire sulla scena delle odierne fonti di accusa verso gli appartenenti al Gruppo Falcone-Borsellino - ad una rapida definizione della vicenda il cui prodest costituisce oggetto degli sforzi investigativi che quest’ufficio sta attualmente profondendo”.

Pressing investigativo
“Non può infatti sottacersi – evidenziano gli inquirenti – come l’intera vicenda che ha avuto come epilogo la celebrazione dei primi due processi per la strage di via D’Amelio sia tra le più gravi, se non la più grave in assoluto, della storia giudiziaria di questo Paese. E non può che conseguentemente essere ritenuta grave ed inqualificabile la condotta di quegli investigatori che hanno significativamente contribuito ad allontanare la verità processuale, costruendo un castello di menzogne che ha condotto a risultati che lasciano davvero attoniti”. Nel documento si specifica che con l’odierna richiesta di archiviazione “non significa che si sia maturata la convinzione che soggetti come il Candura, l’Andriotta e lo Scarantino possano essere ragionevolmente riusciti, da soli e senza alcun tipo di ausilio, ad imbastire una trama tanto complessa e, in fin dei conti, risultata convincente in più gradi di giudizio”. I magistrati si dicono convinti che “sulla intrinseca fragilità psicologica di questi soggetti (i falsi pentiti, ndr), si sia innestata la condotta spregiudicata di chi conduceva le indagini e che, attraverso un perverso gioco di allusioni, promesse e, forse, minacce, si sia imbastita una trama funzionale a dare sostanza a certezze nascenti in maniera preconcetta dalla piega originaria”. La procura nissena ritiene quindi “innegabile” che “tutti i protagonisti della vicenda” hanno “subìto un insistente pressing investigativo”. Gli inquirenti constatano amaramente come non sia giunto “alcun contributo utile” da parte di “quegli appartenenti alle Istituzioni che il dott. Borsellino e gli agenti di scorta periti nell’eccidio avevano servito con dedizione e senso del dovere fino all’ultimo giorno”. Vere e proprie reticenze da parte di chi “con ragionevole certezza appare perfettamente a conoscenza del reale svolgimento dei fatti”.

La domanda intatta
Al di là della spiegazione “tecnica” della Procura di Caltanissetta, è altrettanto “innegabile” che un importante interrogativo sollevato su questa indagine resta intatto. Sul frontespizio della richiesta di archiviazione si legge il numero del registro relativo alle notizie di reato “Modello 21”, manca però la dicitura “DDA” corrispondente alla Distrettuale antimafia. Tutto ciò significa che il fascicolo relativo a quello che appare come un depistaggio di Stato, dopo un iniziale avvio in DDA, ha effettivamente seguito un iter “ordinario”?  Se così fosse bisogna dedurre che questo procedimento a carico dei poliziotti indagati per la stessa calunnia contestata a dibattimento, al Borsellino quater (a Scarantino, Andriotta e Candura), ha percorso i binari classici delle investigazioni per i reati più comuni? Vista l’importanza dell’inchiesta l’auspicio reale è quello di essere smentiti. Lo scorso 6 luglio abbiamo pubblicato la notizia dell’interrogazione parlamentare dell’on. Giulia Sarti (M5s) nella quale si chiedeva conto delle indagini sul depistaggio di via D’Amelio dopo diversi anni nei quali non se ne era saputo più nulla. Il giorno 30 di quello stesso mese il Ministro della Giustizia Orlando ha risposto alla Sarti anticipando così la notizia di questa richiesta di archiviazione firmata peraltro quella stessa giornata. A fronte della effettiva “inaudita gravità” dei fatti occorre obbligatoriamente continuare a “scandagliare” su verità scomode. Nel nome delle vittime di queste stragi di Stato, dei loro familiari, e di chiunque ancora creda nel possibile riscatto del nostro disgraziato Paese.

ANTIMAFIADuemila
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