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riccio-tribunale legge ugualedi Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari - 16 aprile 2015
Palermo. Al termine di questa seconda giornata di esame e controesame il colonnello dei Carabinieri Michele Riccio esce indubbiamente a testa alta. Onestà, logica e coerenza hanno caratterizzato la condotta dell’ex ufficiale del Ros anche al processo di appello per la mancata cattura di Bernardo Provenzano. Senza cedere alle pressioni delle domande serrate e alla stanchezza delle molte ore di deposizione Riccio ha ripercorso un pezzo di storia che lo ha visto protagonista. Una storia dai contorni sfumati, grigi, dove i pochi che hanno cercato di far affiorare la verità hanno subìto ogni genere di umiliazione e delegittimazione, financo la morte. Il racconto del colonnello dei Carabinieri ha rimesso a nudo uno Stato che non può processare se stesso. Che non vuole la verità e che si ostina ad eliminare con ogni mezzo chiunque osi sfidarlo. Uno dopo l’altro sono riaffiorati quegli inquietanti episodi legati alla mancata cattura di Provenzano: ibridi connubi all’interno di una strategia precisa. Che, agli occhi degli stessi imputati, rientrerebbe probabilmente in una sorta di “Ragione di Stato”. Ma se quelle tre parole: onestà, logica e coerenza valgono ancora qualcosa in questo Paese, si comprende il motivo per il quale, nonostante tutto, uomini come Michele Riccio continuano a testimoniare nelle aule di giustizia. I tecnicismi giudiziari nei quali troppo spesso la logica e il buon senso non trovano spazio, aprono invece la via al terreno friabile delle interpretazioni. La parola di un teste viene quindi rimessa in discussione da un altro teste. Un esempio concreto lo possiamo trovare nella contrapposizione delle versioni fornite dallo stesso Riccio e dall’attuale procuratore di Roma Giuseppe Pignatone in merito al loro incontro il 1° novembre 1995. Al processo di primo grado Pignatone aveva commentato un suo appunto relativo a quell’incontro avuto il giorno dopo il mancato blitz di Mezzojuso. Il magistrato aveva sostenuto che, a fronte della loro disponibilità lavorativa “h24”, era alquanto normale vedersi con Riccio in un giorno festivo, ragion per cui non si era meravigliato della sua richiesta di appuntamento. Il dott. Pignatone aveva, però, specificato che lo stesso Riccio non gli aveva raccontato assolutamente nulla di Mezzojuso, né tanto meno gli aveva rivelato il nome della sua “fonte”. Di contraltare il col. Riccio aveva invece dichiarato di essere andato dall’allora sostituto procuratore Pignatone, cui faceva riferimento, proprio per rappresentargli l’accaduto specificando le generalità di “Oriente”. Ad avallo di queste dichiarazioni viene indubbiamente in aiuto il rapporto giudiziario nel quale Riccio aveva riversato quegli stessi fatti e circostanze ripetuti poi davanti ai magistrati. Ma evidentemente in un Paese “garantista” come il nostro rischiano di non bastare. Dal canto suo l’ex Procuratore di Palermo, Giancarlo Caselli, sentito ugualmente nel 2009 al processo di I° grado, era stato a dir poco vago. La sua deposizione era stata infatti scandita da continui “non ricordo” e “non potrei escluderlo”, anche su informazioni primarie come l’obiettivo finale del rapporto confidenziale di Ilardo con Riccio (oltre all’individuazione dei mandanti esterni delle stragi 92/’93) e cioè la cattura di Provenzano. Un paradosso. Che solo una verità a 360° ci potrà fare dimenticare. La testimonianza di Riccio, unita alla mole di documenti che ha portato all’attenzione di più procure (agende, registrazioni e floppy disk), rappresenta un fondamentale primo tassello.

Una scelta sbagliata? Probabilmente
Prima della conclusione dell'udienza e del rinvio al 13 maggio prossimo, quando verranno sentiti in aula il pentito Stefano Lo Verso ed il carabinieri Longu (il giorno successivo è prevista l'escussione del teste Sergio De Caprio, alias Ultimo, e di Paone), il colonnello Mauro Obinu ha preso la parola per rivolgere alla Corte alcune dichiarazioni spontanee a commento della deposizione di Riccio. Un'articolata disquisizione a sua difesa per giustificare quella “condotta attendista” (criticata persino nella sentenza di primo grado con le scelte dei due imputati definite come “discutibili” e “ “astrattamente idonee a compromettere il buon esito di una operazione che avrebbe potuto procurare la cattura di Provenzano”). Ed è forse per non criticare troppo quel “virtuosismo” giuridico che ha portato i giudici ad optare per una sentenza di assoluzione con la formula del “fatto non costituisce reato” che lo stesso Obinu è arrivato a dire in aula: “La nostra fu un'attesa condivisa, non un'inerzia...Fu una scelta. Sbagliata? Probabilmente”.
E' un dato di fatto che Bernardo Provenzano è rimasto latitante, dal mancato blitz di Mezzojuso, per altri undici anni.

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