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casa-laquila-2015-effdi Lilli Centofanti* - 6 aprile 2015
In merito alla sentenza definitiva del Processo alla Commissione Grandi Rischi, caro Davide non so che dirti.
Credo che, ormai, i sentimenti di noi parenti, nei quali voi tutti albergate da cinque anni siano il luogo più sicuro che possiate trovare.
Non credo di aver realizzato appieno che non tornerai mai col trolley verde, né che per sentirti devo ricordarti, e che per parlarti mi rimane solo la carta stampata o qualche disegno che raramente riesco a fare di noi due insieme, quando la miriade di pensieri che mi affollano anima e cervello si scavano un sentiero e si palesano in tratti imprecisi e frettolosi, per cristallizzare attimi che non vivremo mai insieme.
Non so come scusarmi del fatto che per lo Stato tu sia solo una questione di conti che non tornano mai.
E come vivere questa tua assenza.
Perché, nonostante tutte le parole sincere che riesco a scriverti, tu non ci sei.
E non per colpa tua.
Il problema fondamentale è che diventa sempre più difficile cercarti nei sorrisi altrui che scaturiscono da racconti dei quali sei protagonista. Neanche la Casa dello Studente, sempre più simile ad un Cimitero dei Sogni mi soddisfa più, perché quelle crepe le conosco tutte, l'ho introiettate, e non posso ripararle, rimangono lì, incessantemente uguali a se stesse e desiderose di raccontare una storia che nessuno vuole ascoltare.
Ogni tanto, passeggiando per la città arrivano folate di polvere, con quell'odore maledetto che si porta dietro e che mi ha impregnato il naso, come quell'essenza di morte che mi ferì le narici al campo di Mathausen, la stessa del cadavere di papà e che saturava l'aria alla Guardia di Finanza la notte del tuo riconoscimento.
Ecco... se inventassero un farmaco in grado di cancellare gli odori spiacevoli dalla memoria, sarebbe una gran cosa. O forse un effimero palliativo.

***

Ti chiedo scusa se questo Paese non è in grado di seppellirti.
Noi ci abbiamo provato, ma non ci siamo ancora riusciti.
Mi chiedo che qualità avrà la tua mancanza quando anche il Processo alla Casa dello Studente sarà concluso, se mai sarà concluso.
Perché l'impegno che profondiamo nell'andare avanti con questa battaglia ha un inestimabile valore civile, ma (ammettendo che si concluda con delle condanne meritate) questa spinta propulsiva prima o poi finirà.
Quando non ci sarà nulla per cui combattere in tuo nome, e saremo "finalmente" soli con il nostro dolore, che ne sarà di noi?
Perché finora essere un "parente delle Vittime della Casa dello Studente" ha dato senso (?) e dignità al nostro malessere per cercare di rendere giustizia alla tua vita rubata: alla tua quanto alla nostra, così brutalmente depredata, costretta a reinventarsi per inerzia giorno dopo giorno.
Ma quando saremo costretti a rinchiuderci nelle mura di casa, impregnate del tuo odore, a passeggiare in camera tua senza dover chiamarti per andare a tavola, ad affacciarci alla finestra da lì, e vedere il mare senza doverti chiedere il permesso per entrare, ad accarezzarti il volto sul vetro freddo dei portaritratti, a ridere con te usando le lacrime, a cambiare lenzuola e coperte ad ogni cambio di stagione sapendo che rimarranno pulite, a togliere la polvere dai mobili, accumulata dal tempo e non dall'usura, a non raccogliere vestiti sparsi perché tornavi di fretta e poco dopo eri di nuovo a zonzo per il mondo, a non poter godere di un abbraccio al rientro dall'università, a non poter far finta di gareggiare a chi si organizzava meglio le valigie per ripartire, a non poterci più dire che era ora di andare a dormire perché quel giorno avevamo studiato abbastanza, a non poterci confidare la paura per un esame, qualsiasi fosse, a non poter avere il "lusso" di condividere una semplice corona d'alloro, a non poterci inorgoglire nel prometterci che a mamma c'avremmo pensato noi figli: quando saremo costretti a non poterci rincontrare ognuno con la propria vita e riderci su... cosa ne sarà di noi?
E quando dèmoni travestiti da umani ci diranno che l'abbiamo fatto per soldi, che un saggio definiva la carta assorbente del sudore del mondo, come potremo difenderci?
Quando, se mai verrà fatta giustizia, insinueranno che possiamo metterci l'anima in pace, come faremo a non impazzire?
Durante la mia malattia ho imparato ad innamorarmi delle attese, perché non mi rassegnavo al fatto di non poter dominare i miei occhi, che rimanevano chiusi, a dover cadere sulle ginocchia perché le gambe si rifiutavano di sostenermi, a sentire il brivido dell'aria che torna ad animare i polmoni che per questioni di autoimmunità rimanevano sgonfi. Ho apprezzato il valore del tempo col quale giocavo a scacchi in terapia intensiva, quando contavo i minuti, terrorizzata dall'idea di non rivedere papà già in fase terminale. Ho affrontato tranquillamente l'imbarazzo cocente di permetterti di raccogliermi da terra e mettermi seduta, come si fa con le bambole di pezza, sulla poltrona destra del salotto quando, per una crisi improvvisa non riuscivo a rialzarmi da sola mentre mamma era a fare la spesa, e l'impellenza di sdrammatizzare il tutto quando ho visto che sul tuo volto l'iniziale sorriso si declinava in spavento, nonostante fossi tremendamente incazzata con la vita per quello che mi stava accadendo.
Ora che sto bene, mi chiedo come possa fare ad innamorarmi di un'attesa senza fine, a rassegnarmi a non potermi specchiare nei tuoi occhi che rimarranno chiusi, a crollare intimamente e rialzarmi senza avere ragioni per farlo, a poter respirare liberamente sentendo il groppo in gola, ad apprezzare un tempo che va per fatti suoi, che ora gioca da solo cullandosi nel vuoto che hai lasciato? Mi chiedo a chi potrei chiedere con naturalezza di rialzarmi per un qualunque motivo senza che il suo spavento mi disgusti?
Però è troppo semplice sentirsi vittime, o fortunati superstiti di una catastrofe: sancisce l'innocenza di chi ha sbagliato.
Ed è invece tremendo ammettere che ti hanno ucciso.
Ed ancora più assurdo dover dire quale siano le "cause del tuo decesso".
Perché tu sei morto d'incuria, di avidità, di stupidità, di megalomania, di pubblicità mediatica, di incompetenza, di illegalità, di edonismo, di prostituzione intellettuale, di vigliaccheria.
Tu sei morto per caso. Ci sei capitato.
Non volevano uccidere te, nello specifico.
Sei morto nello stesso modo in cui altri son sopravvissuti.
E a noi spetta di fare i conti con l'eco del tuo silenzio.

***

E' questa l'eredità che ci hanno lasciato gli esperti. E tentano di convincerci forse che è la Scienza a chiedere il suo tributo di sangue, poiché gli esperti le danno soltanto voce.
Anzi, diciamolo meglio: la Scienza stessa ha scelto i suoi strumenti di comunicazione, ovvero i media e la stampa.
Pensi sia concepibile per noi tutto questo? E che sia giusto bistrattare la Scienza in questo modo, attribuendole il ruolo d'incorporeo capro espiatorio per celare compromessi di così umana bassezza?
Se non ci sono assassini, non ci sono vittime.
E noi siamo assetati di vendetta.
In questa dimensione parallela, racchiusa in un'aula della Corte d'Appello, noi cerchiamo vendetta.
La verità è che cerchiamo una spiegazione plausibile (?) al fatto che, in fondo, persone come noi abbiano firmato a scatola chiusa un verbale che affermava il contrario di quanto la Scienza non avesse fatto in quei mesi con eloquenza, che abbiano accettato di fungere da corde vocali dei criminali del momento (totalmente privi di "esperienza" in fatto di sismica), quasi fossero in stato di trans, che vi abbiano prospettato l'eventualità di una scossa fatale come una leggenda metropolitana, che, in virtù della loro autorità, abbiano indotto una popolazione intera, per la quale il terremoto è quasi una componente genetica, a lasciarsi abbracciare dalla morte in una danza macabra, mentre lor signori coreografi si godevano lo spettacolo (o scappavano a darsi da fare su un altro palcoscenico).
Uno di questi, ospite in tv, parlando dello tsunami che ha colpito il Giappone, a seguito di una scossa verificatasi nell'Oceano, lo ha definito un terremoto da manuale.
Sarebbe cosa giusta che questo Lui scrivesse anche un Manuale di sopravvivenza al Distacco.
Ma la realtà è un'altra.
La realtà è che per questo non ci sono regole, né manuali che tengano.

***

Si è innescato un meccanismo di auto-assoluzione aberrante, che fagocita tutto e ci rende tutti uguali: vittime e carnefici seduti a banchettare allo stesso simposio.
No, io non mi siedo da nessuna parte. Rimango salda sulle gambe, qui.
Guardo avanti.
E pretendo che la scena di un eunuco della politica, laureato in vulcanologia, che invoca l'aiuto di Dio, molto simile a quella del generale che in Schindler's List sparava a casaccio, dalla finestra, agli ebrei nel campo di lavoro e successivamente assolveva il suo riflesso nello specchio, abbia un degno seguito giudiziario.
Pretendo che tu la smetta di essere il nome di una cartella su una scrivania, il numero 274, il ragazzo morto alla Casa dello Studente per la scellerata scelta di rimanere lì dentro e non perché sia stato rassicurato, un angelo volato in cielo e che ora riposa insieme con gli altri.
Tu non avevi alcun bisogno di riposare (se non nel tuo letto), stavi benissimo qui, avevi un nome e cognome, una vita che in quanto tale non è quantificabile, una famiglia che ti adorava e che ti adora e che gioiva dei tuoi occhi a lunetta quando ridevi a squarciagola.
Pretendo che mi venga detto perché ti hanno ucciso e che paghino per questo.
Perché ti hanno sottratto del tempo prezioso, ed hanno sfracellato le nostre vite al suolo.
Pretendo che mi dicano perché non ho più un fratello. Perché non possiamo essere più tu "iallo come mamma ed io mallone come papà". Perché sono figlia unica anche se mamma e papà desideravano ardentemente che non lo fossi.
Nel frattempo mi riduco a scrivere queste righe, sperando che qualcuno legga una delle tante storie maledette che non si devono raccontare e continuo a sperare che nel Bel Paese dove i Governanti hanno l'hobby di uccidere sogni, spunti una figura che ricominci a raccontarci favole deliziose.
Perché "le favole non dicono ai bambini che i draghi esistono. Perché i bambini lo sanno già. Le favole insegnano ai bambini che i draghi possono essere sconfitti" (cit. Gilbert Keith Chesterton).

* sorella di Davide Centofanti, una delle vittime del crollo della Casa dello Studente del 6 aprile 2009

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