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battaglia-letizia-c-shobhaFotogallery all'interno!

Lo sguardo della bambina con il pallone vigila su di lei. E’ come se le restituisse amore e protezione. Quegli occhi scuri dentro i quali rischi di perderti la osservano seri dalla parete. Dietro il tavolo è seduta una ragazza che il 5 marzo 2015 compie 80 anni. Una ragazza che sogna “la grande bellezza”. “La sogno per i miei nipoti - sussurra Letizia Battaglia -, per il ragazzo che è stato ucciso allo Zen. Io continuo a sognare la bellezza. Per me la bellezza è la giustizia. Non c’è bellezza senza giustizia”. Negli occhi di Letizia c’è tutto il mondo che l’ha attraversata: amore, dolore, morte, rinascita e poi ancora gioia, dolore, felicità, disillusione, speranza. Una lotta senza fine. Che si muove sulle gambe di chi non si arrende ai campanelli di allarme che le lancia il suo fisico provato. “Sogno che le battaglie intraprese non siano del tutto perdute, che qualcosa verrà… che nasceranno fiori da questi semi che abbiamo buttato nella terra. Sogno di poter vedere un po’ di questa bellezza. Prima di andarmene mi piacerebbe vedere nascere le prime foglioline e siccome 80 anni sono pochi, forse vedrò nascere questi fiorellini, o forse sto vaneggiando perché ancora non è tempo…”. 

Il salone della sua casa si veste di una luce ambrata, il muso imbiancato di Pippo tradisce la sua età, Letizia lo accarezza con lo sguardo e poi riprende a parlare. “E’ importantissimo che i ragazzi recepiscano l’importanza di vedere fiorire la bellezza. Io vorrei parlare sempre con i ragazzi per dire loro che si può, si può, si può… la vita è meravigliosa, questo mondo è un posto bello dove stare se non ci fossero le guerre, l’ingiustizia, se non ci fosse il sopruso, tutto sarebbe bellissimo. Sarebbe anche facile amministrare con giustizia una terra, senza confini, senza diversità di colori di pelle, senza divisioni tra belli e brutti, nani, storpi… siamo tutte creature di questa terra…”. Rivedo la scena di Letizia che passa per una strada e si accorge di una scritta razzista su un muro, entra in una ferramenta, compra una bomboletta spray e torna a quel muro per cancellare la scritta. La fotografa italiana più famosa al mondo si ferma, si guarda attorno, nella parete alla sua destra spicca un suo celebre scatto a Pier Paolo Pasolini. Era il 1972, l’immagine in bianco e nero dell’intellettuale, regista e scrittore tra i più grandi e profetici del nostro tempo rimanda all’intensità di quel momento. Pasolini ha la testa reclinata in avanti, con i gomiti appoggiati sul tavolo porta le mani intrecciate davanti agli occhi: è assorto, concentratissimo. Letizia lo fotografa e a distanza di 40 anni riporta in vita quell’immagine all’interno del suo progetto “Invincibili” nei quali unisce diversi “spiriti liberi” che di fatto hanno contribuito a cambiare il corso della storia: da Rosa Parks a Freud, da Falcone e Borsellino a Che Guevara fino a Gesù Cristo. “Ho amato e patito per le mie figlie, carne della mia carne… le mie figlie sono io…”, la sua voce graffia i ricordi delle sue amatissime Cinzia, Shobha e Patrizia. “Ho sempre amato che le cose fossero giuste, anche da piccola, ricordo che andavo a portare da mangiare a una donna che non aveva casa”. Poi però quel suo amore totalizzante travalica ogni argine. “Io ho amato l’umanità”, afferma guardandoti dritto negli occhi, e in quello sguardo riconosci che questa donna si è fatta attraversare da tante emozioni, in antitesi tra loro, alla massima potenza. “Amo molto gli animali - aggiunge in un soffio - li considero meravigliosi, così come dovremmo essere noi. Amo moltissimo la terra da toccare, il mare dove immergersi. Siamo fortunati ad avere questo mondo che io amo… Io vivo a Palermo e qui c’è la mia piccola lotta, ma il termine ‘qui’ vuol dire anche Libia, o Siria. Vorrei realmente che ci sentissimo tutti fratelli, non me ne frega niente se tutto questo può sembrare retorico, io sento questo… sento l’ingiustizia che c’è… ed è tanta… non accetto la violenza, ma capisco cosa può portare a diventare uno spacciatore o un killer quando si è circondati dal degrado più assoluto… alla base c’è tanta ingiustizia. Se ci fosse una società giusta nella quale tutti nascessimo uguali, per poi scegliere il proprio cammino, il mondo sarebbe migliore”. Letizia ripensa agli inizi della sua vita “senza libertà”. “Mio padre non capiva cosa fosse un essere umano donna. Mi trovavo all’interno di una società dove una donna non veniva considerata… ho attraversato tutto questo mentre ancora si doveva lottare… Queste lotte le ho fatte prettamente da sola, senza percepire che fosse una lotta giusta, è stato molto complicato uscirne indenne…”.
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Ed è questo legame di amore-odio con la sua città a riaffiorare prepotentemente nelle sue parole. “Detestavo Palermo quando non ero una donna libera, quando non avevo un lavoro, quando ero sposata con una persona che non mi rispettava perché non era in grado di rispettarmi, poi l’ho curato fino all’ultimo giorno della sua malattia, però mi ha fatto tanto male... Io volevo andarmene da Palermo perché era come una prigione dove non c’era possibilità di lotta… A un certo punto diventai fotografa e fotografando capii di più. Per amare devi capire… ed è allora che ho capito di più questa città. Ho capito gli errori che commettevamo, gli orrori che venivano perpetrati nei confronti di questa terra meravigliosa che è la Sicilia. Solo se capisci ami veramente. Ho cominciato ad amarla moltissimo tanto da diventarne schiava. Sono schiava di Palermo nel senso che non posso abbandonarla, non posso lasciarla, è come se sentissi di doverla proteggere… Ho cominciato ad amare Palermo quando ho potuto cominciare a combattere. Se non riesci ad essere utile, ad interagire con la città, sei impotente e se sei impotente non puoi amare”. Sullo schermo della memoria compaiono le immagini di Letizia Battaglia negli anni della “Primavera di Palermo”: è il 1986 e lei diventa assessore comunale alla Vivibilità nella giunta di Leoluca Orlando. Per Letizia si tratta di una vera e propria “apoteosi”. “Mi sono sentita così forte, così piena di energia, ero così felice che la gente mi facesse domande e io potessi rispondere. Facevo levare le pietre da una via, la rendevo più bella, la lustravo, facevo togliere la spazzatura… per me questa era una cosa spettacolare, così come poter aiutare qualcuno che era senza casa. In quel periodo ero felice, mi alzavo prestissimo la mattina e andavo assieme agli operai da una parte all’altra della città. La gente lavorava felice con me, io sentivo che in questo modo era possibile costruire una società felice senza sfruttare nessuno, lavorando il giusto, lasciando così segni d’amore”. Letizia rivive la felicità per quel progetto di vita che significava “non dare spazio alle mafie grandi e piccole, ognuno nel suo piccolo lottava per la bellezza, per la giustizia, perché è giusto tenere una città pulita… La prima cosa che ho fatto è stata quella di mettere le panchine davanti al carcere dell’Ucciardone per far sedere le donne che arrivavano cariche di pacchi per i propri congiunti, non volevo che stessero in piedi… poi feci fare un ufficio comunale all’interno dell’Ucciardone affinché i detenuti potessero incontrare gli assistenti sociali”. E sono proprio quei “segni d’amore” che rimangono impressi negli scatti di questa grande fotografa che nel 1985 a New York ha ricevuto il prestigioso premio “Eugene Smith”. Anche nei più crudi. “Ho fotografato gli orrori della mafia - ricorda Letizia -, ho tentato di onorare le donne che soffrivano, non ho mai fatto foto di scandali, nemmeno quando fotografavo gli arrestati volevo che venissero ripresi male, perché alla fine fotografare in un certo modo i mafiosi e i delinquenti è una cosa vile: io fotografo te che hai ammazzato e dimostro solo che sei un delinquente… ma così non ti ho aiutato! E’ come se questo mi avesse portato ad avere un senso di rimorso… Penso che noi abbiamo il rimorso se la società è piena di mafia: vuol dire che non siamo stati in grado di dare altro e quindi siamo anche noi colpevoli e responsabili”. Perdendosi tra i meandri dei pezzi della sua vita Letizia ripensa a come sarebbe stata la Sicilia senza tutti i martiri della mafia. “L’ho sempre sognato”, sospira soppesando le parole. “E’ per questo che tutti noi tentiamo di lottare… come sarebbe questa terra? Sicuramente sarebbe rispettata: non ci sarebbero lavori pubblici indegni, autostrade inutili che finiscono contro una montagna, non ci sarebbe l’obbrobrio di Pizzo Sella, non ci sarebbero le coste contaminate, sarebbe una terra bellissima… Abbiamo tutta la cultura che ci portiamo nei secoli, potremmo averne altrettanta per il futuro, ma in questi anni ne abbiamo prodotta pochissima. Questo nostro tempo è barbaro, penso che non si riesca ad avere progetti e non mi so spiegare il perché…”. Ed è pensando al futuro delle nuove generazioni che la sua voce si incrina ulteriormente. “Quando guardo le bambine che fotografo mi commuovono perché mi rivedo in loro… forse perché io fui spezzata a 10, 11 anni, alla loro età… Mi fa piangere pensare al futuro delle bambine, ma anche a quello dei bambini che oggi non hanno prospettive… tanti studiano, si laureano e poi? Eppure io penso che dobbiamo lottare affinché ci sia un futuro bello per queste creature, ma non so se noi siamo maturi, non lo so…”. Il caos della casbah di questa città tormentata si infrange sui vetri della finestra e arriva filtrato nella penombra del suo appartamento. Ma sono i mille pensieri che le pulsano dentro a fare più rumore: che senso ha vivere, lottare, perdere e poi ancora lottare. “Io considero la perdita importante come la vittoria - afferma con sicurezza Letizia -. Anche perdere è importante, perdere, rialzarsi, andare avanti, è questo il nostro compito: cadere, soffrire e poi rialzarsi… un sorriso, una carezza, un pugno e poi ancora ricominciare. Se penso a quello che vive Nino Di Matteo provo tanta sofferenza, quello che fa lo sta facendo per noi… Penso anche al giudice argentino Nisman che è stato ammazzato, pure quello c’entra con noi, è tutto collegato, anche se non so da cosa dipenda questo ‘sistema’ delle guerre, delle mafie, dei terrorismi e dei fanatismi…”. Nel salone della sua casa il tempo sembra fermarsi. “Lottare ha sempre un senso - ribadisce con forza e con un senso di malcelata malinconia -. Non bisogna fermarsi mai. Io credo, però, che non si debba lottare con animo ‘guerriero’, non mi interessa quello spirito, penso che la guerra sia diversa dalla lotta. Io non voglio ferire nessuno, né voglio scavalcare nessuno. La lotta è un’altra cosa: lotti per il pane, per la pace, per la bellezza, per il tuo onore, per difendere la tua fragilità. Io me la sento questa bellezza: a 80 anni non mi sono chiusa nel mio egoismo, non so da dove mi arrivi questa forza, ma nonostante i miei problemi fisici sento forte di rimanere a testa alta, senza piegarmi e senza accettare compromessi”. All’orizzonte si profila la creazione del Centro Internazionale di Fotografia fortemente voluto da Letizia Battaglia: un archivio, una scuola e una galleria d'arte che siano realmente una fucina per le nuove generazioni di fotografi. Il Comune di Palermo si è impegnato a realizzare questo progetto quanto prima. E’ tempo di andare, ma c’è ancora un attimo per riflettere sul senso di nascere, vivere e morire per amore. Per Letizia è evidente che debba essere così. “Io spero fortemente che si nasca per amore. Morire per amore, certo, ma anche morire con amore… con amore…”. Per un istante che sembra un’eternità Letizia resta assorta in un silenzio totale poi, con la passione civile che la contraddistingue, scandisce lentamente poche parole: “viva Nino Di Matteo!”. 80 anni possono essere tanti, o forse solo un battito d’ali per una ragazza che non smetterà mai di lottare. Grazie di esistere, Letizia.

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