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A Palermo il convegno sull'accordo tra Servizi e Dap
di Aaron Pettinari - 28 novembre 2014
Un processo in corso a Roma, un'inchiesta aperta a Palermo per “omissione di atti d’ufficio”, un documento di sei pagine ed un allegato con un elenco di una decina di detenuti appartenenti a Cosa Nostra, ‘ndrangheta e Sacra Corona Unita, che sono in quel momento quasi tutti in regime di 41 bis, con cui iniziare una collaborazione. Il “Protocollo farfalla” non è più soltanto un “nome in codice” sussurrato tra le carceri ma è un documento nero su bianco con cui vengono regolati i rapporti tra Dap e Sisde firmato nel 2004 (quando il direttore del Sisde era Mario Mori mentre Giovanni Tinebra dirigeva il Dap). La prima volta che se ne sente parlare è in un inchiesta de “Il Manifesto”, nel 2006, a firma di Matteo Bartocci. Un articolo in cui emerge l'esistenza di una rete di intelligence che operava senza nessun controllo, nessun atto pubblico e in collaborazione direttamente con l’ufficio ispettivo. Quindi, il 23 dicembre 2011, è l'ex dirigente del Dap Sebastiano Ardita, oggi procuratore capo a Messina, a parlarne per la prima volta pubblicamente durante la deposizione al processo contro Mario Mori. Il magistrato raccontò di essere a conoscenza di un protocollo con quel nome, ma di non essere mai riuscito a prenderne visione perché coperto dal segreto di Stato.
Da oltre un anno il tema, oltre ad essere argomento del processo che si sta celebrando a Roma e che vede imputati Salvatore Leopardi, in passato funzionario del Dap e oggi sostituto procuratore a Palermo, e Giacinto Siciliano, già direttore del carcere di Sulmona, con l'accusa di aver passato ai servizi informazioni sul pentito di camorra Antonio Cutolo, è stato affrontato dalla Commissione parlamentare antimafia con una serie di audizioni che hanno visto come protagonisti proprio i vertici dei Servizi segreti. “Siamo in grado di dire che non esisteva un protocollo scritto” disse lo scorso marzo il Presidente della Commissione Rosy Bindi rispondendo ad una domanda specifica del nostro direttore, Giorgio Bongiovanni. L'inchiesta della Procura di Palermo ha però messo in mostra una nuova realtà dimostrando non solo l'esistenza dell'accordo tra il 2003 ed il 2004, ma anche che quei rapporti non si siano interrotti nel 2007 (quando vengono istituite nuove norme che regolano l’attività dei servizi all’interno dei penitenziari) e siano proseguiti fino ad oggi. Come mai si è cercato questo dialogo con i carcerati? A che scopo? E per quale motivo tra i vincoli sanciti dal protocollo doveva esserci quello di non avvisare l'autorità giudiziaria di questi colloqui? Di tutto questo si è parlato con la conferenza “Verità e menzogne sul Protocollo Farfalla”. Un incontro, moderato dal giornalista Giuseppe Lo Bianco, che ha visto la partecipazione di Maurizio Torrealta, giornalista ed autore assieme a Giorgio Mottola del libro “Processo allo Stato”. Un intervento il suo che ha messo in evidenza “l'esistenza di un altro apparato interno alle istituzioni che lavora in maniera autonoma e parallela. Un organizzazione che è sopravvissuta al di la dei tempi della cadute delle repubbliche e che penso sempre più sia stato all’origine di tante strategie stragiste”. Un concetto ribadito nel libro in cui si parla di indagini insabbiate ed anche morti dimenticate come quella del mafioso presunto “suicida” Nino Gioé. Una morte strana dietro la quale si potrebbero nascondere davvero indicibili verità. “Secondo me non si è suicidato – ha detto - se Gioé collaborava usciva tutto perché lui è il cardine dove si organizza la trattativa. Ho trovato le foto scattate immediatamente dopo il suicidio di Gioé e si vede che se davvero si fosse ammazzato stringendo i lacci delle scarpe all’anello della grata avrebbe comunque toccato il tavolo. Gli stessi segni sul collo vanno verso il basso. Un tratto che fa ipotizzare che la stretta non sia avvenuta impiccandosi ma che sia stato strangolato da qualcuno. E poi come si spiegano le costole rotte?”.
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Silenzi istituzionali
Per parlare del Protocollo farfalla sono intervenuti alla conferenza anche il vice presidente della Commissione antimafia Claudio Fava ed i membri dello stesso organo, Giuseppe Lumia e Giulia Sarti. Tutti e tre hanno sottolineato come su questa sorta di “Gladio delle carceri” vi siano stati imbarazzanti silenzi ed omissioni con rappresentanti delle istituzioni che hanno negato l'esistenza di documenti che poi sono stati rinvenuti dall'autorità giudizaria. Nei loro interventi hanno rappresentato la preoccupazione non solo per quanto avvenuto in passato, su cui si deve comunque fare chiarezza, ma soprattutto sul presente. “Fare luce sul protocollo vuol dire fare luce sulla propensione di certi apparati che hanno voluto costruire un corpo parallelo – ha detto Fava – C'è un'origine quando si pente il boss di Caccamo Giuffré. Lui è il primo che parla di certi rapporti tra la mafia e quella politica nascente che poi si è consolidata, quella di Berlusconi. E’ lui a fare il nome di Dell’Utri. A quel punto nasce l’esigenza di intervenire. Abbiamo anche il sospetto che certi rapporti siano poi continuati come ha raccontato Flamia che ha parlato di aver incontrato soggetti dei servizi quando ha iniziato la propria collaborazione. Un fatto gravissimo. Ci sono apparati altri che hanno agito per un altro interesse. Oggi anche Galatolo parla di mandanti esterni che vorrebbero la morte di Di Matteo e che guidano Matteo Messina Denaro ad agire”. Altra figura chiave è quella di Rosario Cattafi, boss di Barcellona Pozzo di Gotto e detenuto al 41 bis. Quando venne arrestato nel luglio 2012 questi fa sapere ai secondini di volere riferire alcuni racconti inediti sulla Trattativa tra Cosa Nostra e pezzi delle Istituzioni. Ma prima che Cattafi riesca a parlare con i magistrati di Messina, l’Aisi (il servizio segreto) si muove inviando a Giovanni Tamburino, allora capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, una richiesta “urgente” per conoscere la situazione carceraria del boss barcellonese, le persone con cui parla, i colloqui ottenuti da detenuto. Per quale motivo tanto interesse? Anche questo è uno degli aspetti su cui indaga la Procura di Palermo. Secondo il senatore Beppe Lumia “sono soprattutto le indagini in corso a creare fibrillazione ai vertici di cosa nostra, quello che non conosciamo dell’attività che stanno mettendo in piedi Di Matteo e i colleghi, loro sanno a cosa possono portare le indagini di questo tipo. Bisogna andare in profondità e capire se c’è stata un'interferenza esterna anche con il boss che dialogava con Riina nel carcere di Opera. Potremmo arrivare ad acquisire informazioni preziose, forse potremmo aprire le porte mai aperte, e avere degli strumenti mai avuti”. Sul perché si sia giunti a dover scrivere e mettere “nero su bianco” un protocollo simile hanno fatto chiarezza l'ex pm Antonio Ingroia, prima, ed il direttore Bongiovanni, poi.
Protocollo farfalla e trattativa facce della stessa medaglia
“Il protocollo farfalla e la trattativa sono due facce della stessa medaglia che si inseriscono dentro un problema politico e di politica criminale che lo stato italiano ha sempre avuto e cioè di controllo e di gestione dei poteri criminali. - ha detto il leader di Azione civile - Lo Stato italiano ha usato i poteri criminali. La mafia non è un corpo estraneo ed il rapporto mafia-Stato non è solo di contiguità e di collusione ma anche di penetrazione ed integrazione”. “Il protocollo farfalla - ha aggiunto l’ex pm - si è reso necessario per mettere fine a quel momento di crisi che era dato dal proliferare dei pentiti che avevano iniziato a parlare dei rapporti mafia politica e che fino a quel momento era stato contenuto. Si interviene per ripristinare quel ‘regime’ che c’era in precedenza. Era necessario controllare ed indirizzare nuovamente le strategie criminali così come era accaduto nel corso della storia sin dai tempi dell’unità d’Italia e di cui il 1992 è stata l’ultima appendice”. Bongiovanni invece ha focalizzato il motivo per cui “un sistema criminale vigente ha occupato il nostro Stato”. “Tutto quel mondo mafioso, tra colletti bianchi, massonerie, servizi deviati – ha spiegato il direttore di ANTIMAFIADuemila – cioè un gruppo di uomini di potere che con la mafia gestiscono un’immensa quantità di soldi. Le stime istituzionali parlano di oltre centocinquanta miliardi di euro l'anno, approssimati per difetto, frutto degli affari illeciti. Una potenza economica. E se la mafia dovesse entrare in borsa potrebbe comprarsi tutta la borsa di Milano e avrebbe una liquidità di 500 miliardi. Ecco perché lo Stato e i servizi segreti trattano con la mafia. E' per questo che non viene fatta una lotta seria contro la criminalità organizzata. Del resto è un dato di fatto che in questo momento chi ci Governa è chi ha stretto un patto con il leader di un partito che è stato ideato da un mafioso come Marcello Dell'Utri”.
Superare la “deriva”
Per far fronte a questa “deriva” istituzionale una forte spinta deve arrivare soprattutto dalla società civile che deve acquisire sempre più consapevolezza per poter fare nuove scelte. Un concetto ribadito anche dalla deputata del Movimento 5 Stelle Giulia Sarti: “Ora come non mai c’è bisogno di prendere delle posizioni. Non è possibile demandare solo all’autorità giudiziaria l’accertamento della verità. Le istituzioni hanno un ruolo importante come i cittadini, l’informazione e la stampa. Tutti assieme dobbiamo collaborare per chiedere al premier di smetterla con questo silenzio imbarazzante. E mandare dei segnali chiari alle mafie e ai servizi deviati approvando leggi che agevolino la lotta alla criminalità organizzata”.
Foto © Antonella Morelli
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