di Aaron Pettinari e Miriam Cuccu - 26 novembre 2014
Mario Santo Di Matteo: “Stragi una guerra allo Stato da parte di Riina”
Una cinquantina di omicidi alle spalle (tra cui quello di don Pino Puglisi) Salvatore Grigoli racconta al processo “bis” sulla strage di Capaci le fasi di lavorazione dell’esplosivo destinato alle stragi del ’93 e ’94. Se fosse stato per Matteo Messina Denaro il killer di Brancaccio sarebbe diventato reggente del mandamento. Ma il boss latitante non sapeva che Grigoli, oggi collaboratore di giustizia ed ex mafioso al servizio dei Graviano, aveva un parente nell’Arma dei Carabinieri. Un requisito, questo, incompatibile con la nomina desiderata da Messina Denaro.
“La prima volta lo vidi in 4 o 5 sacchi di iuta – ricorda il collaboratore di giustizia parlando dell’esplosivo – per polverizzarlo utilizzavamo le mazze oppure la molazza (macchina impastatrice usata per le costruzioni edili, ndr) perché era più veloce ed efficace. Lo macinavamo e setacciavamo fino a quando non diventava una farina giallastra, poi veniva insaccato nei sacchi neri della spazzatura. Quando lavoravo l'esplosivo, urinavo rosso. Quando lo maneggiavo, mi bruciava la gola. Lo Nigro (Cosimo Lo Nigro, tra gli imputati al processo, ndr) con una corda avvolgeva i sacchi fino a quando non diventavano compressi, duri con forma tondeggiante che eravamo soliti chiamare forme di parmigiano. Per questa operazione occorreva anche il nastro adesivo, quello per i pacchi. Dopodichè l’esplosivo era già pronto all’uso con detonatori con la miccia o elettronici”. In tutto 500 chili. “Per setacciare – continua Grigoli – usavamo setacci veri e propri per la farina, poi quello che rimaneva lo mettevamo nella molazza”. Il pentito racconta che le operazioni iniziarono in un rudere di proprietà di Antonino Mangano (reggente di Brancaccio, ndr) ma poco dopo il gruppo esecutivo (di cui faceva parte anche Gaspare Spatuzza) si spostò in un capannone di sua proprietà. “Lo Nigro era quello pratico, inizialmente dava le direttive poi divenne una routine” aggiunge il killer di Brancaccio. Tre “forme” di esplosivo furono portate a Roma, per l’attentato allo Stadio Olimpico poi fallito: “Per quasi tutta una notte tagliavo tondini di ferro, per recare più danno possibile alle persone. Dovevamo colpire le forze dell’ordine. Stimo che ci sarebbero stati due o trecento morti”.
A quale pro se non per ottenere qualcosa? È la riflessione di Grigoli all’epoca, che oggi precisa: “poi parlando con Mangano ho avuto un’idea più chiara. Dopo le stragi del ’93 mi disse che colpendo lo Stato in questa maniera qualcuno prima o poi si sarebbe fatto avanti a parlare con Cosa nostra”. Sulle richieste che stavano a cuore ai boss mafiosi, continua Grigoli, “sicuramente all’epoca c’era il fatto del 41bis, una delle cose primarie era abolire il carcere duro, e attraverso le rivendicazioni (delle stragi, ndr) a nome di Falange armata si poteva arrivare a che Cosa nostra fosse interpellata”. Il pentito fa poi il nome di Marcello Dell’Utri: “era nelle mani dei Graviano, era risaputo che avevano contatti politici”.
Il pentito Di Matteo sulle stragi: “in Cosa nostra non tutti erano d’accordo”
“Le stragi? Una Guerra allo Stato da parte di Riina. In Cosa nostra c’era a chi dava fastidio questa cosa”. A raccontarlo al processo Capaci bis, che per il terzo giorni si sta celebrando al carcere Rebibbia di Roma, è Mario Santo Di Matteo padre di Giuseppe, il bambino rapito da Cosa nostra e poi sciolto nell’acido. “Ricordo che mio padre lo disse ad Antonino Gioé, ‘questi vi porteranno a sbattere (riferendosi ai Corleonesi), voi non sapete chi è Riina, quando lo capirete sarà troppo tardi’. Riina aveva fatto sempre grandi tragedie in Cosa nostra già ai tempi di Liggio. Per le stragi poteva contare su famiglie fidate come per esempio i Madonia, i Brusca, i Ganci. E noi obbedivamo”. Il collaboratore di giustizia ha poi parlato del proprio ruolo al tempo delle stragi. In un suo possedimento, in contrada Rebottone, furono fatte alcune prove per l’esplosivo. “Ricordo che lo portò Agrigento - ha detto innanzi alla Corte d’assise nissena - era un esplosivo di tipo granuloso. Fu fatta una prova in campagna e venne fatto saltare un blocco di cemento. C’eravamo io, Gioé, Brusca, Rampulla, Bagarella. Pietro Rampulla era il tecnico che armava tutto. Ricordo che portò due telecomandi lui, ed altri due li avevamo comprati io e Brusca in un negozio di giocattoli. Un paio furono usati per Capaci. Gli altri due li consegnai a Gioé tempo dopo. Mi disse che li doveva dare ai Graviano”. Tra diversi non ricordo Di Matteo ha cercato di ricostruire le varie fasi dell’attentato che lo hanno visto protagonista solo in una prima parte, dopodiché fu messo a conoscenza dei fatti solo da Gioé. “Fui coinvolto anche nelle prove di velocità. Ricordo che viaggiavo in autostrada a circa 160 km/h. Serviva per capire se l’impulso al detonatore arrivava in tempo. Sulla montagnetta c’erano Gioé e Brusca, io passavo e c’era chi controllava se la lampadina faceva il flash”. Di Matteo ha anche detto di non ricordare se vi fosse stato il coinvolgimento di soggetti esterni a Cosa nostra nelle fasi dell’attentato e alla domanda se fossero stati simulati dei lavori stradali durante le fasi di preparazione de “l’Attentatuni” ha detto di “non ricordare” mentre in un verbale del 6 novembre 2013 ai pm aveva dichiarato di “escluderlo”.
“Gioé mi disse che Bellini era dei Servizi”
“Paolo Bellini era un uomo appartenente ai servizi segreti. Me lo disse Antonino Gioé. Si era avvicinato per uno scambio di favori. Lui chiedeva di recuperare un quadro e in cambio si sarebbe messo a disposizione per interessarsi per alcuni processi, per il carcere duro e i carcerati per tramite di un personaggio che non conosco, forse politico. Riina e Brusca erano informati di tutto e Gioé non faceva niente se non c’era il loro ok. Io conobbi Bellini perché Gioé lo portò anche a casa mia. Lui l’aveva conosciuto in carcere sotto un altro nome. A Bellini lo rividi in carcere tempo dopo ma restò sempre vago su certi argomenti”. Tuttavia il pentito non è riuscito ad essere molto preciso sugli incontri tra Gioé e Bellini collocandoli in tempi antecedenti alla strage di Capaci. “Queste cose tra Gioé e Bellini erano presi con le pinze. Da quello che so poi non se ne è fatto nulla - ha aggiunto Di Matteo - Gioé lo aveva conosciuto al carcere di Sciacca ed anche lui diceva che doveva stare attento a come parlava”. Di Matteo ha anche parlato dell’ultimo dialogo avuto con Nino Gioé prima del suicidio in carcere alla fine di luglio: “Aveva la barba lunga si affacciò alla finestra mentre io passeggiavo durante l’ora d’aria. Gli dissi ‘ma che devi fare San Giuseppe’”. Lui era seccato ma mi disse che faceva colloqui con la famiglia tutti i giorni. Io capii che stava accadendo qualcosa, che stava parlando o iniziando a collaborare. Gli chiesi ‘che stai a combinà?’ e lui chiuse la finestra. Qualche tempo dopo, quando ero a l’Asinara, appresi al tg che si era ucciso. Lui aveva parlato di me nella lettera e vennero ad interrogarmi. Io sono sempre convinto che si sia ucciso perché aveva saltato il fosso”.
Dopo aver introdotto l’interrogatorio di Calogero Ganci, ex mafioso del mandamento della Noce, l’udienza è stata rinviata a domani alle ore 9 e 30 per il proseguimento del suo esame e l’escussione degli altri collaboratori di giustizia, Fabio Tranchina e Pietro Romeo.
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