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borsellino-paolo-web10di Aaron Pettinari e Miriam Cuccu - 10 novembre 2014
L'ex capo del Dap al Borsellino quater: "Fu monsignor Curioni a propormi la direzione del dipartimento"
“Mi occupavo del terrorismo austriaco asburgico da dieci anni quando improvvisamente nel 1993 mi chiesero se per caso potevo accettare un nuovo incarico di dirigente del Dap. Diedi la mia disponibilità e rimasi così. C’erano le difficoltà del Dap e con il fatto che dovevo restare un anno o poco più accettai”. Inizia così la deposizione dell’ex direttore del Dap, Adalberto Capriotti, sentito come persona informata sui fatti al processo Borsellino Quater, in trasferta a Roma.

La telefonata del monsignor Curioni: "Fu lui a chiedermi di tornare al Dap"
Sull'improvvisa nomina a direttore del Dap, ricorda il teste, "fui interpellato da monsignor Cesare Curioni, capo dei cappellani di tutti gli istituti di prevenzione di pena". Accadde qualche mese dopo rispetto a una prima "interlocuzione generica", quando ancora "si vociferava" della sostituzione del presidente Amato "nel turbinio che di solito c'è nei ministeri". "Mi disse che ci sarebbero dovuti essere dei cambiamenti al ministero e all'amministrazione penitenziaria, se mi sentivo di fare questo passo e venire a Roma. Sapevo che Curioni aveva conoscenze non solo nel nostro ambiente ma anche al gabinetto e in altri ministeri". Dell'effettiva nomina, però, non arrivò alcuna richiesta formale: "Pochi giorni dopo alla radio si seppe che era mutato il vertice del Dap sostituendo il presidente Amato con la mia persona" precisa Capriotti. Curioni, ha proseguito l'ex capo del Dap, era un grande conoscitore "dell'ambiente giudiziario e penitenziario, conosceva benissimo Scalfaro" l'allora Presidente della Repubblica: "Anche io lo conoscevo e penso che mi stimasse".

Discussioni sul 41 bis
“Si viveva un momento eccezionalmente gravido di tanti fatti avvenuti a danno dello Stato e in risposta c'era l’intervento dello Stato a vari livelli, anche interessando l'amministrazione penitenziaria. C'erano articoli di giornale, nelle università, c'era anche questo scritto anonimo scritto molto bene (riferendosi alla lettera dei familiari dei detenuti al 41 bis, ndr) inviato ad alte cariche dello Stato”. Rispondendo alle domande del pm Nico Gozzo l'ex direttore del Dap, dopo aver ripercorso le fasi della propria nomina, parla del regime carcerario del 41 bis. “Io non sapevo niente il mio compito al Dap non era guardare l’ambiente carcerario vero e proprio - ha detto - dopo l’applicazione del carcere molto severo quell’applicazione portò un contraccolpo e nelle riunioni del Comitato nazionale di sicurezza si disse che questo provvedimento aveva fatto un gran rumore. Mi risulta che il 6 marzo, dopo un Comitato, Nicolò Amato, raccogliendo forti spinte e proteste del comitato e del capo della polizia Parisi, mise per iscritto questo grave dissapore che c’era tra il nostro ambiente e l’ambiente esterno. La mia conoscenza deriva da un altro appunto, quello del 26 giugno, redatto dal collega Calabria”. Il pm Gozzo incalza poi Capriotti sulla nota del 26 giugno '93, indirizzato all'allora ministro della Giustizia Giovanni Conso, per non prorogare più di trecento 41 bis “per creare un clima positivo di distensione nelle carceri”. L'ex capo del Dap ricorda che a lui fu presentata a soli pochi giorni dal proprio insediamento dal personale dell'ufficio detenuti. “C'era Calabria, c'era Francesco Di Maggio (deceduto nel 1996, ndr). Le firme sono queste. Io misi la mia perché mi presentarono questo documento”.

Riunione d'urgenza dopo le stragi di Milano e Roma
Capriotti parla anche della riunione che ci fu a poche ore dalle stragi, nella notte tra il 27 ed il 28 luglio 1993, e che vide la aula-bunker-rebibbia-20141110partecipazione delle massime autorità proprio a Roma. “Venimmo convocati in piena notte telefonicamente. C'erano le massime autorità, il capo della polizia, il comandante dei carabinieri, il ministro. Un primo chiarimento su quello che stava accadendo. Era una riunione informale sulle stragi. Ricordo perfettamente che subito il capo della polizia parlò di mafia, senza aggiungere altro. Io per esempio ipotizzai che vi potessero essere problemi di carattere internazionale con gli slavi. Lo ipotizzavo perché venivano colpite strutture di interesse culturale, non le persone. E mi sbagliai”.

Carcere duro, quella nota in vista delle proroghe
Capriotti viene poi interrogato sulla nota del 29 luglio 1993, a firma del Vicedirettore dell'Ufficio detenuti reparto massima sicurezza non indirizzata a tutte le strutture di vertice delle Forze di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza erano stati esclusi. Una nota in cui “si attesta non controvertibilmente che il Dap cercava un'interlocuzione esterna in vista delle proroghe dei decreti che scadevano alla fine del mese successivo, diversamente dalle scadenze, di pochi giorni prima peraltro, del 20-21 luglio”. “Non sono mai venuto a conoscenza di questo documento” ribadisce Capriotti. Ma Gozzo lo stoppa ricordandogli: “Le venne mostrato il 13 giugno 2002 dal pm di Firenze Chelazzi. Anche qui si fa riferimento al 41 bis”. E l'ex direttore del Dap si difende: “Non mi ricordo. Non ricordo. Non ricordo che fossero autorizzati tutti questi servizi che si occupavano del carcere e dell'andamento generale politico che potessero interloquire tra loro. Quindi loro parlavano bypassandomi, bypassando me. La nota è a firma Calabria. Io ero all'oscuro di questa cosa non ho mai sentito. Calabria dice che faceva tutto quello che dicevo io? I nostri colloqui erano rari. Non lo so se con Di Maggio o con questi uffici esterni o con a capo sempre il Ministero degli Interni”.
Poi, alla fine dell'ottobre '93, l'ex ministro Conso decise di non prorogare 334 regimi di carcere duro per altrettanti boss mafiosi: "A quanto mi risulta, però - commenta Capriotti - quasi tutti i detenuti furono risottoposti al 41bis nel febbraio successivo". "Questa è un'aggravante - ribatte il pm - significa che non andavano revocati". L'ex capo del Dap si limita ad alzare le spalle.

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