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mori-toga-giustiziaDai rapporti del generale con i servizi al protocollo farfalla. Chiesta l'acquisizione degli atti trasmessi dalla Procura.
di Aaron Pettinari - 26 settembre 2014
Come previsto il pg Scarpinato, tornato in aula dopo l'inquietante lettera intimidatoria ricevuta in ufficio i primi di settembre, ha chiesto alla Corte d'Appello, presieduta da Salvatore Di Vitale, la riapertura dell'istruzione dibattimentale del processo per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nei confronti del generale Mori e del colonnello Obinu. A questa si aggiunge la richiesta di acquisizione di numerosi documenti, tra cui atti “classificati” dei servizi segreti, sulla carriera di Mori e su vari episodi dai quali emergerebbero pratiche investigative "opache" compiute nel corso degli anni.
Leggendo la memoria introduttiva di 25 pagine l'accusa mette in evidenza come Mori avrebbe operato “per finalità occulte”, per “disattendere doveri istituzionali” come ufficiale di polizia giudiziaria e venendo meno “all'obbligo di lealtà” nei confronti dell'autorità giudiziaria. La Procura ha sottolineato come le conclusioni della giudicante in primo grado siano erronee in parte perché la stessa “ignorava alcuni fatti che sono stati accertati solo successivamente”, ed in parte in quanto “ha fondato il proprio convincimento su una versione di taluni avvenimenti che, a seguito delle nuove prove acquisite, si è rivelata falsa, traendo così in errore la giudicante”.

Il mancato blitz Santapaola
Un esempio lampante viene dato dalla condotta messa in atto nel 1993 che impedì la cattura a Terme Vigliatore, nel Messinese, del boss catanese Nitto Santapaola. In particolare le nuove indagini condotte dalla Procura hanno messo in evidenza una serie di incongruenze rispetto alla versione “ufficiale” fornita da alcuni membri del Ros (il capitano Sergio De Caprio, al secolo Ultimo, e il capitano De Donno) su determinate dinamiche come l'inseguimento finito a colpi d'arma da fuoco, dell'incensurato Giacomo Fortunato Imbesi, scambiato per il boss Pietro Aglieri. Oppure ancora l'irruzione armata effettuata nella villa degli Imbesi, collocata a 50 metri dal luogo dove venne individuato il nascondiglio di Santapaola, con l'impiego di militari provenienti anche altre sedi fuori dalla Sicilia. Un'irruzione che non viene menzionata in alcun atto ufficiale salvo un verbale di perquisizione che non indica né il nome dei militari e in cui manca la sottoscrizione delle persone che subirono la perquisizione. Unica firma presente quella del carabiniere Pinuccio Calvi. Ed è qui che scatta il giallo. Sentito dagli inquirenti Calvi ha infatti dichiarato che la propria firma è stata falsificata.

Mancato Blitz a Mezzojuso
Quanto avvenuto a Terme Vigliatore svela, secondo l'accusa, “il paradigma operativo tipico dei servizi segreti operanti fuori dalle procedure legali” e che getta “una sinistra luce retrospettiva” sia sulla vicenda della mancata perquisizione del covo di Riina che sulla mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso. Gli imputati “avrebbero anche in quest'ultimo caso compiuto una serie di azioni volte a depotenziare e minimizzare le attività investigative condotte da Riccio”. Rileggendo l'informativa “Grande Oriente” si dimostra che “vi furono omissioni e ritardi nell'identificazione e nello sviluppo investigativo sui fiancheggiatori di Provenzano e che di fatto non vi erano impedimenti per compiere servizi di osservazione sui luoghi frequentati dal boss Corleonese.

Il passato di Mori al Sid
Oltre a richiedere la citazione di una ventina di testimoni tra militari (dal colonnello Riccio al maresciallo Tempesta, ndr), collaboratori di giustizia (ben dodici, ndr) e figure come l'ex capo del Dap Giovanni Tamburino a l'ex colonnello Mauro Venturi, la Procura generale ha presentato una serie di atti alla corte (ben 11 faldoni, ndr) essenziali proprio per ricostruire il passato ed il presente degli imputati. Si tratta della documentazione acquisita presso gli archivi dell'Aise dove si documenta la presenza di Mori in forza al Sid dal 1972 al 1975. Ulteriori elementi sono stati raccolti sentendo lo stesso Tamburino, che mentre conduceva da giudice istruttore l'inchiesta sull'organizzazione della destra eversiva la “Rosa Dei Venti” imbattendosi a sua volta in Mori, e Mauro Venturi, che ha prestato servizio nel Sid assieme al generale. Venturi ai pm ha riferito in merito dei rapporti di quest'ultimo con diverse personalità grige come Mino Pecorelli, Licio Gelli ed fratelli Ghiron, oltre al tracciare uno spaccato operativo alquanto spregiudicato tra la redazione di anonimi e l'attività investigativa abusiva sui propri superiori.

Tanto Mori quanto Subranni
Secondo l'accusa l'assunzione delle nuove prove assume rilievo processuale anche rispetto ad altre azioni compiute da altri esponenti del Ros. Tra questi il Generale Antonino Subranni, diretto superiore gerarchico di Mori (allora vice comandante operativo). Su Subranni, imputato al processo trattativa Stato-mafia, vengono evidenziate le dichiarazioni del tenente colonnello Riccio in merito a quanto detto dall'infiltrato Luigi Ilardo pochi giorni prima di essere assassinato. Il “quasi collaboratore di giustizia” aveva anticipato proprio a Mori che avrebbe rivelato ai magistrati quanto a sua conoscenza su Subranni e sul ruolo di pezzi deviati delle Istituzioni. In merito è stata richiesta l'acquisizione della Relazione definitiva della Commissione parlamentare antimafia sull'omicidio Impastato in cui si certifica il ruolo di Subranni nell'accreditare la pista terroristica.

Quel legame tra Provenzano ed i servizi
Tra le richieste effettuate dalla Procura vi è anche quella di essere ammessi a provare che “Bernardo Provenzano era uno dei principali esponenti della famiglia di Cosa nostra che, unitamente a Benedetto Santapaola, manteneva rapporti occulti con soggetti appartenenti ai servizi segreti, a settori deviati dell'Arma dei Carabinieri, alla destra eversiva ed alla massoneria”. Un aspetto di cui hanno parlato pentiti come Maurizio Avola e Filippo Malvagna, una figura di raccordo tra mafia e servizi come Rosario Pio Cattafi, ed il potente massone Michelangelo Aiello. Senza dimenticare poi le recenti dichiarazioni di Riina che, appena un anno fa, il 18 agosto 2013, nel corso di una sua conversazione con il boss pugliese Lorusso definisce Provenzano “carabiniere” e “massone” che si è fatto manovrare nel suggerire a Bagarella di portare la strategia stragista nel continente.

Il rapporto Mori-Bellini e la morte di Gioè
Nella loro memoria Scarpinato e Patronaggio evidenziano anche le attività d'indagine svolte in merito al rapporto tra Mario Mori e Paolo Bellini, soggetto appartenente alla 'Ndrangheta e vicino all'eversione nera, attraverso il boss mafioso Antonino Gioè. In base ad ulteriori accertamenti compiuti dalla Procura generale sono emersi nuovi dubbi sulle circostanze che hanno portato al suicidio di quest'ultimo nella notte tra il 28 ed il 29 luglio 1993. Secondo la testimonianza diretta del pentito Malvagna, anch'egli al tempo detenuto nel carcere di Rebibbia, Gioé sarebbe stato ucciso dai servizi segreti. Il convincimento scaturiva dal fatto che proprio in quella notte drammatica vennero chiusi non solo le porte dei detenuti ma anche gli spioncini, proprio per non far sentire nulla su quanto accadeva in quel momento in quel braccio del carcere. Non solo.
Secondo la Procura generale ci sarebbero molte zone d'ombra nel comportamento degli apparati investigativi del Ros e dello stesso Mori, proprio nelle vicende eversive culminate con stragi e attentati e nei rapporti tra mafia, massoneria e servi segreti deviati. “Il generale Mori – ha detto Patronaggio - pur essendo venuto a conoscenza da fonti qualificate, di taluni aspetti di tale complessa strategia della tensione non solo non ha svolto alcuna attività investigativa ma non si è neppure attivato per allertare le istituzioni come fecero lo Sco e la Dia”.

Fallito attentato all’Addaura
Altre ombre su Mori vengono rintracciate nella vicenda del fallito attentato del 1989 a Giovanni Falcone nella villa dell'Addaura. L'accusa punta il dito contro la controinformazione che “verosimilmente 'imbeccata' anche da fonti istituzionali, cercò di minimizzare l'episodio”.
Mori, al processo di merito così come l'Alto Commissario Domenico Sica, il dottor Di maggio ed il Giudice Misiani, “adombrò ufficialmente delle perplessità sull'accaduto dichiarando che un consistente numero di chili di esplosivo messo lì senza alcuna possibilità di deflagrare era una minaccia molto relativa e che aveva pensato ad un tentativo intimidatorio più che ad un attentato mirato ad annientare il Giudice Giovanni Falcone”. Le perizie effettuate invece dimostrarono “l'assoluta capacità distruttiva dell'esplosivo posto sulla scogliera dell'Addaura”.

Le dichiarazioni di Flamia, le nuove prove su Obinu e il “protocollo farfalla”
Un ulteriore tema di prova piuttosto articolato all'interno della Memoria dei Pg è quello sulle rivelazioni del collaboratore di giustizia Sergio Rosario Flamia. Quest'ultimo infatti aveva dichiarato di aver appreso nell'ottobre 1995 da un altro “uomo d'onore” di Bagheria, Domenico Di Salvo, di “tenere lontano” Luigi Ilardo. Dichiarazioni che dimostrerebbero come all'interno di Cosa nostra fosse notoria la collaborazione tra il nipote di Piddu Madonia e le forze dell'ordine. Dichiarazioni secondo la Procura false che potrebbero essere state condizionate da “agenti esterni”. E' lo stesso Flamia, in un'intercettazione in carcere mentre si trova a colloquio con il figlio Antonino, a rivelare i suoi rapporti con i servizi segreti. Un “do ut des” che aveva portato nelle sue casse persino la somma di circa 160mila euro. Un rapporto proseguito persino nelle prime settimane in cui aveva avviato la propria collaborazione con la giustizia. Per questo motivo la Procura generale ha chiesto di poter sentire il generale Esposito, direttore dell'Aisi. Nell'indagine sul neo pentito di Bagheria sarebbe poi emerso anche un altro dato ovvero che l'imputato Mauro Obinu sarebbe attualmente un membro dell'Aisi, seppur privo di computi operativi.
I Pg, per depotenziare le accuse nei confronti del colonnello Riccio, hanno chiesto inoltre l'acquisizione delle sentenze con le quali lo stesso Obinu ed il Generale Ganzer sono stati condannati in primo e secondo grado per i ritardati sequestri e di acquisti di sostanze stupefacenti sotto copertura. A dimostrazione che certe azioni erano proprie di alcuni segmenti del Ros.
Tra gli elementi evidenziati nella memoria vi è infine la richiesta d'acquisizione del “protocollo farfalla” evidenziando come alla guida del Sisde nel 2004 (data di sottoscrizione dell'accordo tra servizi e Dap) vi fosse proprio Mori e come uno dei soggetti “sotto osservazione” dei servizi, nell'ambito dell'operazione “farfalla”, vi fosse proprio Rosario Pio Cattafi, ritenuto uomo cerniera fra mafia, massoneria e servizi segreti.
Tutti questi elementi rappresentano pezzi del “puzzle” senza i quali, forse, comprendere realmente quanto avvenuto a Mezzojuso il 31 ottobre 1995 diventa impossibile. Allargando l'orizzonte è sempre più evidente che le indagini compiute dalla Procura portino sempre più allo svelamento di quei “sistemi criminali” che diedero nome a quell'inchiesta archiviata nel 2001. Da parte loro i difensori degli imputati hanno sottolineato come “la strategia politico-giudiziaria dell'accusa è cambiata”. Secondo l'avvocato Musco “Il pg ha presentato un elenco infinito di richieste di testimonianze e di acquisizioni di atti e documenti. Una rassegna di temi così vasta che temo si voglia rileggere la storia d'Italia degli ultimi 40 anni”. E l'avvocato Milio ha aggiunto: “Mi sembra chiaro che si tenti di ampliare il tema del processo”. Il processo è stato quindi rinviato al prossimo 27 ottobre.

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