di Lorenzo Baldo - 12 giugno 2014
Udienza rinviata al 23 ottobre per problemi procedurali
Meno di venti giorni di preavviso. Una notifica di citazione inviata troppo tardi da una Procura all’indirizzo di un avvocato che risulta deceduto, e un processo che viene rinviato. La sintesi della mattinata odierna al tribunale di Viterbo racchiude in sé un inquietante interrogativo: si vuole realmente la verità sulla strana morte di Attilio Manca? La legge prevede che la notifica debba arrivare almeno venti giorni prima della citazione (in questo caso è giunta diciassette giorni prima, ndr). Praticamente questo ritardo, che ha riguardato l’unica imputata del processo Monica Mileti (accusata di aver venduto la dose fatale di eroina che il 12 febbraio 2004 ha causato il decesso del giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto), ha bloccato il relativo procedimento che doveva iniziare oggi. Siamo di fronte ad una procura ritardataria, ma anche ad un collegio difensivo decisamente astuto. “Se da un lato c’è stata una sorta di ‘furbizia’ della difesa dell’imputata nell’eleggere come domicilio lo studio di un avvocato deceduto – spiega Antonio Ingroia, legale della famiglia Manca insieme a Fabio Repici – questa è la dimostrazione di una storia tormentata, e questo è solo l’ennesimo tassello. C’è sempre un piccolo-grande ostacolo che ritarda la strada verso la verità. E’ del tutto evidente che ci sono verità così imbarazzanti che devono essere tenute nascoste. E, pur senza vedere congiure e complotti, è un dato di fatto che simili ‘intoppi’ accadono sempre in vicende come queste, mai in processi ‘normali’…”.
Il giudice monocratico Eugenio Turco ha dichiarato infatti la nullità della citazione rinviando il tutto al prossimo 23 ottobre. Amarezza, delusione, rabbia e tanto dolore per i familiari di Attilio venuti dalla Sicilia per presenziare all’udienza. “La gravità non è rappresentata tanto dallo sbaglio procedurale in sé – ha dichiarato a caldo Gianluca, fratello del giovane urologo –, bensì riguarda l’errore commesso da una Procura che nel tempo si è resa responsabile di omissioni e ritardi. Questo non è un procedimento come tutti gli altri, la Procura avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione. Per l’ennesima volta abbiamo assistito ad uno spettacolo indegno. Che ha fatto piangere di dolore mia madre… Ormai io non credo più ai ‘casi’ della vita, tutto ciò mi sembra invece che venga fatto intenzionalmente…”. Dello stesso avviso la madre di Attilio, Angelina che, pur piegata dalla sofferenza, non si è mai arresa. Ma oggi la misura è decisamente colma. “Sono amareggiata, tanto… fanno di tutto per ritardare, per depistare, per non farci arrivare alla verità… ci vogliono far stancare in ogni modo, e tutto questo è vergognoso…”.
Antefatto
“Dall’ormai lontanissimo anno 2004 (al 15 novembre di quell’anno risale l’atto di opposizione alla prima richiesta di archiviazione proposta dal p.m.) si sono sollecitati atti d’indagine e, al contempo, si sono proposte interpretazioni delle risultanze del fascicolo sulla scorta di fatti incontrovertibili noti ai genitori di Attilio Manca o al sottoscritto difensore”. E’ il 17 giugno 2012 quando l’avvocato Fabio Repici inoltra formale opposizione alla quarta richiesta di archiviazione per quello che a tutti gli effetti appare come l’omicidio del giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Me). Nell’atto depositato alla Procura di Viterbo l’avv. Repici è alquanto esplicito. “La maggior parte di quelle sollecitazioni e di quelle richieste sono rimaste a tutt’oggi inevase dal pubblico ministero, che alle volte ha perfino rifiutato, sdegnato, i fatti su cui quelle sollecitazioni poggiavano. Eppure, a rileggere oggi ancora una volta tutte le memorie depositate nell’interesse dei genitori di Attilio Manca, tutti gli atti di opposizione alle ripetute richieste d’archiviazione (seguite da tre ripetuti rigetti da parte del G.i.p.: quasi un record nel panorama giudiziario del paese), tutti i documenti di volta in volta prodotti (puntualmente trascurati dal P.m.) un osservatore intellettualmente onesto non può non avvedersi della fondatezza e della coerenza di tutte le deduzioni offerte e della scarsa giustificabilità della disattenzione che esse hanno incontrato”. Di fatto questa dettagliatissima opposizione alla richiesta di archiviazione aveva ottenuto un primo importante risultato: l’apertura di un processo.
Giustizia per Attilio
Sono passati quattro mesi da quando il gup di Viterbo, Franca Marinelli, ha rinviato a giudizio per spaccio la romana Monica Mileti. Per la Procura è stata lei ad aver ceduto al giovane medico la dose di eroina (mischiata a dei tranquillanti) che lo ha ucciso la notte tra l’11 e il 12 febbraio 2004. Contestualmente sono state archiviate le posizioni di cinque indagati nell'ambito del supplemento d'indagini sulla morte di Attilio Manca. Si tratta di: Angelo Porcino (arrestato nelle operazioni antimafia “Gotha” e “PozzoII”, secondo il pentito Carmelo Bisognano farebbe parte del clan dominante di Barcellona Pozzo di Gotto), Ugo Manca, cugino di Attilio (condannato in primo grado per traffico di droga e assolto in appello), Salvatore Fugazzotto, Andrea Pirri e Lorenzo Mondello, tutti residenti a Barcellona Pozzo di Gotto. In questi 10 anni i genitori e il fratello di Attilio Manca si sono battuti con tutte le loro forze insieme ai loro legali per ribaltare la tesi, frettolosamente accreditata dalla procura di Viterbo, di un “suicidio” legato ad una overdose. A nulla è valsa la dimostrazione del puro mancinismo del giovane urologo come primo elemento discordante alle teorie dell’autoinoculazione formulate dai magistrati viterbesi (proprio sul braccio sinistro sono stati rinvenuti due fori, ndr). E questa è solo una delle tante “anomalie” che ruotano attorno alle indagini a dir poco “ambigue” sulla morte del medico barcellonese.
L’accusa di Ingroia
“Questo è un processo nel quale alla sbarra non ci sono ancora i veri colpevoli dell’omicidio di Attilio Manca”. Nel 10° anniversario della sua morte l’ex pm Antonio Ingroia si era espresso così in merito all’apertura di questo procedimento penale durante il quale, secondo le sue previsioni, emergeranno “i depistaggi”, “le inerzie”, “le coperture”, così come “le pigrizie e le viltà istituzionali” che hanno ostacolato la giustizia in questi 10 anni. “La storia di tutta la famiglia Manca – aveva sottolineato Ingroia – è una storia di grande testimonianza, una storia di come si può essere cittadini dalla parte giusta, combattendo battaglie giuste, anche contro il potere dello Stato che purtroppo sa essere troppe volte ingiusto. Ed è per questo che dobbiamo stare al loro fianco in questa battaglia che è civile e politica, per rendere migliore questa società e questo Stato italiano troppo diseguale”. In quella occasione, durante la quale si presentava il libro di Luciano Mirone “Un ‘suicidio’ di mafia”, lo stesso Ingroia aveva affrontato la questione dell’esame tricologico di Attilio Manca e la menzogna dell’ex capo della Squadra Mobile di Viterbo sulla presenza del giovane urologo all’ospedale di Viterbo nel periodo in cui Provenzano veniva operato alla prostata in Francia. “L’esame tricologico è una farsa”, aveva spiegato il legale, specificando poi che la procura di Viterbo aveva posteriormente cercato di tirare fuori quella che aveva definito la “prova decisiva” (della tossicodipendenza di Attilio, ndr) attraverso l’esame del capello nel quale risultava un “pregresso uso di sostanze stupefacenti”. Secondo la ricostruzione di Ingroia era del tutto evidente che fosse risultata la presenza di sostanze stupefacenti in quanto la relazione autoptica, per altro del tutto incompleta (tanto che il Gip in seguito si è trovato costretto a ordinarne un’integrazione), così come quella tossicologica, avevano attestato che nel sangue e nelle urine di Attilio Manca erano presenti tracce di un rilevante quantitativo del principio attivo contenuto nell’eroina, di un consistente quantitativo di Diazepam (principio attivo contenuto nel sedativo Tranquirit), e di non ingente sostanza alcoolica. Di fatto la causa della morte di Attilio Manca veniva ricondotta all’effetto di quelle tre sostanze che avevano provocato l’arresto cardio-circolatorio e l’edema polmonare. La questione quindi era, ed è, quella di individuare chi e perché aveva inoculato ad Attilio quelle sostanze. E soprattutto: il test tricologico non aveva attestato che ci fosse stato un “abituale” uso di sostanze stupefacenti, bensì “pregresso”. Un evidente paradosso. Che la stessa procura di Viterbo aveva cercato di mascherare adducendo al fatto che il loro perito, in realtà, avrebbe voluto scrivere “abituale uso di stupefacenti”, ma che “si era espresso male”. Un “caso esemplare di malagiustizia”, aveva ribadito Ingroia. Che si era ulteriormente soffermato sul “depistaggio” che ha visto coinvolto l’ex capo della Squadra Mobile di Viterbo, Salvatore Gava, già condannato per un falso verbale all’epoca delle violenze alla scuola Diaz. “Attilio Manca – aveva evidenziato l’ex pm – era assente (all’ospedale di Viterbo, ndr) nei giorni che coincidono con la telefonata fatta alla madre nel periodo in cui si trovava in Francia, nello stesso periodo in cui Provenzano era andato in Francia a farsi operare”. Per Ingroia, quindi, la versione di Gava era da circoscrivere all’interno di un “depistaggio intenzionale”. “Questo depistaggio – aveva ribadito – ci dà la chiave di lettura del movente dentro il quale è maturato l’omicidio di Attilio Manca”. In merito ad un possibile coinvolgimento di Bernardo Provenzano nella morte di Attilio Manca lo stesso Ingroia si è recato alla Procura di Roma per “rappresentare quali sono le nostre opinioni e chiedere di aprire il caso”.
Muri di gomma
Il prossimo 17 giugno verrà presentato a Palermo il libro di Luciano Mirone “Un suicidio di mafia”. Sarà l’occasione per discutere sui troppi misteri che ruotano attorno a quello che in modo assoluto non è un suicidio, ma soprattutto servirà a ribadire la pretesa di giustizia di una famiglia che, nonostante i continui muri di gomma, si ostina a cercare la verità.
In foto: Attilio Manca e il tribunale di Viterbo
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