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mori-sentenza-procdi Lorenzo Baldo - 28 novembre 2013
Due parole. “Logica” e “Buon senso”. Questi due termini si ripetono spesso nelle 88 pagine del ricorso in appello della Procura di Palermo nei confronti dell’assoluzione per Mario Mori e per Mauro Obinu al processo per la mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso. Di fatto, così come scrive nel documento il pm Nino Di Matteo, sarebbe bastato rifarsi alla logica e al buon senso per comprendere che la mole di prove e riscontri di questo delicato procedimento penale indicavano la colpevolezza dei due imputati (per i quali erano stati richiesti dalla Procura rispettivamente 9 anni e 6 anni e 6 mesi di reclusione). Allo stesso modo altri due vocaboli vengono ripetuti più volte nel documento per qualificare la gravità delle motivazioni di un’assoluzione che fa acqua da tutte le parti: “colpevolmente” e “ingiustificatamente”. Come è noto lo scorso 17 luglio Mori e Obinu sono stati assolti dalla IV Sezione Penale del Tribunale di Palermo presieduta da Mario Fontana (giudici a latere Wilma Mazzara e Annalisa Tesoriere) “perché il fatto non costituisce reato”. Fin dalle prime pagine Di Matteo evidenzia il motivo del ricorso nei confronti di quello che viene definito un “percorso motivazionale per molti  versi illogico e contraddittorio”.

Le numerose incongruenze
Sotto la lente di ingrandimento vengono quindi poste le “numerose incongruenze ravvisabili nella sentenza del Tribunale”. Uno dopo l’altro vengono quindi elencati gli errori della Corte che ha “inopinatamente trasformato il teste chiave dell’accusa, il colonnello Riccio, in una sorta di ‘principale accusato’, svalutando aprioristicamente il suo contributo conoscitivo”. Di fatto il Collegio ha “erroneamente attribuito al solo colonnello Riccio la responsabilità della mancata informazione alla Procura della Repubblica di quelle acquisizioni investigative (in particolare successive all’incontro tra Ilardo e Provenzano in data 31 ottobre 1995) il cui fisiologico sviluppo  avrebbe agevolmente consentito la cattura del latitante e dei suoi favoreggiatori”. Nel ricorso in appello si legge che la Corte ha “clamorosamente ‘dimenticato’, o omesso di considerare, che tale precisa responsabilità non poteva non radicarsi o comunque estendersi ai due odierni imputati che all’epoca rappresentavano il vertice operativo del R.O.S. dei Carabinieri”. Un punto fermo per chiarire subito lo sbaglio di chi ha scritto questa vergognosa sentenza. “Anche il Tribunale – si legge nel documento – riconosce che, nella loro materialità, i fatti contestati sono sussistenti e provati e che si sono articolati in condotte ed omissioni che oggettivamente hanno favorito il perdurare della latitanza dell’allora capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano. La sentenza però ha ingiustificatamente (nell’ottica di sminuire la gravità dei fatti e di escluderne la rilevanza penale, con un iter argomentativo semplicistico e riduttivo) ricondotto il comportamento degli imputati (in particolare la loro assoluta inerzia investigativa) alla loro volontà di ‘non smuovere le acque’ in attesa di un nuovo possibile incontro tra l’Ilardo ed il Provenzano”. Una vera e propria assurdità. Proprio come quella “strategia attendista” che a detta della Corte sarebbe stata finalizzata a preservare l’incolumità di Ilardo stesso. Una strategia del tutto “illogica”.

Un’archiviazione pesante
Nel ricorso della Procura vengono ugualmente citate le conclusioni dell’ordinanza (acquisita al fascicolo del dibattimento) con la quale il G.I.P. di Palermo, in data 19 settembre 2011, ha accolto la richiesta di archiviazione nei confronti del colonnello Riccio in merito all’ipotesi di calunnia nei confronti di Mori e Obinu. “È convincimento di questo Giudice – si leggeva nell’archiviazione del G.I.P. – che la condotta assunta e perpetuata dal Gen. Mori e dal Col. Obinu non sia da ascrivere a difficoltà tecniche od organizzative né ad errori di valutazione. Non vi sono elementi che inducano a ciò. Piuttosto, le acquisizioni istruttorie convergono nell’ascrivere la condotta suddetta ad una deliberata strategia di inerzia -  articolata su più versanti ed ulteriormente protratta pur dopo il deflagrante evento costituito dall’omicidio di Ilardo Luigi - che non trova giustificazione alcuna, non emergendo neppure dagli interrogatori una differente adeguata chiave di lettura, se non nelle finalità di agevolazione recepite dalla imputazione elevata dall’organo inquirente con la richiesta di rinvio a giudizio in atti”. Di fatto per il G.I.P. quei “convergenti elementi” davano “oggettiva contezza” delle “reiterate omissioni” che, nell’ambito delle investigazioni finalizzate alla ricerca ed alla cattura di Provenzano “hanno contrassegnato l’attività istituzionale degli Ufficiali del R.O.S. preposti all’attività di polizia giudiziaria”. Insomma una “accertata condotta omissiva” risultata oggettivamente “volta a salvaguardare lo stato di latitanza di Provenzano”, così da preservare dalle iniziative della magistratura gli altri boss mafiosi come Giovanni Napoli e Nicolò La Barbera “che quella latitanza hanno lungamente gestito”. Parole inequivocabili. Che però sono state del tutto ignorate dal presidente Fontana.

Logica e buon senso
“Sulla base di elementari criteri di logica e buon senso – si legge ancora nel documento – non è ragionevole sostenere che, ancora una volta, l’imputato Mori si sia reso protagonista di condotte ‘anomale ed opache, oggettivamente integranti l’ipotesi del favoreggiamento’, ma senza essere mosso dal dolo necessario ad integrare il reato. Siffatta conclusione, formulata dal Tribunale in esito all’iter argomentativo della sentenza, risulta oggettivamente non plausibile ove si considerino intanto la caratura e l’esperienza professionale del colonnello Mori e, parallelamente, l’importanza e lo spessore criminale dei mafiosi che hanno tratto beneficio dalle condotte ‘anomale’ del predetto ufficiale dei Carabinieri”. Di Matteo specifica ulteriormente che la Corte, nel valutare “l’asserita insussistenza dell’elemento psicologico del reato”, ha a tutti gli effetti “erroneamente adottato il metodo della frammentazione, atomizzazione e mancata integrazione reciproca di elementi di prova direttamente concernenti anche vicende strettamente collegate a quella oggetto diretto della contestazione”. Il riferimento esplicito va proprio alla sentenza definitiva per la mancata perquisizione del covo di Riina (così come per la vicenda legata alla mancata cattura di Nitto Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto). Riprendendo ampi stralci della suddetta sentenza Di Matteo sottolinea come “le stesse situazioni”, solo un po’ di tempo dopo, “si verificarono nella anomala gestione, da parte del solito Mori, della vicenda Ilardo-Provenzano”. Per il pm quindi “non è seriamente ipotizzabile che le anomalie, le opacità, la ripetuta violazione delle regole di comunicazione nei confronti dell’Autorità Giudiziaria, l’adozione di scelte rivelatesi oggettivamente sciagurate per l’efficacia delle investigazioni e ‘a contrario’ favorevoli per Cosa Nostra, possano essere sempre ed esclusivamente addebitabili alle improbabili negligenze di chi (il colonnello Mori) di quelle scelte, nella sua qualità di comandante operativo del raggruppamento, fu il principale responsabile. Se veramente si continuasse a sostenere il contrario, si offenderebbe la logica”.

Grande Oriente
“Nel valutare i fatti emersi dal dibattimento – scrive ancora Di Matteo –, il Tribunale, innanzitutto, non ha adeguatamente evidenziato l’eccezionalità, le peculiarità e l’enorme importanza dell’indagine (c.d. ‘Oriente’) immediatamente e brillantemente sviluppatasi sulla base del rapporto confidenziale instauratosi tra Ilardo Luigi ed il colonnello Riccio. La sostanziale gravissima svalutazione della importanza di quell’indagine, e degli straordinari risultati fin da subito conseguiti, ha indotto il Tribunale a trattare erroneamente l’intera vicenda, e quindi anche le responsabilità operative degli odierni imputati, come una ‘normale’ ed ordinaria attività di acquisizione di informazioni da un ‘qualsiasi’ confidente”. “La realtà che emerge dal processo è invece quella di una vicenda investigativa assolutamente unica nella storia della mafia e delle investigazioni sulla mafia. Il confidente, l’infiltrato Ilardo Luigi, svelava in segreto al colonnello Riccio gli assetti e le dinamiche interne ed esterne di Cosa Nostra in un momento in cui continuava a ricoprire il ruolo di reggente delle province mafiose di Caltanissetta ed Enna”. Nel documento viene rimarcato con forza che attraverso l’indagine “Grande Oriente” i Carabinieri del R.O.S., “per esclusivo merito di Riccio”, fin dal secondo semestre del 1995, “ebbero in mano la chiave non solo per arrestare Provenzano ma per aprire quella porta che avrebbe consentito di individuare e scardinare quel sistema di potere mafioso facente capo al Provenzano che, ancora per lunghi anni, dominò invece incontrastato sul territorio”. Una chiave che, evidentemente, faceva troppa paura ai vertici del R.O.S..

Carta canta
I riscontri alle dichiarazioni di Riccio sul suo periodo di aggregazione al R.O.S. arrivano ugualmente dalle annotazioni della sua agenda del 1995, così come da quella di Mori del 1994. Nel ricorso in appello viene sottolineato altresì come il Tribunale non abbia “adeguatamente valorizzato” le testimonianze degli ispettori Arena e Ravidà della Dia di Catania, del generale Bozzo dei Carabinieri, così come dei magistrati Principato e Marino. “Dal compendio di tali dichiarazioni – si legge nel documento – emerge che, ben prima di rivolgersi nel 2001 a quest’Autorità Giudiziaria, Riccio aveva confidato in più occasioni e a diversi soggetti che la vera paternità della scelta di non intervenire a Mezzojuso per arrestare Provenzano era del colonnello Mori che aveva così deciso disattendendo le, del tutto contrapposte, proposte operative del medesimo Riccio”. “Tali confidenze il Riccio aveva reso, in epoca assai prossima e di poco successiva all’incontro di Mezzojuso, agli ispettori della D.I.A. Arena e Ravidà ed al suo amico e collega generale Bozzo. Successivamente all’uccisione di Ilardo, ma prima ancora del deposito del rapporto ‘Grande Oriente’, alla dottoressa Principato della Procura di Palermo ed al dott. Marino della Procura di Catania”. Per quanto riguarda la mancata annotazione di determinate circostanze, da parte dello stesso Riccio, nel rapporto “Grande Oriente” (la vicenda di Mezzojuso, così come il riferimento ai nomi di politici, compreso quello che “rappresentava l’entourage di Berlusconi”, e cioè Marcello Dell’Utri, ndr), Di Matto ribadisce che “è sufficiente ricordare che la  materiale stesura della suddetta informativa avvenne sotto il pressante e diretto controllo del R.O.S., con la collaborazione di un ufficiale (il capitano Damiano) direttamente incaricato dagli imputati e con il materiale assemblamento dei ‘files’ informatici negli uffici romani dello stesso R.O.S.”. Il pm specifica quindi che l’informativa “doveva essere presentata dal R.O.S.; sottoscritta da ufficiali del R.O.S. - ed in particolare da Obinu - certamente filtrata ed ‘approvata’ in ogni suo passaggio, prima della consegna all’Autorità Giudiziaria, dagli ufficiali responsabili della sezione Criminalità Organizzata del R.O.S.. Quegli stessi ufficiali, Obinu e Mori, che avevano chiesto a Riccio di non inserire, nel rapporto in questione, alcun riferimento alla vicenda di Mezzojuso”. Per Di Matteo è del tutto evidente che lo stesso Riccio “nella predisposizione della bozza del rapporto, agiva ‘sotto il controllo e la tutela degli odierni imputati’. Ciò anche a prescindere, e ben più intensamente, dalla semplice ed istituzionale subordinazione gerarchica al colonnello Mori”. In merito alla paternità delle scelte operative antecedenti il summit di Mezzojuso il pm evidenzia che il colonnello Riccio era un semplice “aggregato” al R.O.S. e come tale “non poteva disporre o ordinare alcunchè nemmeno nei confronti dei colleghi inferiori di grado”. Ecco perché “la paternità della decisione finale su una questione così delicata non poteva che competere esclusivamente al Comandante operativo del R.O.S. e quindi al colonnello Mori”.

Domande e risposte
“Se, come affermano gli imputati – si domanda il pm –, la mancata attivazione di qualsivoglia indagine sul casolare era esclusivamente frutto della scelta operativa di attendere il nuovo incontro di Ilardo con Provenzano, perché gli effetti di quella scelta, l’inerzia più totale, si protrassero anche quando si ebbe notizia dell’uccisione di Ilardo? O, addirittura ancor prima, quando fu chiaro agli stessi imputati (che lo hanno più volte ricordato e per questo hanno detto di avere pressato Riccio per indurre Ilardo ad intraprendere una formale collaborazione con i magistrati, già alcuni mesi prima dell’omicidio) che Ilardo non sarebbe più riuscito ad ottenere un ulteriore incontro con Provenzano? Almeno in quel frangente il R.O.S. avrebbe potuto e dovuto, a questo punto senza rischiare di compromettere alcun potenziale vantaggio, attivare quella attività tecnica sui luoghi, che avrebbe facilmente portato alla individuazione di Provenzano”. Domande e riflessioni che nella loro disarmante semplicità pesano come macigni. Ed è proseguendo nella lettura che ci si imbatte in altrettante risposte e spiegazioni ai tanti interrogativi incontrati. Di Matteo ribadisce che “il collegamento, ritenuto in sentenza, tra la mancata attivazione di indagini e controlli sui soggetti che gestivano la latitanza di Provenzano e la ritenuta cautela tesa a non pregiudicare la possibilità di un ulteriore incontro tra il confidente ed il latitante, crolla miseramente al vaglio della logica e di un elementare buon senso”. Una volta di più ritornano a primeggiare sulle pagine del documento le parole “logica” e “buon senso”. “La verità è molto più lineare nella sua semplicità – scrive ancora il pm –. Le indagini tecniche non vennero avviate perché avrebbero comportato il necessario coinvolgimento della Procura della Repubblica e la preventiva condivisione con l’Autorità Giudiziaria di un patrimonio informativo che in quel momento doveva restare, per continuare a garantire la latitanza di Provenzano, nella esclusiva disponibilità degli imputati”.

Silenzi e congiure
Per spiegare le ragioni dei gravi “silenzi” da parte del R.O.S. nei confronti della Procura di Palermo Nino Di Matteo specifica quindi che la vicenda “non si sviluppò secondo i parametri della normalità e della correttezza perché, è questa la verità inconfessabile, in quel momento la volontà dei responsabili del R.O.S., degli odierni imputati, era contraria, era ostile ad ogni possibilità di approfondimento e progressione investigativa. E, proprio per questo motivo, per gli imputati costituiva primaria necessità il mantenimento del silenzio nei confronti dell’Ufficio di Procura che doveva essere assolutamente tenuto all’oscuro di quanto stava accadendo”. Ecco allora che questo “silenzio omertoso del R.O.S.” relativo alla mancata comunicazione all’Autorità Giudiziaria di “acquisizioni informative così importanti”, concernenti Provenzano, “strideva intanto con la prassi operativa consolidata ed indiscussa in tema di rapporti e comunicazioni tra la polizia giudiziaria e la Procura della Repubblica in merito a notizie - anche confidenzialmente apprese - ritenute potenzialmente utili al rintraccio di un latitante”. Dopo un brevissimo accenno alla testimonianza di Giancarlo Caselli, definita “assolutamente lacunosa per il cattivo ed approssimativo ricordo dell’intera vicenda Ilardo-Riccio”, si arriva ad un successivo riferimento relativo alla nota operazione antimafia denominata “Scacco al Re” ulteriormente “dimenticata” dal Tribunale.
“Assolutamente impropria – specifica ulteriormente Di Matteo – appare la stigmatizzazione del presunto, e in realtà insussistente, ritardo con il quale il teste Amurri (Sandra, ndr) ha riferito alla Procura della Repubblica di Palermo il contenuto di un colloquio tra l’onorevole Mannino e l’onorevole Gargani, casualmente captato nel dicembre del 2011 nei pressi di un noto bar romano (“Hai capito, questa volta ci fottono: dobbiamo dare tutti la stessa versione. Spiegalo a De Mita, se lo sentono a Palermo è perché hanno capito. E, quando va, deve dire anche lui la stessa cosa, perché questa volta ci fottono. Quel cretino di Ciancimino figlio ha detto tante cazzate, ma su di noi ha detto la verità”, ndr).   

Dolo o non dolo
Entrando nello specifico del capo di imputazione, secondo l’analisi del pm, la Corte avrebbe dovuto ritenere “pienamente provato anche il dolo necessario ad integrare il contestato reato di favoreggiamento”. Per spiegare meglio la questione giuridica Di Matteo ricorda che “il soggetto deve dunque avere la consapevolezza e la volontà di portare aiuto ad una persona, nei confronti di investigazioni e ricerche dell’Autorità di Giustizia, che si sanno in atto o che, semplicemente, si prevedono a carico dell’aiutato. Per la sussistenza del dolo (come da costante e consolidata giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione) è sufficiente nell’agente la consapevolezza di fuorviare con la propria condotta le investigazioni o le ricerche dell’Autorità; è irrilevante lo scopo che l’agente intende raggiungere. Sulla base di questi principi il Tribunale avrebbe certamente dovuto giungere alla conclusione della piena sussistenza dell’elemento soggettivo che avrebbe conseguentemente portato all’affermazione della penale responsabilità di entrambi gli imputati”.

Non collusi, ma consapevoli
“Gli imputati – ribadisce Di Matteo nel documento riprendendo un passo della sua requisitoria – non favorirono Provenzano ed i suoi sodali  perché genericamente collusi con l’organizzazione mafiosa né tanto meno perché ipoteticamente corrotti o costretti e condizionati dalla paura o dal ricatto. Più semplicemente il colonnello Mori (e per l’effetto il suo sottoposto Obinu) in un determinato frangente storico, particolarmente delicato per il nostro Paese, probabilmente assecondando indirizzi di politica criminale anche da altri soggetti predeterminati, per contrastare la deriva stragista imposta da Salvatore Riina e dai suoi sodali di più stretto riferimento, ha ritenuto di trovare un rimedio nell’assecondare la prevalenza, in seno alla compagine mafiosa, della sua ala più moderata”. “Quella in quel momento refrattaria alla prosecuzione di una strategia criminale di frontale e violenta contrapposizione alle Istituzioni, da realizzare attraverso attentati eclatanti ed omicidi eccellenti. Gli odierni imputati hanno, in sostanza, posto in essere le condotte incriminate per favorire la fazione mafiosa riconducibile al Provenzano, del quale (prima condizione indispensabile per rafforzarne il peso ed il ruolo di vertice in Cosa Nostra) era necessario garantire il perdurare dello stato di latitanza”. Seguendo il filo della sua ricostruzione il pm specifica inoltre che il colonnello Mori “in un frangente temporale, caratterizzato dal profilarsi di una sempre più evidente spaccatura nel vertice mafioso, ha ‘coperto’ la latitanza di Provenzano per consolidare il potere della fazione di Cosa Nostra che (in esito ai taciti accordi scaturiti dal periodo stragista, dalle minacce alle Istituzioni e dalle parallele trattative) aveva promesso e garantito il definitivo abbandono della linea di scontro violento ed incondizionato con lo Stato”. (segue)

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