di Lorenzo Baldo - 15 ottobre 2013
Palermo. L’unica consolazione è che la lettura di queste pagine è stata risparmiata ad Agnese Borsellino. La motivazione della sentenza di assoluzione per Mario Mori e Mauro Obinu al processo per la mancata cattura di Provenzano arriva a cinque mesi dalla morte della vedova del giudice assassinato in via D’Amelio. In una sorta di grande calderone - dove interi pezzi di storia vengono messi in discussione - anche le dichiarazioni di questa donna indomita vengono private del loro valore. “Resta senza riscontro – si legge nel documento – l’eventualità che Paolo Borsellino abbia in qualche modo manifestato la sua opposizione ad una trattativa in corso fra esponenti delle Istituzioni statali e associati a Cosa Nostra”. Mario Fontana, presidente della IV sezione del Tribunale (giudici a latere Wilma Mazzara e Annalisa Tesoriere), si spinge anche oltre affermando che “non vi è prova dell’infedeltà del generale dei carabinieri Antonio Subranni”. Proprio quell’ufficiale di cui Paolo Borsellino aveva parlato alla moglie prima di essere ammazzato definendolo “punciutu”, e cioè affiliato a Cosa Nostra. Per i giudici non basta quindi la testimonianza della signora Agnese.
Tutto e il contrario di tutto
Alla luce del ragionamento del Collegio giudicante è però “immaginabile, ma non sufficientemente provata l’esistenza di un disegno di personaggi di spicco della Democrazia cristiana, avallato o meno dal generale Subranni, volto ad aprire un dialogo con i vertici di Cosa Nostra al fine di evitare ulteriori, cruente manifestazioni di violenza”. Tutto e il contrario di tutto. Nessuna zona d’ombra però sulla revoca degli oltre 300 41bis attuata nel novembre del ’93. Per il tribunale, fu solo “un parziale cedimento” per evitare altre stragi e non “il risultato di un accordo”. Una vera e propria schizofrenia. Nelle oltre 1300 pagine viene di fatto decontestualizzato il periodo storico sapientemente ricostruito dai pm (che avevano chiesto 9 anni per Mori e 6 anni e mezzo per Obinu) per illustrare il contesto nel quale si era verificato il fallito blitz a Mezzojuso. Le prime 800 pagine scorrono così in un crescendo di rivisitazione storica. Ecco allora che, a detta del presidente Fontana, il patto scellerato tra Stato e mafia svanisce. Restano solamente scelte operative “discutibili” e comportamenti “opachi” degli imputati.
Le “indicazioni” del Collegio giudicante
“Dedicare le prime ottocento pagine a un tema che è stato trattato dall’accusa solo come ipotesi di movente – ha affermato a caldo il procuratore aggiunto Vittorio Teresi – e occuparsi solo in minima parte del tema principale del processo, cioè la mancata cattura di Provenzano, è un modo curioso che ha scelto l’estensore di scrivere le decisioni”. Più che “curioso” verrebbe da dire “mirato”, così come la stessa tempistica: due giorni prima dell’udienza del processo sulla trattativa nella quale verranno decisi i testi da ammettere. Quasi fosse una indicazione sulla caratura dei testimoni e sulla validità del materiale probatorio per quel processo. Senza alcun motivo i giudici si avventurano poi in ulteriori ipotesi decisamente azzardate. “Men che meno il tribunale – scrivono – potrebbe, sulla scorta delle incerte indicazioni di Martelli, disporre la trasmissione degli atti al pm per il delitto di falsa testimonianza a carico di Mancino”. Il riferimento viene rivolto alle accuse sollevate da Claudio Martelli nei confronti dell’ex ministro dell’Interno per non essersi attivato per fermare i contatti tra il Ros e Vito Ciancimino. Una valutazione del tutto gratuita.
I verbali inviati in Procura
La decisione della IV sezione penale di rispedire i verbali di Massimo Ciancimino e Michele Riccio alla Procura (che dovrà decidere se indagarli per calunnia) racchiude in sé il pessimo giudizio sui testi cardine di questo processo (manifestato in più paragrafi del documento) formatosi all’interno del “libero convincimento del giudice”. Ed è esattamente su quel “libero convincimento” che restano aperti dubbi e interrogativi. “Le peculiari circostanze che caratterizzarono l’episodio del 31 ottobre 1995 e la stessa, personale esperienza investigativa del col. Riccio – scrivono ancora i giudici nella sentenza – non consentono di nutrire alcuna certezza in ordine all’esito fausto che la operazione avrebbe potuto avere se fossero state prescelte linee di azione diverse”. Un ragionamento del genere lascia campo libero ad ogni interpretazione, con il conseguente azzeramento dell’impianto accusatorio. Fine del processo: liberi tutti.
Quale epilogo
A nulla serve sottolineare, così come fanno i giudici, la “condotta attendista” di Mori e Obinu, che, se pur sufficiente a configurare “in termini oggettivi” il favoreggiamento a Cosa Nostra, non prova che “le scelte operative in questione, giuste o errate, siano state dettate dalla deliberata volontà degli imputati di salvaguardare la latitanza di Bernardo Provenzano o di ostacolarne la cattura”. Un vero e proprio “virtuosismo” giuridico che arriva quindi a puntare il dito sulle scelte operative dei due imputati definite appunto “discutibili” e soprattutto “astrattamente idonee a compromettere il buon esito di una operazione che avrebbe potuto procurare la cattura di Provenzano”.
“Il fatto non costituisce reato” recita il dispositivo di assoluzione. Certo è che se “l’omissione” l’avesse fatta lo stesso colonnello Riccio Mori e Obinu dovevano essere assolti “per non aver commesso il fatto”. Mentre se “l’omissione” non ci fosse stata allora dovevano essere assolti “perché il fatto non sussiste”. Ma, come è noto, il nostro è il Paese delle assoluzioni ibride, gravide di ombre. Al di là delle quali resta però il grande lavoro della Procura di Palermo (che ha già fatto sapere di volere impugnare la sentenza) che, basandosi principalmente sulla coraggiosa testimonianza di Michele Riccio, ha il merito di avere comunque cercato di fare luce su un pezzo di storia del nostro Paese volutamente occultato. Che ancora deve emergere in tutta la sua interezza.
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