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carabinieri-web16di Lorenzo Baldo - 8 ottobre 2013
Palermo. E’ un’aula spoglia quella della IIa sezione penale, poche sedie, amplificazione spenta. Talmente spoglia che risulta priva della frase-simbolo di tutti i tribunali: “La legge è uguale per tutti”. Quel cartello non c’è da nessuna parte. Un vuoto che riassume l’essenza dell’odierna sentenza al processo contro Saverio Masi. La legge non è uguale per tutti. E i fatti lo dimostrano una volta di più. La conferma della sua condanna (da 8 mesi ridotta a 6, pena sospesa) arriva dopo un paio d’ore di camera di consiglio. I giudici della Corte di Appello fanno il loro ingresso sotto gli occhi di decine di cittadini appartenenti al movimento delle Agende Rosse venuti (prettamente dal nord Italia) per manifestare sostegno e solidarietà al carabiniere Masi, caposcorta del pm Nino Di Matteo. Il presidente della Corte è Daniele Marraffa, giudici a latere: Gaetano La Barbera e Salvatore Barresi. Barresi è noto per la sua partecipazione al Collegio che nel 1999 assolse in I° grado Giulio Andreotti nel processo per partecipazione all’associazione mafiosa; in aula c’è chi lo ricorda con malcelato pessimismo. Nel 2011 il M.llo Masi era stato condannato (con rito abbreviato) a 8 mesi per falso materiale, falso ideologico e per tentata truffa. Secondo l’accusa avrebbe falsificato un atto del proprio ufficio per far annullare una sanzione del codice della strada di 106 euro, riportata durante un servizio svolto con una vettura privata, nel 2008, quando era in forza al Nucleo Investigativo del Comando Provinciale dei Carabinieri di Palermo. A distanza di due anni quella condanna viene “alleggerita” del capo di imputazione di falso ideologico. In aula i legali del maresciallo Masi, Giorgio Carta e Sandro Grimaldi, commentano a caldo la sentenza. “Ci devono spiegare perché quel falso materiale dovrebbe essere idoneo a incidere nell’annullamento della sanzione visto che ci sono altri presupposti, e la mera negazione di stare in servizio non è sufficiente per ottenere l’annullamento della sanzione”.

Di fatto i giudici hanno ritenuto che Masi fosse effettivamente in servizio, colpevole, secondo loro, di avere firmato un atto. “E’ caduto il falso ideologico – spiegano i due avvocati – proprio perché è stato ritenuto in servizio. Il falso ideologico era l’obbrobrio del diritto”. Alla domanda sul tipo di “segnale” che questa sentenza potrebbe rappresentare è lo stesso avvocato Carta a rispondere: “lo Stato avrebbe comunque lanciato un segnale anche con l’assoluzione di Masi, ovviamente è più forte quello che arriva con la condanna. Ora un qualsiasi carabiniere saprà che se persegue qualcosa contro la volontà dei suoi superiori dovrà subire una trafila di processi. Questo non è il Paese giusto per fare le indagini come si vuole”. Nell’odierna arringa conclusiva l’avvocato Grimaldi aveva chiesto l’assoluzione per Masi “perché il fatto non sussiste”, o in subordine “perché il fatto non costituisce reato”. Nella memoria successivamente consegnata ai giudice della Corte di Appello lo stesso Grimaldi - per evidenziare l’insussistenza della responsabilità penale dell’imputato – si era soffermato sul “principio di offensività” espressione della cosiddetta “concezione realistica del reato”. “Perché un fatto possa ritenersi penalmente rilevante – aveva specificato – è necessario che lo stesso sia idoneo ad offendere o porre in pericolo il bene giuridico tutelato”. In questo caso non vi è alcuna traccia logica di offesa o pericolo per il bene giuridico tutelato. Il vero e proprio accanimento nei confronti del maresciallo Masi si concretizza ulteriormente attraverso una sentenza che racchiude incongruenze, assurdità e soprattutto una profonda ingiustizia. carta-giorgio-grimaldi-sandroAccusare un carabiniere di aver tentato di farsi annullare una contravvenzione di 106 euro dopo una vita passata ad anticipare di tasca propria svariate spese di servizio legate ad attività di indagine significa sfiorare il grottesco. Soprattutto quando le accuse nei suoi confronti si basano su dati oggettivi palesemente falsi come la asserita “rarissima concessione dell’utilizzo di auto private per l’espletamento di servizi di indagine”. Un’affermazione smentita dagli stessi appartenenti alle forze dell’ordine, così come dal sindacato di Polizia “Coisp”, anche oggi presente in aula attraverso un suo rappresentante. Sarebbe bastato depositare ulteriori memoriali di servizio che avrebbero attestato l’effettivo utilizzo di auto private per l’espletamento di servizi di indagine. Memoriali che, però, sono stati negati con forza dal Comando Provinciale e di cui la stessa Corte non si è voluta interessare. Colpirne uno per educarne cento, recita il detto. E così è stato. Dal canto loro gli avvocati hanno provato a sottolineare che per poter ritenere “menzognera” la dichiarazione di Saverio Masi occorreva “la prova, gravante sulla pubblica accusa, che in data 19 gennaio 2008 l’odierno imputato, pur comandato in servizio, stesse svolgendo altra e diversa attività non riconducibile ne direttamente ne indirettamente al servizio comandato, con conseguente integrazione altresì del delitto di truffa ai danni dello Stato, che la procura ben si guarda dal contestare”. Tutto questo non c’è stato. Si è di fatto innescato un meccanismo frenetico che ha utilizzato ogni mezzo per screditare, delegittimare e isolare un servitore dello Stato che ha avuto il coraggio di denunciare le gravi omissioni dei suoi superiori. Omissioni che hanno riguardato le mancate catture di Provenzano e Messina Denaro. Ecco allora che si è arrivati a gettare fango sulla figura di un sottoufficiale dei carabinieri che verrà chiamato a testimoniare al processo sulla trattativa Stato-mafia per fare luce proprio su quelle ombre che gravitano attorno alle metodologie utilizzate dall’Arma dei carabinieri che avrebbero garantito le latitanze di alcuni boss mafiosi di prima grandezza come Provenzano e Messina Denaro. Che questa sua “disobbedienza” nei confronti dell’Arma abbia influito prepotentemente nel suo processo nessuno lo ammette. Resta il fatto che un’accusa palesemente inconsistente ha portato ad una conferma di condanna altrettanto inconsistente che peserà sulla vita del sottoufficiale dei carabinieri e sulla stessa credibilità dell’Arma. “Il maresciallo capo dei Carabinieri, Masi – aveva affermato la scorsa udienza l’avvocato Carta –, non rischia di fare neanche un giorno di galera, il massimo che succede qui è la conferma della condanna, ingiusta, di otto mesi, sospesa. E’ vero però che in base all’articolo 33 del codice penale militare di pace, applicabile ai militari, questo reato (se accertato con sentenza definitiva) comporta la destituzione: la perdita del lavoro, l’unica fonte di sostentamento sua e della sua famiglia. Un gravissimo danno non solo al maresciallo Masi, ma all’immagine dello Stato e all’efficacia di quegli apparati tra le forze di polizia come i carabinieri”. L’iter giudiziario prosegue ora con l’attesa del deposito delle motivazioni, il ricorso in Cassazione e, in caso di conferma, l’azione disciplinare che vedrà lo stesso Masi rischiare definitivamente la destituzione dall’Arma. Un senso profondo di amarezza, rabbia e disgusto rimane nei confronti dei pavidi che hanno caratterizzato questa vicenda. Allo stesso modo resta la grande dignità di chi, sfidando un sistema di potere, ha continuato a testimoniare una verità scomoda. Che giorno dopo giorno riaffiora sempre di più in superficie.

In foto: i legali del maresciallo Masi, Giorgio Carta e Sandro Grimaldi

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