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di-matteo-nino-c-giannini-big1Le repliche di Nino Di Matteo a pochi giorni dalla sentenza
di Lorenzo Baldo - 12 luglio 2013
Palermo. All’insegna dell’individuazione della “pretestuosità” e dell’”infondatezza” di alcuni argomenti difensivi il pm Nino Di Matteo (foto) ha replicato alle arringhe dei legali di Mario Mori e Mauro Obinu. L’udienza odierna del processo per la mancata cattura di Provenzano si è aperta quindi con le dichiarazioni del pubblico ministero nei confronti dell’avvocato Enzo Musco il quale, basandosi su testi del professor Giovanni Fiandaca, aveva definito la contestazione a Mori del reato a cui l’art. 338 (violenza o minaccia a corpo politico dello Stato) un’”infondatezza giuridica”. Di fatto all’ex capo del Ros era stata contestata l’aggravante di non aver arrestato Provenzano “per assicurare a sé e ad altri il prodotto dei reati di cui agli articoli 338, 339, 110 e 416 bis, per i quali si procede separatamente”.

Secondo l’accusa in cambio della cessazione della strategia stragista sarebbero stati assicurati da pezzi dello Stato benefici di diversa natura a Cosa Nostra. E la stessa latitanza di Bernardo Provenzano - garantita anche dal fallito blitz di Mezzojuso del 31 ottobre 1995 - sarebbe stata possibile proprio perché il boss era il garante mafioso dell’accordo tra mafia e Stato.  Per smentire la citazione di Musco relativa a quel capo di imputazione Di Matteo ha quindi riportato la sentenza della Corte di Cassazione del 2 settembre 2005. Con riferimento all’articolo 338 gli ermellini hanno di fatto sancito che:  “per corpi politici vengono intesi quegli organismi che svolgono una funzione politica, come il Parlamento, il Governo e le Assemblee Regionali, purchè il fatto se configurabile non realizzi l’ipotesi del reato di cui all’art. 289, che sanziona invece la condotta quando essa sia impeditiva e non soltanto turbativa dell’attività del corpo politico minacciato”. Una replica autorevole e del tutto oggettiva in risposta a qualsivoglia reinterpretazione giurisprudenziale.

Il “Riccio pensiero”
Di Matteo ha ribattuto quindi ai “giudizi molto duri” del prof. Musco nei confronti del colonnello Riccio, teste principale del processo. Il legale di Mori era arrivato addirittura a ipotizzare una responsabilità dello stesso Riccio nell’omicidio del suo confidente Luigi Ilardo (avvenuto il 10 maggio 1996). A tutti gli effetti un vero e proprio paradosso smentito dai fatti. “Non si può accettare – ha affermato Di Matteo – che si ribaltino contro Riccio argomenti che possono essere rivolti al Ros e a Mori!”. Per contestare quello che la difesa degli imputati ha definito il “Riccio pensiero” il pm ha ribadito la fondamentale importanza delle agende e dei floppy disk del colonnello Riccio ai fini dell’accertamento della verità. “E’ estremamente importante – ha sottolineato il pm – che Riccio abbia scritto quelle cose in quel determinato periodo e non dopo essere stato arrestato dal Ros per i fatti di Genova (il 6 giugno 1997, ndr). Qui non c’è volontà di vendetta!”. Allo stesso modo Di Matteo ha definito “risibile” la tesi della difesa relativa alla possibilità che Riccio avrebbe potuto comunque intervenire a Mezzojuso - bypassando Mori -  impartendo ordini ai suoi sottoposti; un’assurdità anche a fronte del fatto che si trattava di personale che lo stesso Riccio non conosceva, messo a sua disposizione solamente il giorno prima. Proseguendo nel disvelamento delle incongruenze difensive Di Matteo ha evidenziato il paradosso di mettere in dubbio l’attendibilità di Luigi Ilardo quando quest’ultimo, prima della segnalazione del summit di Mezzojuso, aveva già dato prova della propria serietà facendo arrestare importanti latitanti. A suffragio di ciò Di Matteo ha citato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Stefano Lo Verso, Ciro Vara e Antonino Giuffrè, veri e propri elementi di prova “convergenti”. In merito ai dubbi sollevati dai legali di Mori e Obinu sul fatto che la sera del 31 ottobre ’95 il boss di Cosa Nostra fosse effettivamente in quel casolare Di Matteo ha ribadito che “gli stessi imputati”  avevano detto “di essere sicuri della presenza di Provenzano a Mezzojuso”. Il pm ha successivamente affrontato la questione della mancata comunicazione tra il Ros e la procura di Palermo sottolineando come invece il colonnello Riccio non si fosse mai sottratto a quella regola basilare. “E’ la legge che è stata violata (dal Ros, ndr) nella omessa comunicazione con i magistrati”, ha rimarcato. “Per Riccio si è sottolineata la ‘spregiudicatezza’ – ha ribadito amaramente il magistrato – dicendo che solo a Palermo gli si è creduto, agitando le sentenze di Genova e Torino come prova del suo abituale mendacio”. “Ma se Obinu e Ganzer hanno compiuto reati anche più gravi le loro dichiarazioni devono invece essere accolte come il Vangelo!”, ha sottolineato.

Le “insinuazioni” su Masi e i sospetti su Ciuro e Riolo
Il pm ha quindi ribadito le “gratuite insinuazioni” sull’onestà delle dichiarazioni del maresciallo Saverio Masi in merito alla mancata cattura di Provenzano nel 2001. Come è noto le indagini avevano portato Masi a uno sperduto casolare nei pressi di Ciminna (un piccolo comune in provincia di Palermo). Il giorno dopo la cattura del boss Benedetto Spera (30 gennaio 2001) era stata allacciata l’energia elettrica e l’intestatario del contratto apparteneva alla stessa famiglia che aveva firmato il contratto per la luce nel covo di Spera. Abbastanza per indagare su chi vi abitasse all’interno. Ma le indagini erano state bloccate. Quasi un replay del fallito blitz di Mezzojuso. Il pm ha quindi illustrato la “decontestualizzazione” dei fatti utilizzata ad arte dalla difesa degli imputati. L’esempio di Giorgio Riolo e Giuseppe Ciuro definiti da Musco e Milio “le vere talpe di Provenzano” è stato citato a dimostrazione della strategia difensiva. Di fatto il favoreggiamento a Provenzano contestato a Mario Mori riguarda il biennio ‘95/’96, mentre Ciuro e Riolo sono stati arrestati nel 2003 per reati compiuti nel 2002/2003 quando lo stesso Mori aveva già lasciato il Ros da 4 anni. Nello specifico Ciuro è stato condannato per favoreggiamento semplice al costruttore Aiello (che non era un “noto mafioso”, ma un incensurato, successivamente condannato per concorso esterno), per fughe di notizie sulle indagini a carico di Aiello e non sulle ricerche di Provenzano. Riolo invece è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per aver rivelato segreti sulle indagini del Ros (di cui faceva parte) su Provenzano quando, però, al vertice del Ros non c’era più Mario Mori. Si tratta di “dettagli” importantissimi per dimostrare l’inconsistenza delle tesi difensive.

La sentenza dimenticata
Di Matteo ha di seguito sottolineato come la difesa (negando che gli imputati con riferimento ai loro incontri con Vito Cianciminio avessero mai utilizzato il termine “trattativa”) non avesse minimamente citato la sentenza di Firenze del 1998 sulle stragi del ’93 che invece riportava testualmente le loro dichiarazioni con quel termine specifico. “Ma signor Ciancimino – raccontava Mori davanti a giudici fiorentini – , ma cos'è questa storia qua? Ormai c'è muro, contro muro. Da una parte c'è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente? La buttai lì convinto che lui dicesse: 'cosa vuole da me colonnello?' Invece dice: 'ma, sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo'. E allora restammo... dissi: 'allora provi'. E finì così il secondo incontro, per sintesi ovviamente”. (…) “Lui capì a modo suo, fece finta di capire e comunque andò avanti. E restammo d'accordo che volevamo sviluppare questa trattativa”. (…) “Si rividero, sempre a casa di Ciancimino, il 18-12-92. In questa occasione Ciancimino gli disse: ‘Guardi, quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l'intermediario sono io - Ciancimino - e che la trattativa si svolga all'estero. Voi che offrite in cambio?’”. Parole scritte nero su bianco in una sentenza divenuta definitiva, opportunamente taciuta dai legali dei due imputati.

Violante, Mori e Chelazzi
Il pm Di Matteo ha quindi ribadito come la difesa avesse ulteriormente tralasciato di menzionare la richiesta sollecitata da Mori di un incontro riservato tra Vito Ciancimino e Luciano Violante per “motivi politici”, così come avesse dimenticato di citare le dichiarazioni di Claudio Martelli con riferimento all’incontro di Giuseppe De Donno e Liliana Ferraro; per non parlare della legge che imponeva al Ros di informare il personale della Dia, troppe volte violata da quello stesso reparto dell’Arma. Il pm si è quindi soffermato sul ruolo strategico di Francesco Di Maggio all’interno degli scenari più delicati di quegli anni. Del tutto “improprio” a detta di Nino Di Matteo è stato “il richiamo del dott. Chelazzi da parte della difesa”. Il pm ha quindi ricordato che il giudice Chelazzi aveva pensato di iscrivere Mori nel registro degli indagati con l’accusa di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra nell’ambito delle prime indagini sulla trattativa Stato-mafia e che “solo l’apposizione del Segreto di Stato avrebbe potuto fermare quelle indagini”. Poi quell’iscrizione non c’è stata e nella notte tra il 16 e il 17 aprile del 2003 Gabriele Chelazzi moriva prematuramente per un infarto.

Borsellino e il “Corvo2”
In merito all’esposto anonimo denominato “Corvo2” (che di fatto anticipava alcuni riferimenti alla trattativa in relazione a Calogero Mannino) Di Matteo ha ricordato che sulla base delle dichiarazioni del tenente Canale si era saputo che Paolo Borsellino lo aveva certamente letto prima dell’incontro del 25 giugno ’92 alla Caserma Carini e che appositamente per questo aveva voluto incontrare Giuseppe De Donno (poi invece all’incontro era andato anche Mori, ndr). Tutto ciò a dimostrazione che non era la discussione del rapporto del Ros “mafia e appalti” quella che interessava al magistrato. Di fatto in data 8 luglio ‘92 l’anonimo era stato assegnato nella trattazione del procedimento proprio al giudice Borsellino; per non parlare del biglietto del generale Antonio Subranni, indirizzato all’allora procuratore della Repubblica di Palermo, Pietro Giammanco, con allegato comunicato Ansa del 2 luglio 1992 in merito alla posizione del Ros sull’anonimo “Corvo2”. “Caro Piero – scriveva Subranni – ho piacere di darti copia del comunicato dell’Ansa sull'anonimo delle otto pagine. La valutazione collima con quella espressa da altri organi qualificati Buon lavoro, affettuosi saluti Antonio”. Il comunicato allegato recitava così – Roma 2 luglio: “Sono illazioni ed insinuazioni, affermano dal comando generale dei carabinieri riportando valutazione degli organi operativi che stanno valutando il documento, (Ros e Sco)che possono solo favorire lo sviluppo di stagione velenose e disgreganti. Oggi si può responsabilmente affermare che talune situazioni – proseguiva la nota – affermazioni appaiono talmente assurde e paradossali da evidenziare in modo addirittura puerile con cui si cerca di delegittimare gli esponenti politici siciliani e nazionali nel documento indicato”. Una sorta di “indicazione” all’archiviazione. “I carabinieri – ha evidenziato Di Matteo – vennero cercati da Borsellino per parlare di quell’anonimo e i carabinieri bloccarono quell’indagine!”.

Il covo di Riina
Successivamente Di Matteo ha ripreso ampi stralci della sentenza del 2006 (divenuta definitiva) nei confronti di Mori e De Caprio per la mancata perquisizione del covo di Riina. “L’omissione della comunicazione all'Autorità Giudiziaria della decisione, adottata dal cap. De Caprio nel tardo pomeriggio del 15 gennaio stesso – recitava la sentenza riletta oggi dal pm –, di non riattivare il servizio il giorno seguente, e poi tutti i giorni che seguirono, è stata spiegata dal col. Mario Mori, nella nota del 18.2.93, con lo ‘spazio di autonomia decisionale consentito’ nell'ambito del quale il De Caprio credeva di potersi muovere, a fronte delle successive ‘varianti sui tempi di realizzazione e sulle modalità pratiche di sviluppo’ delle investigazioni che si intendeva avviare in merito ai Sansone, una volta che i luoghi si fossero ‘raffreddati’. Ciò però non era e non poteva essere, alla luce della disciplina ex art. 55 e 348 c.p.p. delle attività di polizia giudiziaria. Ed infatti, fino a quando il Pubblico Ministero non abbia assunto la direzione delle indagini, la polizia giudiziaria può compiere, in piena discrezionalità, tutte le attività investigative ritenute necessarie che non siano precluse dalla legge ai suoi poteri; dopo essa ha il dovere di compiere gli atti specificatamente designati e tutte le attività che, anche nell'ambito delle direttive impartite, sono necessarie per accertare i reati ovvero sono richieste dagli elementi successivamente emersi”. Parole inequivocabili, sancite da una sentenza definitiva, che riportano l’attenzione sulle  tante “omissioni” che sovrastano questo processo. Nel citare la sentenza sulla mancata perquisizione al covo di Riina Di Matteo ha sottolineato la “specifica rilevanza in ordine alla configurabilità del favoreggiamento mediante omissione”, quindi “non solo in qualsivoglia atteggiamento attivo prestato per favorire l'elusione delle indagini ma, intendendosi estensivamente il termine ‘aiuto’, anche nelle condotte puramente omissive, quali il silenzio e la reticenza. che siano state oggettivamente idonee a sviare e rallentare le indagini o comunque turbare la funzione giudiziaria”.

La conclusione
“E’ indubbio – ha concluso Nino Di Matteo – che esistono numerosi, precisi, gravi e convergenti elementi che devono portare ad una conclusione giudiziaria certa, che è quella dell’affermazione della responsabilità penale di entrambi gli imputati, al di là di ogni ragionevole dubbio. Nell’affermare la penale responsabilità e nel condannare gli imputati Mori e Obinu, rispettivamente alle pene richieste di anni 9 di reclusione (per Mori) e anni 6 e mesi 6 di reclusione (per  Obinu) renderete un’opera di giustizia e renderete onore anche ai tanti servitori dello Stato, ai tanti carabinieri che quotidianamente affrontano il loro lavoro con costo enorme di sacrifici e di rischi”.
La sentenza è prevista per mercoledì 17 luglio al termine della conclusione delle controrepliche dei legali degli imputati.

Foto © Castolo Giannini

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