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strage-capacidi Miriam Cuccu - 23 maggio 2013
A distanza di 21 anni dalla strage di Capaci ancora molti dubbi permangono sulla messa a punto dell'”attentatuni” e sui personaggi, mafiosi e non, che vi parteciparono. Il 23 maggio 1992 il tratto autostradale su cui transitavano Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i quattro uomini della scorta Rocco Di Cillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro, Giuseppe Costanza (miracolosamente sopravvissuto insieme agli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo) venne sventrato da una voragine lunga dodici metri, larga quattordici e profonda tre e mezzo. Ma ne lasciò una ben più profonda e dolorosa nelle vite di chi ha camminato al fianco di Falcone condividendone gli ideali, così come nelle vite di coloro che vedevano in lui un luminoso faro di speranza. Ancor più profonda, se possibile, è forse quella voragine di dubbi e misteri che non ha ancora permesso di capire chi si occupò, insieme a Cosa nostra, dell'organizzazione di un attentato che non ha eguali nella storia: un'imboscata tecnicamente impeccabile mirata a colpire una macchina che viaggiava ad alta velocità. Una preparazione ineccepibile, correlata da diversi sopralluoghi e 'prove' scrupolosamente cronometrate svolte con la macchina su e giù per l'autostrada. Ma dopo i 24 ergastoli che la mafia pagò a seguito del processo, ancora i veri mandanti della strage di Capaci rimangono senza volto.

Un fondamentale contributo al filone investigativo arrivò nel 2008 dal pentito Gaspare Spatuzza, figura chiave per determinare il progresso delle indagini (così come per smascherare il depistaggio messo in atto sulla strage di via D'Amelio). Spatuzza si autoaccusò di aver procurato l'esplosivo per il giudice Falcone e descrisse il fondamentale ruolo svolto dalla famiglia di Brancaccio capeggiata dai Graviano. Così venne in qualche modo ricostruito il commando mafioso, grazie anche alle deposizioni di altri collaboratori di giustizia come Gioacchino La Barbera, che si occupò dei sopralluoghi volti a trovare il punto in cui piazzare la bomba, e Giovanni Brusca, “l'uomo del telecomando”, che dietro la collina aspettò il momento giusto per premere il pulsante.
Sono proprio le dichiarazioni di Spatuzza insieme a Fabio Tranchina ad aver permesso gli ultimi arresti, avvenuti lo scorso aprile, che delineano con maggiore precisione i componenti del commando mafioso che prese parte alla strage. Otto nomi finora mai presi in considerazione, tutti appartenenti alla cosca di Brancaccio. Tra gli arrestati anche Cosimo D'Amato, pescatore di Santa Flavia (Palermo). L'uomo era già stato accusato dalla Procura di Firenze per aver fornito l'esplosivo adoperato nelle stragi del '93 a Firenze, Roma e Milano. Ora i pm nisseni gli contestano anche di aver recuperato l'esplosivo usato per Capaci da residuati bellici presenti in mare. Gli altri esponenti della famiglia di Brancaccio, tra boss e gregari, sono Mario Salvatore Madonia, Giuseppe Barranca, Cristofaro Cannella, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino, Lorenzo Tinnirello. Insieme ad alcuni di loro Spatuzza raccontò di essere andato a Porticello di Palermo, dove salirono su un peschereccio, recuperando così l'esplosivo contenuto in alcuni cilindri. Il “team” si occupò in seguito dell'estrazione del materiale esplosivo, precedentemente trasportato in un magazzino a Brancaccio. Solo che “L'esplosivo non bastò. Ci recammo a prelevare altri due bidoni alla Cala, sempre legati a un peschereccio” dichiarò Spatuzza.
La fase organizzativa di Cosa nostra viene così completamente ricostruita. Tuttavia, dopo 21 anni, quella voragine di coincidenze e mezze verità è ancora lì, a testimoniare una convergenza di interessi e una collaborazione certamente esistita tra quel commando mafioso e uomini esterni a Cosa nostra, che diedero un significativo contributo volto al perseguimento di un obiettivo comune: l'eliminazione un magistrato diventato sempre più scomodo.
Forse è per questa ragione che, mentre Riina inizialmente decise “di dare inizio alla stagione stragista fuori della Sicilia, in particolare creando le condizioni affinché si potesse attentare alla vita del dott. Falcone a Roma” in un secondo momento cambiò idea. Ancora non si sa per quale ragione il boss di Cosa nostra preferì calare cinquecento chili di tritolo sotto un'autostrada anziché organizzare un attentato con armi tradizionali nella capitale, dove Falcone si muoveva senza scorta.
Non si può dimenticare, inoltre, la presenza di una figura chiave nella messa a punto della strage, che è Pietro Rampulla, l'artificiere del commando terrorista. Uomo di fiducia della famiglia di Santapaola e grande esperto di ordigni esplosivi, apparteneva inoltre ad ambienti eversivi di estrema destra. Fu lui infatti a mettere a punto il radiocomando usato a Capaci, che Brusca usò solo per caso dopo che Rampulla si dileguò dal luogo dell'attentato adducendo un “impegno di famiglia”. Così a ridosso dell'autostrada rimase solo Cosa nostra ad aspettare le macchine del giudice e della sua scorta.
Ancora, non si può dimenticare che, vicino all'imboccatura del cunicolo dove è stato immesso l'esplosivo, sono stati ritrovati due guanti in lattice usati insieme a un tubetto di mastice e a un sacchetto di carta con una torcia a pile. Tutti oggetti che, anche se fossero stati distrattamente dimenticati dalla squadra mafiosa, non potevano servire nel calo dell'esplosivo lungo il cunicolo, dato che guanti di materiale così delicato si sarebbero lacerati subito.
Questi e molti altri episodi (come le dichiarazioni del neofascista Elio Ciolini, che previde le stragi, o il suicidio in carcere di Antonino Gioè, che insieme a Brusca aspettava l'arrivo di Falcone a Capaci) fanno pensare ad una regia messa in atto da alcuni personaggi che si muovevano più o meno dietro le quinte nella preparazione della strage per poi dileguarsi in punta di piedi, lasciando che fosse solo Cosa nostra a pagarne il prezzo.

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