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di-matteo-nino-c-giannini-big1La requisitoria di Nino Di Matteo alle battute finali
di Lorenzo Baldo - 30 aprile 2013
Palermo. La requisitoria del pm Nino Di Matteo al processo per la mancata cattura di Provenzano procede a ritmo incalzante. Lo stralcio della motivazione della sentenza della Corte di Assise di Firenze (1998) per le stragi nel “Continente” viene letto dal sostituto procuratore di Palermo alla fine dell’udienza a dimostrazione che a parlare per primi della “trattativa” Stato-mafia furono gli stessi protagonisti (alcuni dei quali attualmente sotto processo), prima ancora che i pentiti o i figli dei sindaci mafiosi. Accanto a Di Matteo sono seduti il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e il sostituto Roberto Tartaglia. E’ sufficiente riascoltare quelle parole per ricomporre il mosaico.
Mario Mori: “Ma signor Ciancimino, ma cos'è questa storia qua? Ormai c'è muro, contromuro. Da una parte c'è Cosa Nostra, dall'altra parte c'è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente? La buttai lì convinto che lui dicesse: 'cosa vuole da me colonnello?' Invece dice: 'ma, sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo'. E allora restammo... dissi: 'allora provi'. E finì così il secondo incontro, per sintesi ovviamente”. (…) “Lui capì a modo suo, fece finta di capire e comunque andò avanti. E restammo d'accordo che volevamo sviluppare questa trattativa”. (…) “Si rividero, sempre a casa di Ciancimino, il 18-12-92. In questa occasione Ciancimino gli disse: ‘Guardi, quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l'intermediario sono io - Ciancimino - e che la trattativa si svolga all'estero. Voi che offrite in cambio?’”.

Giuseppe De Donno: “Allora convenimmo che la strada migliore era quella di avvicinare sempre di più il Ciancimino alle nostre esigenze, cioè di portarlo per mano dalla nostra parte. E gli proponemmo di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti dell'organizzazione mafiosa di Cosa nostra. Al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest'attività di contrasto netto, stragista nei confronti dello Stato. E Ciancimino accettò. Accettò questa ipotesi con delle condizioni. Innanzitutto, la condizione fondamentale era che lui poteva raggiungere il vertice dell'organizzazione siciliana, palermitana, a patto di rivelare i nominativi miei e del comandante al suo interlocutore”.
Giudici di Firenze: “Allo stato, infatti, non v’è nulla che faccia supporre come non veritiere le dichiarazioni dei due testi qualificati sopra menzionati (Mori e De Donno, ndr), salvo alcune contraddizioni logiche ravvisabili nel loro racconto (non si comprende, infatti, come sia potuto accadere che lo Stato, ‘in ginocchio’ nel 1992 - secondo le parole del gen. Mori - si sia potuto presentare a ‘cosa nostra’ per chiederne la resa; non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa fino al 18-10-92, si sia trasformato, dopo pochi giorni, in confidente dei Carabinieri; non si comprende come il gen. Mori e il cap. De Donno siano rimasti sorpresi per una richiesta di ‘Show down’, giunta, a quanto appare logico ritenere, addirittura in ritardo)”. (…) “Sotto questi profili non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di ‘trattativa’, ‘dialogo’, ha
espressamente parlato il cap. De Donno (il gen. Mori, più attento alle parole, ha quasi sempre evitato questi due termini), ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata (prendere tempo; costringere il Ciancimino a scoprirsi o per altro) di contattare di vertici di ‘cosa nostra’ per capire cosa volessero (in cambio della cessazione delle stragi)”.
“Sono loro - ha sottolineato con forza il Pm - a usare l’espressione trattativa e a dire che si doveva tenere un dialogo con Ciancimino, concedendogli il passaporto per proseguire la trattativa anche all'estero e cercando di intervenire sulla sua situazione giudiziaria!”.
Già nella ricostruzione iniziale della sua requisitoria Di Matteo aveva ricordato le “gravissime omissioni” che “hanno caratterizzato il mancato sviluppo delle indicazioni fornite immediatamente dopo il 31 ottobre del ’95 dal colonnello Riccio sulla persona di Giovanni Napoli, gestore della latitanza di Provenzano”. Subito dopo il pm ha rimarcato la “grave, ingiustificabile, assoluta inerzia investigativa avente ad oggetto la persona di Nicolò La Barbera”. E proprio con riferimento a La Barbera il pm ha evidenziato “le omissioni del Ros” e “le oggettive anomalie del procedere investigativo, con la sistematica prospettazione di dati non veritieri alla procura della Repubblica raggiungono veramente l’apice della loro evidenza”. “Seguendo Nicolò La Barbera si sarebbe certamente arrivati a Bernardo Provenzano – ha sottolineato – e con ogni probabilità anche ad altri latitanti e segnatamente a Benedetto Spera, così come con un’attività di breve periodo accadrà alla squadra Mobile di Palermo cinque anni dopo allorquando il 31 gennaio del 2001 venne catturato Benedetto Spera e abbiamo visto Bernardo Provenzano solo per un colpo di fortuna sfuggì a sua volta all’arresto”.
Di Matteo ha quindi citato il decreto di archiviazione con riferimento all’indagine nei confronti del col. Michele Riccio per l’ipotesi di calunnia avanzata dal generale Mori. Il pm ha riletto quanto ha scritto il gip in merito alla “sussistenza delle plurime omissioni” che “nell’ambito delle investigazioni finalizzate alla ricerca del latitante Provenzano hanno contrassegnato l’attività istituzionale dei carabinieri del Ros”. “Dette omissioni – ha scritto il gip nel provvedimento citato dal pm – devono essere valutate assolutamente incompatibili sia con un’efficace cristallina strategia investigativa, sia con la specifica competenza indiscussa elevatissima professionalità di Mori e Obinu”. Secondo il giudice per le indagini preliminari quelle condotte e quelle omissioni sono state di fatto “finalizzate a salvaguardare lo stato di latitanza di Provenzano e nella stessa ottica a preservare dalle iniziative dell’autorità gli associati mafiosi Napoli Giovanni e La Barbera Nicolò”. Nel decreto di archiviazione il giudice ha quindi evidenziato come “la condotta assunta e perpetuata dal generale Mori e dal colonnello Obinu non sia da ascrivere a difficoltà tecniche ed organizzative né ad errori di valutazione”, sottolineando invece come “le acquisizioni istruttorie convergono tutte nell’ascrivere la condotta suddetta ad una deliberata strategia di inerzia caratterizzata dalla finalità di agevolazione recepita dall’imputazione elevata dall’organo inquirente con la richiesta di rinvio a giudizio”. “Un giudice – ha esclamato Di Matteo –, non solo oggi questo ufficio di procura ha, a nostro parere, perfettamente descritto e definito la condotta degli imputati!”
Di Matteo ha ricordato successivamente le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Antonino Giuffré e Stefano Lo Verso su quanto si diceva dentro Cosa nostra in merito ai rapporti tra Provenzano e autorevoli esponenti delle forze dell'ordine e in particolare dei carabinieri. Un altro capitolo importante della requisitoria del pm ha riguardato la copertura della latitanza di Nitto Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto da parte degli uomini del Ros che facevano riferimento allo stesso Mori. Ulteriori tasselli di un puzzle che, pur faticosamente, continua via via a comporsi all’interno dello scenario della trattativa tra Stato e mafia. Una ignobile e duratura trattativa che anche oggi è stata messa sotto i riflettori per fissare il contesto nel quale gli imputati si sono mossi. Molta attenzione poi è stata riservata al periodo che parte dal 1991 quando Falcone andò al ministero della giustizia, focalizzando il ruolo dell’ex ministro Calogero Mannino e dei suoi legami con il generale Antonio Subranni e con il maresciallo ucciso dalla mafia Giuliano Guazzelli. La conclusione della requisitoria è prevista per venerdì 10 maggio.

Foto © Castolo Giannini

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